Dunque tutto ciò si ascrive sia ad un dibattito filosofico che ha sottoposto ad una profondo ripensamento l’idea
44 Il termine definisce secondo Francesco Casetti il carattere principale dei
discorsi che accompagnano il fenomeno cinematografico, attraverso cui esso tenta di dare contemporaneamente una «definizione di sé che da senso al proprio operato; e insieme una definizione di sé che cerca di agire su una platea collettiva». F. Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, cit., p. 271. Vedi anche Id., La teoria del cinema nella storia del cinema italiano, in AA.VV., Un secolo di cinema italiano, Il Castoro, Milano, 2000, pp.129-149.
stessa di immaginazione poetica e rappresentazione, sia ad una disputa politica sulle immagini in cui tra un oggetto postulato come unico e indicibile e il suo consumo di massa si rintracciano le incomprensioni, le distanze, le diffidenze e i rispettivi pregiudizi con cui la cultura europea e quella americana si guardano reciprocamente. Se c’è un aspetto che salta immediatamente agli occhi nel ricostruire i dibattiti più importanti e le polemiche legate alla rappresentabilità della Shoah – e in particolare attorno ai film – esso è individuabile nella violenza discorsiva con cui si riaccende di volta in volta il gioco di queste reciproche incomprensibilità che, in un’epoca che ama definirsi postmoderna, ripropone sul piano etico la tensione intrinseca e l’inconciliabilità tra le pratiche del modernismo e la cultura popolare. Assegnando in modo ossequioso e quasi liturgico il film di Lanzman al dominio intoccabile della grande Arte e Schindler’s List nell’ambito di un astuto o irriverente entertainment
umanitario, la critica rischia insomma di riattivare la
tradizionale distinzione tra alto e basso – in cui le opere della prima schiera si celebrano e si studiano come testi
chiusi e quelle della seconda, se studiate, vengono trattate
al più come sintomi di altri fenomeni o rese oggetto di indagini sociologiche. D’altro canto, proponendosi in un esercizio di disorientamento che ribalti questo punto di vista, essa rischia anche di reiterare una ingenua celebrazione della cultura di massa con un argomento (altrettanto elitario) che – in base al semplice calcolo delle persone da essa raggiunte – stigmatizza la cultura alta come passatempo narcisistico per intellettuali accademici. Ma, come cercheremo di vedere, è proprio nell’orizzonte
discorsivo delle rappresentazioni della Shoah che questo vicolo cieco del dibattito culturale sembra non soltanto persistere, ma riconfigurarsi e sconfinare in una sfera apertamente politica. Chi si misura con i dibattiti e le polemiche sollevate attorno alle memorie della Shoah, deve essere insomma consapevole di muoversi in un orizzonte dove più che mai vi è la conferma che «il pensiero delle immagini, oggi, appartiene in larga misura al campo
politico»45. Come afferma Enzo Traverso, nonostante la
Shoah sia stata eretta a «religione civile»46 del mondo occidentale, essa rimane anche:
Un nodo conflittuale del presente, in quanto momento di condensazione di processi diversi: dalle interpretazioni del passato (apologetiche o colpevolizzanti) alla costruzione delle identità (ebraica, tedesca, europea, israeliana, americana, ecc…), passando attraverso la richiesta di riparazioni materiali e simboliche […] essa diventa un prisma di lettura
dell’attualità. È il destino di tutte le memorie vive, non
imbalsamate47.
Appare persino superfluo in questo contesto ricordare gli avvenimenti più recenti, come la Conferenza di Teheran sull’Olocausto, inaugurata nel dicembre 2006, voluta e promossa dal presidente iraniano Ahmadinejad e preceduta da una mostra di vignette satiriche che si fanno beffa del cosiddetto “mito inventato dagli occidentali”, o altri episodi meno eclatanti forse ma altrettanto allarmanti, come l’aggressione e il tentato sequestro subiti nel febbraio 2007
45 G. Didi-Huberman, Imagese malgé tout, Les Éditions de Minuit, Paris,
2003, tr. it., Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina, Milano, 2005, p. 79. Si tratta di un testo fondamentale su cui torneremo in modo dettagliato per ricostruire il dibattito francese sui limiti della rappresentazione.
