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Un melodramma nel cuore del Washington Mall (la vittima come luogo

vittima come luogo dell’enunciazione impersonale)

Gran parte dei discorsi e dei processi che fin qui abbiamo evidentemente solo accennato a grani linee, possono trovare una loro sintesi nelle vicende che hanno condotto all’edificazione del Museo federale di Washington (museo vale a dire finanziato dai soldi dei contribuenti e come tale considerato un’istituzione pienamente americana).

Nel ripercorre le vicende della creazione dello United States Holocaust Memorial Museum, Edward Linenthal mostra come esse siano attraversate da una serie complessa di motivazioni e da una estenuante negoziazione tra diverse esigenze, quali innanzitutto il dovere sacrale di una memoria dell’Olocausto e di un luogo di rappresentanza ufficiale per i sopravvissuti – espresso ad esempio dal loro

portavoce Elie Wiesel – e il calcolo politico

del progetto di un museo federale deputato alla memoria del genocidio ebraico. Ragioni secolari si incrociano insomma sin da subito con le esigenze pedagogiche o religiose, dal momento che il finire del 1977 – a causa delle negoziazioni avviate con l’OLP – passò alla storia come il punto di maggiore crisi nei rapporti tra il Presidente Carter e la comunità ebraica statunitense. Cosicché, quando in occasione del trentesimo anniversario della fondazione di Israele, il Presidente americano annunciò pubblicamente la formazione di una commissione per realizzare il più importante museo della memoria dell’Olocausto negli Stati Uniti, i commentatori dell’epoca interpretarono subito il progetto come un chiaro messaggio di avvicinamento ad Israele, e di conseguenza rivolto anche a rimuovere i contrasti interni con l’ebraismo americano.

Su questo sfondo si collocano inoltre le lunghe transazioni sulla configurazione estetica più adatta, sul luogo reputato più consono per la sua edificazione e infine sul messaggio e il tipo di “lezione” che il museo avrebbe dovuto esprimere. Certo è che il suo avvio e la sua inaugurazione ufficiale coincidono simbolicamente con i due decisivi eventi mediatici di Holocaust e Schindler’s List, e in tal senso questo arco di tempo segna anche il definitivo inserimento della memoria dell’Olocausto tra i pilastri della cultura americana.

Da questo punto di vista appare decisiva la scelta di collocare il museo nel luogo sacrale per antonomasia degli Stati Uniti, vale a dire il Washington Mall, lo spazio commemorativo della memoria e della storia americana. Furono d’altronde numerose le perplessità di fronte a questa

decisione che, dopo lunghe transazioni, si sostituì alla iniziale proposta di edificare il museo a New York, l’epicentro della cultura ebraica americana:

Un museo costruito a New York anche se nazionale nelle intenzioni sarebbe stato chiaramente percepito come un museo ebraico edificato nel cuore della comunità ebraica americana, e la memoria dell’Olocausto sarebbe così rimasta nella “provincia” degli ebrei d’America. Un museo nazionale a Washington, dall’altro lato, avrebbe reclamato attenzione sulla memoria in modo più diffuso ma anche

controverso. I rappresentati dei gruppi delle vittime non

ebraiche si sentivano autorizzati a reclamare un posto di diritto in un’istituzione che ospitava la memoria nazionale nella capitale degli Stati Uniti. Questa decisione ha reso il lavoro della commissione infinitamente più difficile. Essi dovevano non soltanto sostenere gli imperativi del pluralismo americano – che riguardano una inclusione collettiva dei vari gruppi nella memoria storica – ma anche confrontarsi con la motivazione di questo luogo. Per di più dovevano decidere sulla forma architettonica estetica in grado di integrarsi nel modo migliore all’interno del paesaggio commemorativo del Washington Mall. L’architettura prescelta doveva riuscire ad esprimere l’enormità dell’evento in modo rispettoso per i sopravvissuti, molti dei quali sentivano che la scelta di questo luogo non avrebbe dovuto diluire la centralità del nucleo e del senso stesso dell’Olocausto ebraico135.

