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La formazione tipica:

Nel documento La formazione pre-concorsuale (pagine 73-80)

E) Le ipotesi di riforma: la fase della valutazione delle prove

6. La formazione tipica:

6.a) le materie.

Affrontate queste funzioni specifiche ( formazione complemen-tare, aggiornamento immediato, riconversione, dirigenti, preparazio-ne al tirocinio ), la FP per così dire “tipica” si esprime usualmente in una riflessione ed elaborazione su temi circoscritti, funzionali ad un migliore esercizio dell’attività giudiziaria.

L’analisi di questo capitolo si snoda essenzialmente su tre diret-trici: l’oggetto (ovvero il “che cosa” insegnare); i docenti (ovvero il

“chi” insegna); il metodo (ovvero il “come” si insegna: anzi, il pro-blema del metodo mette in discussione persino la validità stessa del-la nozione di “insegnamento”).

Quanto all’oggetto, non è facile procedere ad una sua defini-zione, e forse nemmeno utile, data l’estrema varietà dei contenuti che esso può assumere, e che riflettono l’intero arco delle compe-tenze professionali.

Solo l’esigenza di addivenire a poco a poco ad un’organizzazione accurata della FP induce a muovere da un’idea di programmazione, che può avere i seguenti caposaldi.

Ogni anno deve essere elaborato un programma di massima per l’anno successivo, ripartito in sezioni. Nel programma devono esse-re riservate quote alle insorgenze contingenti che si manifestano lun-go l’anno. Di ogni sezione devono essere individuati uno o più re-sponsabili, incaricati di articolare il programma generale in specifi-che sessioni di lavoro. Il programma deve essere diffuso fra i magi-strati alla fine dell’anno precedente, onde consentire un agevole contemperamento delle esigenze di lavoro con gli impegni di for-mazione. Il programma deve prevedere anche dei percorsi formati-vi, nel senso di collegare varie sessioni fra di loro, e di agevolare la presenza dei partecipanti all’intero percorso. Deve essere dedicato il massimo sforzo alla diffusione (cartacea od informatica) dei risulta-ti di queste sessioni fra i non partecipanrisulta-ti, per compensare il sacri-ficio richiesto dalla frequenza plurima di cui fruiscono gli ammessi.

A titolo di esemplificazione, le sezioni potrebbero essere quin-dici e concernere (20):

a) problemi applicativi del codice di procedura penale;

b) problemi applicativi del codice di procedura civile;

c) questioni di diritto di famiglia, anche in relazione alla tutela dei minorenni ed al funzionamento dei tribunali per i minorenni;

d) questioni attinenti alle funzioni del pubblico ministero, con par-ticolare riguardo a tecniche investigative ed ai rapporti con la polizia giudiziaria;

e) questioni significative emerse dall’evoluzione del diritto privato;

f) questioni significative emerse dall’evoluzione del diritto penale, g) questioni di diritto fallimentare;

h) normative comunitarie e rapporto tra la giurisdizione italiana e la Corte di giustizia della CEE;

i) problemi di diritto e di procedura del lavoro;

l) diritto tributario;

m) diritto dell’economia, diritto delle società, tecniche di esame dei bilanci;

(20) GALLONI, Reclutamento e formazione, cit., p. 21.

n) sezioni specializzate agrarie;

o) questioni attinenti la tutela degli interessi diffusi;

p) tecniche di organizzazione degli uffici, con particolare attenzio-ne all’impiego degli strumenti informatici.

Ognuna di queste sezioni dovrebbe dare luogo, almeno una vol-ta all’anno, ad un corso di studio su un argomento di attualità, del-la durata di una o più settimane, da ripetersi eventualmente più vol-te ove ne sia fatta richiesta.

L’approccio dovrebbe essere di tipo interdisciplinare, con atten-zione anche alle problematiche sociologiche, politiche, economiche, psicologiche secondo le quali la materia può essere esaminata, e con apporto degli esperti delle varie discipline.

A ciascun corso dovrebbero partecipare non più di 100 magi-strati. Una norma di ordinamento giudiziario dovrebbe prevedere un apposito titolo di legittimazione ad assentarsi dall’ufficio per fre-quentare i corsi, non meno che un effettivo “diritto alla formazione”, così come recentemente stabilito dalla legge 25.2.1992 dell’ordina-mento francese (21).

6.b) I docenti.

Quali siano le persone chiamate a svolgere le funzioni didatti-che in un programma di formazione è problema annoso e non so-pito.

Una prima formula, apparentemente risolvente, è quella di indi-viduare un corpo di docenti compiuto e stabile, selezionandolo per titoli o con altre forme, ed affidandogli il compito di programmare e gestire le sessioni di studio per un tempo determinato. In tal

mo-(21) Si può ricordare che, con delibera del 17.2.1994 questo Consiglio ha rite-nuto che la partecipazione del magistrato agli incontri di studio organizzati dal CSM è assimilabile all’attività lavorativa per quanto attiene la non incidenza sulla fruizio-ne del congedo ordinario per ferie: di modo che il magistrato che sia ammesso ad un incontro di studio svolgentesi durante la sua fruizione delle ferie ha diritto ad una corrispondente protrazione della durata delle medesime. Appare comunque auspica-bile un esplicito intervento legislativo in merito.

do si conferisce stabilità all’apparato e presumibile organicità al “pro-dotto”, potendosi presumere un lavoro di équipe capace di impri-mere omogeneità e coerenza.

In direzione contraria si muove la formula seguita dal Consiglio sino all’entrata in funzione del Comitato scientifico previsto dalla Convenzione della quale si parlerà in seguito (par. 8.1.): si tratta di chiamate occasionali a svolgere il compito di relatore, dettate dall’ac-creditamento delle competenze del chiamato, fatto da uno o più com-ponenti del Consiglio (sia pure, normalmente, sorretto da compro-vate capacità).

