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Tuttavia la ricezione americana della cattura e del processo ad Adolf Eichman contrasta decisamente con la rivendicazione ebraica della memoria dell’Olocausto così come si è imposta a partire dagli anni Settanta. Non è infatti solo la stampa dell’epoca a prendere le distanze da Israele ma ad esempio è persino la stessa Union of Orthodox Jewish

Congregations a temere che il processo avrebbe gettato in

cattiva luce gli ebrei agli occhi del mondo intero e riattivato l’antico pregiudizio sul loro carattere vendicativo. La rievocazione degli orrori e delle atrocità compiuti dai nazisti, vengono insomma generalmente viste come una potenziale minaccia per l’audience americana e per l’integrazione sociale degli ebrei americani. Le ricerche di Novick confermano il tentativo delle associazioni ebraiche di promuovere una lettura universalizzante del processo, una lettura cioè che mostrasse all’opera una lezione contro i rischi e le derive disumane del totalitarismo, anziché una sorta di alibi della eterna sofferenza ebraica120.

120 «In un incontro con i responsabili della radio e della televisione che

dovevano occuparsi della copertura del processo Eichman, il leader della

American Jewish Committe, John Slawson affermò che oggetto del processo era

il monito nei confronti del totalitarismo che persiste ancora oggi nel mondo. Pertanto il tema su cui bisognava insistere nella diffusione delle notizie riguardava il fatto che ciò che è accaduto non dovrebbe mai più ripetersi da nessuna parte e per nessun popolo». P. Novick, The Holocaust in American Life, cit., p. 132.

Si potrebbe aggiungere che anche la celebre interpretazione data da Hannah Arendt (che a lungo ha condizionato la storiografia del nazismo) fu anch’essa del tutto funzionale a vedere in Adolf Eichman la conferma empirica della sua teoria sul totalitarismo121 – esigenza comunque comprensibile in un momento storico in cui era la bomba atomica, anziché la cancellazione dei crimini nazisti, la minaccia e il monito che effettivamente venivano associati agli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Anche se è indubbio che il processo Eichman costituisce il primo incontro del pubblico americano con un oggetto distinto e precisamente ebraico definito come “Olocausto”122, la

121 Il successo della formula di Arendt ha diffuso uno stereotipo persistente

che ha indotto ad esempio a vedere la macchina burocratica nazista come un monolitico quanto perfetto ingranaggio di cui Eichman rappresentava l’anonimo esecutore perfetto. La storiografia più avanzata ha ormai abbandonato da tempo questa visione del regime nazista (che come tutti i regimi viveva anche di corruzione, lotte interne per il potere, mancato coordinamento e tensioni tra i vari reparti e ministeri, ecc…. ) L’Eichman della Arendt, vale a dire l’asettico killer da scrivania, ebbe un influenza determinante su molta ricerca accademica tesa a descrivere lo sterminio come un effetto intrinsecamente legato alla modernità e come scrive lo storico David Cesarani nel suo studio su Alfred Eichman, «Hanna Arendt non assistette alla sua performance e se andò dopo pochi giorni di testimonianza di Eichman. Fu presente soprattutto durante l’enunciazione dei capi d’accusa e le testimonianze dei sopravvissuti Di conseguenza il suo ritratto di un Eichman burocrate incolore si basa su una fase processuale in cui l’imputato rimase deliberatamente passivo allo scopo di non fornire all’accusa argomenti con cui sostenere che era un fanatico», tuttavia egli prosegue, «ancora oggi chiunque scriva lavora all’ombra di Harendt. Il suo concetto di “banalità del male”, unitamente alla tesi di Milgram sull’inclinazione all’obbedienza all’autorità, per due decenni ha stretto in una camicia di forzala ricerca sulla Germania nazista e sulla persecuzione degli ebrei». D. Cesarani,

Eichman, His Life and Crimes, William Heinemann, London, 2004, tr. it.,

Mondadori, Milano, 2006. Le spiegazioni date al comportamento di Eichman era dunque funzionali a offrire un modello di comprensione del mondo moderno (dai sistemi totalitari, alla minaccia nucleare e alla guerre in Vietnam) e se per i conservatori il parallelo dell’automatismo di Eichman con il sistema sovietico era una rassicurante propaganda , per la sinistra l’esistenza di Eichman poteva spiegare come mai una persona normale potesse macchiarsi di atrocità utilizzano armi di distruzione di massa contro popolazioni civili (come in indovina e poi in Vietnam).

122 È infatti durante la copertura giornalistica del processo il termine

“olocausto” viene agganciato ai crimini nazisti compiuti contro gli ebrei nella seconda guerra mondiale, ma esso non è il frutto di una visione cristiana e sacrificale dell’evento, quanto della traduzione che i giornalisti americani adottano per la parola Shoah. Sin dalla fine degli anni Cinquanta d’altronde le

risonanza della sua specificità e dei suoi accenti sacrali – che si riflette nella difesa ad oltranza della sua unicità – è senz’altro una costruzione successiva che appare più intimamente legata alla delicata situazione geopolitica di Israele. È insomma la Guerra dei Sei Giorni, più del processo Eichman a creare un decisa vicinanza tra il contesto americano e l’identità ebraica e ad integrare l’Olocausto nella coscienza religiosa degli ebrei americani guardando allo stato di Israele come a una sorta di mito redentore. Tuttavia non sembra plausibile vedere nel radicale mutamento che la memoria dell’Olocausto subisce tra gli anni Sessanta e Settanta, un’unica e condivisa strategia che porrebbe al centro della coscienza americana lo sterminio del popolo ebraico con lo scopo di difendere e rafforzare l’isolamento e la vulnerabilità di Israele in Medio Oriente.