Collocato tra il Jefferson Memorial, il Lincoln Memorial, il Museum of American History e la Casa Bianca, il Museo dell’Olocausto di Washington diventa così assieme al Vietnam Veterans Memorial (quest’ultimo completato nel 1982) il luogo di un lungo dibattito politico e culturale. Tuttavia, diversamente dall’estetica negativa dei cosiddetti

contomonumenti, in cui pur si inserisce il memoriale della

guerra del Vietnam con la sua architettura minimalista, il museo dell’Olocausto adotta una strategia narrativa opposta

135 E. T. Linenthal, Perserving Memory. The Struggle to Create America’s

che permette di integrare la lezione del genocidio nel racconto collettivo dei valori americani celebrato nel Washinton Mall. L’impiego della moderna tecnologia audiovisiva unito all’accumulo di oggetti prelevati dall’Europa (un calco del muro del ghetto di Varsavia, una baracca del campo di Auschwitz che i visitatori possono attraversare nel percorso, ecc…) propone una esperienza narrativa di tipo immersivo e affettivo, un’incontro

insomma pienamente emozionale con il racconto

dell’Olocausto136. Nelle intenzioni dell’architetto James Freed, l’edificio che ospita il museo è, come gli stesso lo definisce, un risonatore di memoria che attiva una frattura all’interno dello spazio trionfalistico e celebrativo dei valori americani costruito nel Washington Mall. Recuperando la stessa architettura della fabbriche della morte, i visitatori escono per cosi dire momentaneamente dalla storia americana per entrare in questo luogo buio e straziante, poi «quando non sopportano più di avere il cuore spezzato [essi] riemergono alla luce […] e dopo aver visto l’incubo del diavolo, i grandiosi monumenti alla democrazia che attorniano ogni visitatore che si allontana dal memoriale, così come gli ideali che hanno presieduto la loro costruzione, assumeranno un nuovo significato»137. In questo senso la creazione del museo è anche il frutto di un’operazione di

dislocamento dei reperti europei e delle tracce dello

sterminio ebraico nel solco di una appropriazione americana di questa storia europea. Sin dal 1979 la commissione

136 Cfr. J. Winberg, R. Elieli, The Holocaust Museum in Washington, Rizzoli

International Pubblications, New York, 1995.

137 A. Rosenfled, The Americanization of The Holocaust, in Id., Thinking about

the Holocaust after a Century, Indiana University Press, Bloomington, 1997, p.

intavola infatti una serie di accordi intergovernativi con i paesi dell’Europa dell’Est per appropriarsi di vari artefatti e documenti relativi non solo all’Olocausto, ma potremmo dire più ampiamente preposti a ricreare per il visitatore americano la sensazione di trovarsi nel cuore dell’Europa centrale a cavallo degli anni Trenta e Quaranta. Prende forma insomma quello che gli stessi creatori definiscono uno

story-telling musuem costruito attraverso una struttura in

tre atti: Nazi Assault 1933-1939; Final Solution 1940-45;

Last Chapter. L’avvicendamento delle ipotesi prese in

considerazione per il finale appare in questo senso indubbiamente interessante. Pur concordi nel dover soddisfare il desiderio di redenzione e speranza del visitatore, i membri della commissione erano divisi sulla specifica drammaturgia visiva da impiegare. Innanzitutto ci fu un iniziale tentativo di lavorare con una drammaturgia invertita in cui vale a dire il visitatore avrebbe compiuto un percorso a ritroso dallo sterminio fino al cuore dell’Europa degli anni Trenta, recuperando quindi nel finale le comunità ebraiche così come esse vivevano prima dell’emergere della furia nazista (questo percorso invertito avrebbe dunque intrinsecamente garantito un happy ending, per cosi dire). Scartata questa ipotesi, vennero presi in considerazioni dei pannelli conclusivi che avrebbero esibito le bandiere degli Stati Uniti e di Israele, così come si ipotizzò di installare dei video con le immagini di genocidi contemporanei o comunque successivi all’Olocausto, per rafforzare il senso universalizzante e la lezione morale del racconto. Altri ancora proposero di chiudere il percorso con un grande pannello con la celebre fotografia del cancelliere tedesco

Willy Brandt genuflesso di fronte al Monumento al Ghetto di Varsavia. Ma l’impiego di una forma personalizzante si dimostrò decisamente più efficace. Come dimostra lo spazio antistante alla conclusiva Hall of Remembrance (il luogo preposto alle cerimonie religiose) il percorso si chiude con le testimonianze filmate, precedute da una breve biografia, di numerosi sopravvissuti dell’Olocausto, oggi per lo più cittadini americani. Siamo insomma di fronte ad una sorta di

sceneggiatura collettiva frutto della mediazione di una

pluralità di voci nel tentativo di mostrare sia il carattere di frattura che di esemplarità dell’Olocausto all’interno di un più ampio racconto corale, quale quello della democrazia americana. Da questo punto di vista esso sembra anche imporsi, assieme alla Dichiarazione di Indipendenza, come quel secondo momento di frattura che si trova alla base della costruzione di una memoria americana intesa come autonomizzazione, ovvero congedo dalla storia europea138.

