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Lettura tematica e lettura pragmatica della rappresentabilità »

rappresentabilità

Nel giugno del 2000 si è svolto al «Center for Advanced Holocaust Studies» di Washington D. C. (centro che è parte integrante dell’ U.S. Holocaust Memorial Museum) un work-

e incentrato sul tentativo di lavorare ad una loro lettura e ridefinizione nello spazio dei generi cinematografici32.

In quest’occasione veniva quindi notato come la classificazione all’interno dell’economia interpretativa di un

genere risulti problematica innanzitutto per i diversi regimi

dell’immagine e del racconto di volta in volta impiegati in questo vasto corpus di film. Si tratta com’è noto di un insieme che comprende e intreccia forme documentaristiche – materiali d’archivio e testimonianze – e ricostruzioni finzionali. Film cioè che utilizzano la Shoah come sfondo su cui collocare le vicende dei personaggi, o che lo affrontano direttamente, ma a loro volta attraverso l’impiego di drammaturgie del tutto divergenti tra loro che col tempo hanno coinvolto anche la dimensione favolistica e la parodia (sorvolando per il momento sulle ulteriori anomalie e aberrazioni dell’ambientazione concentrazionaria di film pornografici o più genericamente dei cosiddetti nazi-

sexploitation movie). Saremmo di fronte a un genere

evidentemente problematico che avrebbe la sua doppia nascita, per così dire, nella metà degli anni Cinquanta,

biforcandosi pressoché contemporaneamente nella

astrazione poetica del documentario di Alain Resnais, Nuit et

Brouillard e nelle forme del melodramma hollywoodiano di The Diary of Anne Frank (G. Stevens, 1959) o di Exodus

(O. Preminger, 1960) – film che ovviamente non definiscono la genesi un incontro cinematografico con l’evento33 ma

32 Ringrazio Michael Gelb del U.S. Holocaust Memorial Museum per avermi

fornito i contenuti dei paper discussi in questa occasione.

33 Oltre evidentemente ai materiali filmati dagli alleati all’apertura dei campi,

tra le finzioni possiamo citare ad esempio The Seventh Cross, di Fred Zinneman, 1944, ambientato in un campo concentramento tedesco, o il polacco Ostatni

Etap, di Wanda Kakubowska, 1948 – quest’ultimo girato sugli stessi luoghi di

costruiscono le tappe importanti di una germinale fase di rimemorazione dell’Olocausto nel discorso pubblico. Bisogna d’altronde notare che è solo retrospettivamente che

possiamo parlare di questi testi in riferimento

all’elaborazione di medesimo evento e della stessa memoria della Shoah (vale a dire di un campo preciso di implicazioni storiche e culturali pressoché assente dallo spazio pubblico fino agli inizi degli anni Sessanta). La struttura di questo

corpus e degli eterogenei materiali di cui esso si compone

nei dizionari tematici contemporanei – vedi su tutti quello del «Fritz Bauer Institute»34 – definisce oggi il percorso di una storia cinematografica dello sterminio ebraico che in quanto tale risale sino agli anni Trenta includendo numerosi materiali (finzioni, documentari, cinegiornali, film di propaganda antisemita e spy story hollywoodiane prodotte dalla propaganda antinazista). In tal senso siamo di fronte ad una costruzione discorsiva postuma che è il frutto della centralità assunta dalla Shoah ebraica tra gli eventi del XX secolo. Da questo punto di vista il metodo adottato nella lettura dei film – pur nel rigore della ricerca storiografica - non appare del tutto privo di consonanze con la

sintomatologia sociale del cinema tedesco proposta a suo

tempo da Sigfried Kracauer35.

Tuttavia a partire dalla fine degli anni Cinquanta, il complesso di queste “variazioni sul tema” è radunato dalla critica e dalla teoria di fronte ad una più o meno

34 Dal 1992 il «Fritz Bauer Institute» di Francoforte coinvolge storici e

archivisti nel progetto di raccolta dei materiali cinematografici riguardanti l’Olocausto. Dal 2000 esso pubblica in rete uno dei più importanti dizionari tematici sul tema (Cienmatography of the Holocaust). Al mese di giugno 2006 questo database contiene informazioni su 1731 film. Cfr. http://www.fritz-bauer- institut.de/cine/cine_e.htm