Certamente è anche in questa ottica che ad esempio è possibile leggere melodrammi come Exodus (O. Preminger, 1960) o varie spy story quali Odessa File (Dossier Odessa R. Neame, 1974) film ovvero che propongono apertamente

l’equazione tra il mondo arabo e il nazismo, o quantomeno

la loro connivenza nel comune odio per gli ebrei. In ogni caso si può essere d’accordo con Novick nel ridimensionare la portata dell’ipotesi che la politica americana nei confronti di Israele sia stata dettata dalla progressiva centralizzazione della memoria dell’Olocausto:

Quando l’Olocausto era ancora vivo nella mente dei leader americani – ovvero nei primi venti anni dopo la fine della guerra – gli Stati Uniti era decisamente più interessati ad aprirsi al mondo arabo piuttosto che a supportare Israele. I loro aiuti sono cominciati effettivamente non quando Israele era percepito come

pubblicazioni in inglese edite dallo Yad Vashem traducevano Shoah con

un piccolo stato debole e indifeso, ma dopo la Guerra dei Sei Giorni, vale a dire dopo la sua aperta dimostrazione di forza. Inoltre il presidente che ha inaugurato un massiccio appoggio economico e militare verso Israele fu Richard Nixon, vale a dire il meno sensibile a sentimentalismi o considerazioni di ordine morale tra tutti i presidenti americani del dopoguerra123

È inoltre evidente inoltre che a partire dall’intifada palestinese del 1987, la possibilità di giustificare la politica di Israele attraverso le lenti dell’Olocausto, diviene via via meno plausibile, poiché appare chiaro non solo che essa è ormai la più importante potenza militare nella regione, ma soprattutto che le sue minacce non derivano soltanto dall’ostilità araba nei suoi confronti, quanto dai suoi errori in politica estera e nella gestione del problema palestinese in particolare. È in questo orizzonte ad esempio che andrebbe sviluppata una lettura in parallelo, nel tentativo cioè di mostrarne la logica di co-implicazione, tra i due film di Spielberg, Scindler’s List e Munich (2005).

Dunque se scartiamo o quantomeno ridimensioniamo la portata di questa strategia politica dobbiamo ammettere che nel contesto americano la progressiva connotazione ebraica dell’Olocausto assume anche significati più complessi. Essi più precisamente si inseriscono secondo Novick nel più vasto orizzonte di riemersione dello stesso concetto di identità e di

rivendicazione etnica che caratterizza la società americana

degli anni Sessanta. Nel movimento dei diritti civili, nelle rivendicazioni delle donne e più in generale in quel

passaggio da una comunità immaginata124 ad una

costellazione di identità etniche che reclamano il proprio

123 P. Novick, The Holocaust in American Life, cit. p., 166

124 Cfr. B. Anderson, Imagined Communites, Verso, London-New York, 1991,

particolarismo e i propri diritti, rientra dunque anche la mutata coscienza degli ebrei americani. È in questo diverso clima – in cui prende forma quella cosiddetta cultura della

vittimizzazione attraverso cui ogni gruppo rafforza la propria

identità e richiede attenzione e giustizia per i torti subiti – che anche gli ebrei americani secondo Novick riscoprono e rivendicano in modo decisivo il loro specifico Olocausto. Si tratta di un fenomeno complesso che non possiamo qui discutere in profondità, soprattutto per quanto riguarda le implicazioni attraverso cui la cultura della vittimizzazione si è trasformata in una sorta di competizione in cui si contesta agli ebrei la difesa ad oltranza del primo posto125.

Piuttosto ci sembra interessante notare che l’ipotesi di Novick può essere rafforzata dalla lettura di The Pawnbroker (L’uomo del banco dei pegni, S. Lumet, 1964). Esso non è solo uno dei primi e più importanti film americani incentrati sulla figura del sopravissuto e costruiti con un linguaggio filmico del tutto innovativo (si pensi all’uso intensivo quanto anomalo del flashback, che tenta di restituire la tensione interiore del protagonista, un sopravvissuto dei campi di concentramento che non riesce a reintegrasi nella vita sociale). The Pawnbroker definisce anche una nuova coscienza sociale delle etnie della società americana collocando Nazerman – il personaggio interpretato da Rod

125 La mozione presentata nell’ottobre 2007 al Congresso Americano per

utilizzare il termine “genocidio”nel caso degli Armeni, ha infatti suscitato non solo le dure reazioni di Ankara, ma anche un acceso dibattito interno e numerose perplessità della comunità ebraiche americane. di utilizzare la parola genocidio nel caso degli Armeni. N. Banerje, Armenian Issue Presents a Dilemma

for U.S. Jewis. Debate Over Killings in Turkey’s Past, «New York Times

Internationl», 19 ottobre 2007. Sui temi della vittimizzazione, e in particolare sulla vittima come nuova categoria sociale e sulla “compassione” come legame collettivo costruito dai media, rinvio in sintesi ai lavoro di G. Erner, La société

des victimes, Paris, Decouverte, 2005 e C. Eliacheff e D. S. Larivièr, Le temps des Victimes, Paris, Albin Michel, 2006.

Steiger – nella popolare Spanish Harlem abitata da ispanici e afro-americani (e dunque suggerendo una analogia tra la violenza urbana dei ghetti delle minoranze etniche americane e la reclusione nei campi nazisti del sopravissuto)126.