46 L’espressione è dello storico americano Peter Novick. Cfr. Id., The
Holocaust in the American Life, Houghton Mifflin, New York, 1999.
47 E. Traverso, Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nella cultura del
dal premio nobel e icona della testimonianza della Shoah, Elie Wiesel, o le dichiarazioni (agosto 2007) dell’ex premier turco Necmettin Erbakan – definito “padre spirituale” dell’attuale presidente Abdullah Gül – rilasciate in un’intervista televisiva alla TV nazionale FLESH, in cui ha spiegato che il batterio ebraico deve esser diagnosticato e
deve essere trovata un cura, utilizzando insomma un
linguaggio che appare ricalcato su quello dei programmatori dell’esecuzione finale48. Dall’uso del negazionismo nei regimi islamici più autoritari per veicolare l’ostilità contro Israele, al dibattito aperto in paesi come la Francia o l’Italia circa l’opportunità dell’istituzione e dell’applicazione di leggi
memoriali49, la Shoah (o meglio il suo orizzonte discorsivo e gli usi a cui esso si presta) lungi dall’essere la pietra angolare del museo degli orrori del XX secolo, sembra ancora saldamente inserita nel flusso dei cambiamenti strutturali che investono la sfera geopolitica attuale e il campo della cultura contemporanea.
L’internalizzazione del dibattito e la formazione di una problematica cultura dell’Olocuasto, sviluppatasi soprattutto
48 Ed è sintomatico in tal senso che nel corso del recente conflitto tra Libano
e Israele, in Turchia fu vietata la programmazione televisiva del film di Roman Polanski, The Pianist.
49 La promulgazione di leggi memoriali tira in gioco evidentemente la delicata
normativa sui “reati di opinione”. Per quanto riguarda l’Italia si tratta del dibattito sollevato attorno al disegno di legge firmato dall’onorevole Mastella (gennaio 2007) e approvato all’unanimità in Consiglio dei Ministri, un provvedimento genericamente indirizzato tanto alle forme di razzismo che al negazionismo dell’Olocausto. D’altronde la Germania vorrebbe proporre all’Unione Europea l’adozione di una legge simile a quella in vigore della Repubblica Federale, in cui la negazione del genocidio è punita con la detenzione (come è accaduto allo storico inglese David Irving). Situazione ancora più singolare quella della Francia, dove a partire dalla legge «Gayssot» del 1990, promulgata per punire il negazionismo, il parlamento ha discusso dispositivi legislativi attraverso cui il “reato d’opinione” si estende al colonialismo, allo schiavismo al genocidio degli armeni. Anche qui è stato molto ampio il dibattito attorno all’opportunità di una legislazione memoriale così pervasiva e sui “confini” che essa impone alla discussione storiografica. Si veda ad esempio – in una chiave decisamente critica nei confronti delle leggi memoriali – R. Rémond,
a partire dagli anni Ottanta, ha trovato proprio nel cinema la superficie di una dimensione pubblica che evidentemente è anche il luogo di eterogenee strumentalizzazioni.
Dunque avvicinarsi alla produzione cinematografica che ha tentato di raccontare l’evento attorno a cui abbiamo disposto tutto il percorso del XX secolo, non significa certo cercare di interrogare la Shoah attraverso l’immaginario cinematografico e la cultura visuale. Piuttosto può essere l’occasione per porsi nuovi interrogativi sulla dimensione pubblica del cinema, sulla sua capacità di intercettare e di rielaborare nei modi che gli sono propri il flusso dei discorsi sociali50 che – in questo caso – definiscono lo spazio di inclusione del trauma collettivo nella costruzione della memoria culturale.