35 S. Kracauer, From Caligari to Hitler. A Psychological History of the German

consapevole assunzione del problema della rappresentabilità della Shoah – problema che soprattutto nella riflessione estetico-filosofica europea è via via sconfinato nel problema della rappresentabilità tout court. A questo paradigma si aggiunge – soprattutto nella critica americana – un parametro che fa leva invece sul grado di consapevolezza della connotazione ebraica dell’evento e dunque del film stesso36. Ma è evidente in ogni caso che ogni rappresentazione della Shoah per quanto nazionale e/o

microstorica (cioè riferita ad un episodio e alla memoria di

una nazione o di un etnia in particolare) si confronta con un evento preso nel concetto di Zivilisationsbruch, ossia di una

frattura di civiltà in cui si riuniscono sia la prospettiva

dell’esperienza subita storicamente e in particolar modo dal mondo ebraico, sia la mobilitazione di tutto l’orizzonte culturale del mondo occidentale nato dalle ceneri di Auschwitz37. Che cosa significa ad esempio la formula Holocaust Film Footage Definies Not Only the Event, But Our Relationship to It, con cui Delia Rios riassume i contenuti del workshop svoltosi a Washington ? Significa innanzitutto che

ogni teoria del genere che lavori soltanto sui testi filmici non potrà mai venire a capo della complessità e della costitutiva

36 Il criterio adottato ad esempio da Ilan Avisar nella sistemazione (e

valutazione) tematica dei film ricorre alla presenza o meno di una specificità ebraica del plot, a prescindere dalla forme impiegata – e in base a ciò gran parte dei film sono giudicati inadeguati. Cfr. I. Avisar, Screening the Holocaust.

Cinema’s Image of the Unimaginable, Bloomington, Indiana Univeristy Press,

1988.

37 Sulla dimensione epistemologica dell’evento storico Shoah mi riferisco qui

a D. Diner (a cura di), Zivilisationsbruch. Denken nach Auschwitz, Fanrkfurt am Main, Fisher, 1988. Vedi anche Beyond the Conceivable. Studies on Germany,

Nazism and the Holocaust, Berkeley, University of California Press, 2000, e in

italiano, Raccontare il Novecento. Una storia politica, Milano, Garzanti, 2000 (tit. orig. Das Jahrhundert verstehn: eine universallhistorishce Deutung, München, Luchterhand, 1999) e «Zivilisationsbruch»: la frattura di civiltà come

epistemologia della Shoah, in M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam, E.

Traverso (a cura di), Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli

eterogeneità espressa nella conflittuale dimensione pubblica di questa produzione. La sua connotazione intertestuale riguarderebbe cioè non soltanto gli specifici rimandi interni tra i testi ma soprattutto il loro debordare in una ampia e complessa sfera contestuale. In questo senso soltanto una teoria pragmatica del genere (come quella sviluppata da Rick Altman, ad esempio) potrebbe risultare utile per una approccio dinamico concentrato a rilevare gli svariati usi conflittuali di questa produzione, prendendo cioè in considerazione (e storicizzando dove possibile) la molteplicità delle letture attivate strutturate innanzitutto attorno al gioco sociale della approvazione/condanna38.

In una prospettiva estremamente critica sui lavori che si occupano di Holocaust Film, Terri Ginsberg39 denuncia la prevalenza di studiosi non specialisti – o comunque con scarsa confidenza nei confronti delle metodologie di analisi del film e della teoria del cinema – e di conseguenza orientati principalmente verso una lettura tematica dei testi filmici. Ciò che lei definisce come «theme/genre/author approaches of most non-film studies-based Holocaust

38 La proposta raccolta in Film/Genre (British Film Insitute, 1999, tr. it., Vita

& Pensiero, Milano, 2004) non confluisce soltanto in quell’ ampio scenario post- ontologico in cui va inquadrata la ripresa contemporanea della riflessione sul genere, ma ambisce a definirne in un certo senso anche la cornice metalinguistica e i postulati teorici di riferimento (vedi l’introduzione di F. Casetti e R. Eugeni, Altman e l’ornitorinco. Costruire e negoziare i generi

cinematografici, pp IX- XVII). Nel caso specifico di Altman il preventivo

disinnescarsi di ogni deriva essenzialista e testualista si attua con un allargamento del modello da lui stesso proposto nella precedente combinatoria

sintattico/semantica, a vantaggio di un approccio pragmatico che travalica in

certo senso i confini della riflessione sul genere, arrivando a proporsi nell’ambito più vasto di una teoria della comunicazione e dei processi di negoziazione culturale della contemporaneità