Riflettendo sui rapporti tra architettura e narratività, il filosofo Paul Ricoueur trovava nella categoria di itinerranza – qualcosa a metà tra l’erranza e lo spirito domestico – l’interlocutore spaziale dell’identità narrativa. Il tempo raccontato e lo spazio costruito non si lasciano dunque pensare separatamente e il loro rimando è assicurato

138 Cfr. A. Lastra, American Memory, in M. Cometa (a cura di), Dizionario

degli studi culturali, Meltemi, Roma, 2004, pp. 55-61. Ci sembra interessante in

tal senso pensare alla “americanizzazione dell’Olocausto” nel solco di queste riflessioni di Antonio Lastra: «In tal modo, la memoria americana ha cominciato sin a elaborare sin dal principio una propria storia, intesa quasi sempre come una storia di salvezza o di riscatto dall’oblio degli elementi genuinamente americani:si è giunti in tal modo alla decisione che tutta la letteratura puritana precedente la Dichiarazione di Indipendenza deve essere letta come una specie di Antico Testamento, dotato di una capacità profetica sufficiente – Nehemias

Americans di Cotton Mather ne è l’esempio per eccellenza – al fine di annunciare

il Nuovo Testamento costruito dal testo stesso della Dichiarazione di

dall’idea di mondo del testo139. Anche il rimando tra lo spirito domestico del Washington Mall e l’erranza straziante del museo dell’Olocausto, tra la memoria della Shoah e la memoria americana è assicurato e integrato nell’orizzonte di un mondo il cui testo fondativo ha la struttura narrativa di un melodramma. Come nota Pravadelli, discutendo un recente contributo di Linda Williams: «in un volume dedicato al melodramma americano, non solo cinematografico, Williams propone almeno due tesi interessanti: da un lato che il riconoscimento della virtù di chi soffre è specifico del melodramma americano e che tramite quest’operazione la

cultura democratica americana ha articolato in modo forte la struttura morale del sentimento che anima la sua voglia di giustizia, dall’altro che il melodramma non è una tendenza o

una tradizione del cinema americano ma la sua modalità dominante»140.

Il melodramma inteso qui come scrittura affettiva degli

eccessi della storia si dimostra pertanto la forma ideale per

appropriarsi di una storia europea e renderla comprensibile al pubblico americano, ma soprattutto per integrarla negli ideali di questa cultura come uno dei suoi racconti fondativi. La logica melodrammatica e la logica dell’identificazione emotiva (promossa dal museo di Washington. così come da

Schindler’s List) sono d’altronde del tutto centrali nella

rappresentazione di avvenimenti storici. Negli anni più recenti la teoria del cinema ha mostrato come

139 P. Ricoeur, Architettura e narratività, testo scritto per la XIX triennale di

Milano del 1994, ora in P. Derossi, C. De Luca, E. Tondo (a cura di), Architettura

e narratività, Unicopoli, Milano, 2000, pp. 9-19.

140 V. Pravadelli, La grande Hollywood, cit., p. 202. In corsivo la citazione

tratta da L. Williams, Playng the Race Card. Melodramma of Black and White

from Uncle Tom to O.J. Simpson, Princeton University Press, Princeton, 2001, p.

melodrammatico e finzione siano quei due termini

peggiorativi, in un certo senso intercambiabili, a cui la critica si richiama maggiormente nei confronti del racconto storico popolarizzato dal cinema e dalla televisione. Evidenziando come questa alone di sospetto abbia a lungo impedito di considerare seriamente il rapporto tra la storia e il melodramma, la teoria contemporanea tenta piuttosto di mostrare come le strutture melodrammatiche, lungi dal definire uno spazio astorico e disimpegnato, siano alle base dei rapporti tra la distanza della scrittura storica e il coinvolgimento della narrazione. Oggi è evidente che siamo di fronte piuttosto ad una forma ibrida che le integra nella costruzione di una immaginazione e di una identificazione affettiva rivolta agli eventi del passato141. Così Thomas Elsaesser – che negli anni Settanta ha contribuito in modo decisivo al ripensamento del melodramma negli studi sul cinema142 – afferma che esso ha giocato un ruolo decisivo nella trasformazione del passato da “storia” in vivo ricordo, ma se tuttavia ciò è vero sin da The Birth of a Nation, nel corso degli ultimi decenni abbiamo assistito ad un decisivo cambiamento, in cui il melodramma si è trasformato da genere a modalità del sentire, e da modalità a visione del mondo:

141 Cfr. M. Landy (a cura di), The Historical Film. History and Memory in

Media, Rutgers, London, 2001.