39 Cfr., T. Ginsberg, Holocaust Film. The Political Aesthetics of Ideology, CSP,

Cambridge, UK, 2007. Per un discorso allargato alla sfera contestuale veid anche B. Lawrence, Projecting the Holocaust into the Present: The Changing Focus of

cultural analysis»40 compone dunque il quadro critico preponderante di una letteratura in cui le implicazioni teoriche e culturali più vaste appaiono minoritarie. Più dettagliatamente Ginsberg rintraccia nel ricorso ostinato ad una prospettiva fenomenologica i motivi della schiacciante prevalenza di letture ontologiche – o comunque coinvolte in ciò che in riferimento all’influenza dei lavori di Deleuze sul cinema, Ginsberg definisce come una new ontological

faschion – letture cioè irriducibilmente incentrate su un

rapporto di sovrapposizione tra la rappresentazione e l’evento che a lungo hanno oscurato non solo la dimensione formale, ma soprattutto le radicali connessioni tra il contesto economico-produttivo e la ricezione/produzione storica dei testi. Queste rappresentazioni potrebbero essere definite invece nell’intersezione di una cosiddetta serie culturale41 in cui si inscrivono tutto un insieme di pratiche commemorative e pedagogiche (l’istituzione del giorno della

memoria e la visione dei film nelle scuole, i musei, i

monumenti, ecc….). Da questo punto di vista risulta particolarmente interessante l’estetica radicale – vedi su tutti Shoah di Lanzmann – di quegli oggetti che intendono porsi in un certo senso fuori dalla storia, autoproclamandosi come l’unica e definitiva opera possibile sull’argomento. Lo stesso Lanzmann ha fatto d’altronde della coincidenza

40 Id., p. 36, corsivo mio.

41 Il riferimento – qui decisamente da intendere in modo “non ortodosso” – è

alla nozione proposta da Gaudreault in opposizione a quella di “pratica culturale, soprattutto nell’ambito dei suoi lavori sul cinema delle origini. Essa ci qui interessa nella dimensione di “costruzione in prima persona” (da parte del ricercatore) dei legami tra in cui si trovano coinvolti oggetti e spazi culturali differenti. Cfr. A. Gaudreault, Les “vues cinématographique” selon Gerorge

Méliès, ou: comment Mitry et Sadoul avaint peut-être raison d’avoir tort (même si c’est surtout Deslandes qu’il faut relire), in J. Malthête e M. Marie (a cura di), George Méliès, l’illusionist fin de siécle, Paris, 1997.

metafisica tra il suo film e l’evento una sorta di estenuante battaglia culturale42.

Così, a dispetto della diffusione anche tra gli studi sul cinema dell’impostazione culturalista, del suo proclamato eclettismo metodologico e dell’intrinseco annullamento tra “Arte” e “cultura popolare” a favore di una pervasiva coesistenza di pratiche del senso, anche la critica ha a lungo inseguito il film assoluto sulla Shoah ovvero l’opera che convertisse sul piano della astrazione poetica o del racconto morale il regime delle prescrizioni e dei divieti imposti alla rappresentabilità dell’evento. Come vedremo è proprio in questo desiderio totalizzante, a nostro avviso, che si esercita e si definisce meglio il confronto tra Schindler’s List e Shoah. È in ogni caso sintomatico il fatto che tanto più aumentavano e debordavano nella sfera pubblica numerose rappresentazioni costruite consapevolmente nel gioco di rimandi e di scambi tra ossequio e trasgressione di questi divieti, tanto più la ricerca e la difesa dell’estetica dell’indicibile si faceva urgente, negando nella dicotomia e nel gioco della approvazione/condanna la complessità culturale di questo corpus eterogeneo. Non ci riferiamo solo alla produzione filmica evidentemente, ne ai casi ormai celebri come il fumetto di Spiegelman, Mauss. Del gioco tipicamente postmoderno che coinvolge e rielabora all’interno dello stesso testo l’ossequio e la trasgressione, da conto in modo esemplare la mostra Mirroring Evil. Nazi

Imagery Recent Art (New York, Jewish Museum, primavera,

42 Ossia come egli afferma la sua volontà era quella di fare «non pas un film

sur la Shoah ma un film qui soit la Shoa même» C. Lanzmann, Radiographie de

l’Holocauste, in «Liberation», 8 agosto, 2007. Si tratta di un articolo scritto in

occasione della morte dello storico Raul Hilberg (che collaborò alla realizzazione di Shoah). La frase estrapolata era la definizione con cui lo stesso Lanzmann presentava il suo progetto a Hilberg.