142 I lavori seminali in tal senso sono (per quanto riguarda la teoria del

cinema) T. Elsaesser, Tales of Sound and Fury: Observations on the Family

Melodramma, in «Monogram», n. 4, 1972; tr. it., Storie di rumore e di furore. Osservazioni sul melodramma familiare, ora in A. Pezzotta (a cura di), Forme del melodramma, Bulzoni, Quaderni di Filmcritica, 23, Roma 1992; e più

ampiamente in riferimento al concetto di immaginazione melodrammatica e al melodramma come categoria estetica, P. Brooks, The Melodramatic Imagination:

Balzac, Henry James, Melodrama and the Mode of Excess, Yale University Press,

New Haven, 1976; tr. it., L’immaginazione melodrammatica, Pratiche, Parma, 1985.

Piuttosto che immedesimarci negli individui eroici che vinsero battaglie e sconfissero il nemico (o saperne di più su forze sociali come le classi e le ideologie, o su questioni economiche come l’accumulazione del capitale e la massimizzazione del profitto) sembriamo voler esperire la condizione delle vittime e dei sopravvissuti che hanno trionfato sulla morte attraverso il sacrificio o che sono sopravvissuti a disastri e avversità attraverso abissi di sofferenza e persecuzione. Qui il melodramma ha sostituito l’epica dell’età classica e il romanzo sentimentale della storiografia marxista (e di lotta, messa alla prova e vittoria finale) per diventare, in loro vece, la modalità apparentemente più naturale per raccontare i conflitti e gli antagonismi della nostra epoca post-illuminista che non crede più nel grande racconto del progresso143

Tuttavia, come notava già Primo Levi commentando

Holocaust e l’interesse dell’industria hollywoodiana per

questo tema – in un intervento decisamente meno emotivo e manicheo di quello di Wiesel, ma ahimè anche assai meno noto di quest’ultimo e praticamente mai citato - «fin da Eschilo lo spettacolo pubblico ha attinto alle sorgenti che più muovono il pubblico, e queste sono il delitto, il destino, il dolore umano, l’oppressione, la strage e la riscossa»144. E allora dove sarebbe la novità da questo punto di vista? Precisamente, seguendo il ragionamento di Elsaesser, essa è innanzitutto ravvisabile nel fatto che il melodramma non si offre più come una tragedia mancata, ma piuttosto come

l’unica modalità di tragedia oggi possibile proprio perchè

riferisce di un fallimento più generale, ovvero dell’intrinseca impossibilità di trascendenza della cultura postmoderna145.

143 T. Elasasser, A mode of Feeling or a View of the World? Family Melodrama

and the Melodramatic Imagination Revisited, in E. Dagrada (a cura di), Il melodramma, Bulzoni, Roma, 2007, pp. 61-62.

144 P. Levi, presentazione a “Olocausto” in Olocausto. Dalla realtà alla TV,

num. speciale del «TV radiocorriere», 1978, p. 2.

145 T. Elsaesser, A mode of Feeling or a View of the World? Family Melodrama

Ma soprattutto, prosegue Elsaesser, quale unico discorso universalizzante rimasto il melodramma permette di guardare alla vittima come a ciò che in linguistica si definisce un deittico (shifter), vale a dire quel termine (luogo) impersonale del discorso che può essere occupato da chiunque. Appare del tutto significativo il tal senso che tra i principi dell’Holocaust Museum vi sia un paragrafo che recita including all victims.

Il melodramma non permette dunque solo l’integrazione del racconto dell’Olocausto in una modalità specifica della cultura e dei racconti fondativi americani. Esso permette anche quella universalizzazione della condizione di vittima poiché essa è qui precisamente quel posto vuoto di cui chiunque può rivendicare la collocazione. È in questo senso che la storia raccontata nel museo di Washington (e in

Schindlers’ List) non può esclusivamente rivolgersi agli

ebrei, ma «deve essere raccontata in modo tale da risvegliare un’eco non soltanto nel sopravvissuto che vive a New York o nei suoi figli che abitano a San Francisco, ma anche nel leader nero di Atlanta, in un coltivare del Middlewest o in un industriale del Nord-Est (…) esso non parla di ciò che i tedeschi hanno fatto agli ebrei ma di ciò che l’uomo ha fatto all’uomo»146.