2002) attorno a cui si è acceso un vivace dibattito internazionale. Tra le opere esposte che hanno suscitato grande perplessità (e proteste della stesa comunità ebraica) spiccavano il LEGO Concentration Camp Set, di Zbigniew Libera (un Kit iperrealista della Lego per costruire pezzo dopo pezzo un campo di sterminio con tanto di personaggi da inserirvi all’interno), oppure l’autoritratto di Alan Schechner in cui l’artista si colloca, con una lattina di Coca Cola tra le mani, all’interno di una fotografia-documento dei sopravvissuti di Buchenwald (It’s The Real Thing. Sel-Potrait

at Buchenwald)43. Tra le possibili discussioni a cui ci richiamano queste opere vi è dunque il passaggio del

documento – filtrato nella decisiva esperienza

dell’allestimento museale – in oggetto culturale e in quanto tale esposto a tutte le controversie del consumo e delle diluizioni della cultura di massa. La memoria, insomma, con cui qui si confronta l’immaginario artistico è piuttosto una

post-memoria, secondo la definizione di Hirsch, ma anche e

43 Cfr. N. Kleeblatt (a cura di), Mirroring Evil: Nazi Imagey/Recent Art, New

York, Rutgers University Press, 2002. Un altro esempio significativo del gioco della trasgressione che affronta l’inadeguatezza della dinamica di approvazione e condanna delle rappresentazione ci è offerto dal libro (peraltro mediocre) della scrittrice belga Amélie Nothomb Acide sulfurique (Éditions Albin Michel, 2005, tr. it. , Acido solforico, Voland, Milano, 2006), nella cui quarta di copertina possiamo leggere che oggetto del racconto è «un reality show dall’inequivocabile nome Concentramento, basato su regole che ricordano il momento più orribile della storia dell’umanità. Per le strade di Parigi si aggira una troupe televisiva inviata a reclutare i concorrenti, che vengono caricati su vagoni piombati e internati in un campo dove altri interpretano il ruolo di kapò. La vita di tutti si svolge sotto l’occhio vigile delle telecamere e il momento di massima audience arriva quando i telespettatori decidono l’eliminazione- esecuzione dallo show di un concorrente attraverso il televoto (…)». Al di là dell’obiettivo di una facile e demagogica critica alla televisione, il libro della Nothomb è tuttavia interessante, poiché se in Mauss, nel serial televisivo

Holocaust, e in film come, La vita è Bella, o Train de Vie, gli emploitment della

cultura popolare (il fumetto, la commedia degli equivoci e la satira fantastica) venivano utilizzati per un tentativo differente di raccontare la Shoah, qui assistiamo ad un sensibile ribaltamento. Sono i campi di sterminio a fornire un serbatoio narrativo diverso per l’allestimento di un inedito reality show, il prodotto televisivo popolare per eccellenza: «Li scaricarono in un campo simile a quelli, non poi così remoti, di deportazione nazista, con un’unica differenza: telecamere di sorveglianza erano installate dappertutto» (p. 9).

soprattutto una più ampia nozione di cultura innervata dalle

riflessioni sulla memoria e i suoi dispositivi a cominciare

dall’immaginario cinematografico.

Se tra le questioni laceranti poste da Auschwitz vi fu anche quella di ripensare radicalmente possibilità e usi delle immagini è anche vero infatti che questo compito del pensiero ha percorso una sua traiettoria storica. Ovvero se il mondo è cambiato dopo il 27 gennaio del 1945, anche la nostra reazione nei confronti di una parola come Auschwitz ha oggi una sua storia (quasi nessuno, per intenderci, negli anni Cinquanta poneva la Shoah al centro degli eventi della seconda guerra mondiale e tanto meno la eleggeva a paradigma del XX secolo o della coscienza occidentale). È innanzitutto nel solco di questa storia che vanno letti e ricondotti i dibattiti sollevati dalle rappresentazioni filmiche. Non sono soltanto queste ultime che devono essere storicizzate (cosa che d’altronde è stata fatta o si sta compiendo). Anche i discorsi, le teorie e gli effetti sociali che come una glossa44 li hanno accompagnati nella loro circolazione, devono essere pensati e discussi nella definizione di in un contesto storico e culturale preciso.