Entrambe le formule si prestano a non poche obiezioni.

La scelta di un corpo docente stabile, innanzi tutto (ed a pre-scindere dal timore di fenomeni usualmente definiti con la parola “lot-tizzazione”) non può soddisfare la pretesa di innovazione, di moder-nità, di rapido adeguamento alle novità emergenti. Per offrire suffi-cienti incentivi a chi scegliesse questo tipo di impiego, occorrerebbe inevitabilmente prospettare una permanenza di alcuni anni (almeno tre), e tale periodo sarebbe più che sufficiente ad ingenerare ripeti-tività e perdita di contatto con la realtà giudiziaria che si evolve. Inol-tre un corpo di docenti bloccato sarebbe per ciò stesso refrattario all’apertura verso nuove materie, o sconterebbe comunque un forte ritardo nella percezione e nella sistemazione concettuale delle novità.

Non meno critico deve essere il giudizio verso un corpo di do-centi frutto di cooptazioni casuali o ripetitive. Il criterio non offre garanzie di qualità; i magistrati chiamati sono assai spesso impegnati in indagini o procedimenti gravosi, e non possono dedicare alla di-dattica l’attenzione che essa richiede; si verifica, per altra via, una sorta di “stabilità” anche in questo caso, nel senso che determinate tematiche diventano monopolio di uno o di pochi nomi.

Sembra pertanto necessario tentare altre soluzioni. L’esperienza di questi ultimi anni ha rivelato che il metodo più fruttuoso è quel-lo che combina continuità con avvicendamento, purché affiancati da una seria ed obiettiva rilevazione della qualità delle prestazioni for-nite dai docenti.

Si tratta, in sostanza, di muovere dalla conferma dei relatori che già in passato hanno dato buona prova, affiancandoli in ogni ses-sione con una cauta sperimentazione di nomi segnalati dai parteci-panti stessi, o comunque provenienti da auto-indicazioni di compe-tenze e di disponibilità.

La formula esige una accurata catalogazione delle competenze e delle valutazioni effettuate, ed un’elastica rotazione tra conferme ed innovazioni. Una quota di circa un terzo di “novità” garantisce un tasso complessivo di livello comunque elevato, una possibilità di se-lezioni successive conservando solo le innovazioni positive, ed un’esplorazione molto ampia di tutto un retroterra di competenze che sono per lo più fuori del circuito di conoscenze dei chiamanti.

Questa formula, peraltro, richiede a sua volta un corpo stabile (non di docenti, bensì) di soggetti impegnati a tempo pieno in que-sta opera di ricerca e di cernita coque-stante. Quell’apparato, assai am-pio, che si vorrebbe instaurare a livello di docenti, si trasferisce - con dimensioni di gran lunga più contenute - a livello di struttura ero-gatrice della FP, la quale può essere costituita anche solo da poche unità, purché dotate di forte dinamismo, inventiva e capacità di let-tura della realtà giudiziaria e cullet-turale. In questo senso - come si ve-drà - si è orientato il Consiglio nel disegnare la nuova struttura per-manente di formazione (v. infra il par. 8.1).

6.c) Formule didattiche: la relazione, lo studio dei casi, il lavoro di gruppo.

Particolare attenzione deve essere dedicato al tema della didatti-ca, data la specificità della funzione del magistrato (v. supra il par. 2).

Già si è detto come l’indipendenza del magistrato esiga una par-ticolare misura nella somministrazione di conoscenze, sia pur tecni-co-professionali, posto che deve essere evitato con cura ogni aspetto di possibile indottrinamento o di influenza.

La formula sin qui praticata negli usuali incontri di studio è sta-ta, per lo più, quella mutuata dalla tradizione scolastica: una rela-zione orale, di regola accompagnata dalla diffusione di un più am-pio testo scritto, concepita come trasmissione di informazioni in qual-che modo sistematizzate, da parte di un discente qual-che o ha fatto og-getto di studio il tema affidatogli, ovvero su di esso ha sviluppato particolari esperienze giudiziarie.

Molto spesso, soprattutto quando il docente è un magistrato, la relazione si accompagna ad una raccolta di giurisprudenza, o alla sintetica enunciazione di posizioni dottrinarie, o all’offerta di prov-vedimenti giudiziari (talora inediti) esemplificativi di prassi o di so-luzioni interpretative.

Negli ultimi tempi ha preso corpo anche una certa attenzione a profili organizzativi degli uffici, nonché un tentativo di giungere all’analisi di casi.

Alla relazione consegue normalmente un dibattito, costituito da interventi liberi, in forma di domanda o di obiezione, ovvero con of-ferta di altre esperienze specifiche, peraltro con facile innesco di di-namiche di tipo assembleare, o larvatamente autoritarie, e con co-stante estraniazione di una parte notevole dei presenti.

La formula usata, sebbene arricchita di articolazioni spontanee, a poco a poco sviluppatesi per un naturale bisogno di superamento, riflette ancora l’originaria interpretazione della FP come incremento di “sapere”. Nella tripartizione alla quale si è fatto cenno (cfr. il par.

1) il “sapere” come arricchimento di conoscenze è strettamente cor-relato alla istruzione come trasmissione unidirezionale dell’informazione, ed alla non chiara percezione delle altre due va-lenze (e cioè il “saper fare” ed il “saper essere”: sintomatico, per con-verso, l’accentramento del tirocinio sulla complementare valenza del

“saper fare”, cioè principalmente sull’acquisizione di una pratica del mestiere, nettamente sopravvanzante le altre due prospettive, che do-vrebbero invece essere costantemente integrate).

La progressiva presa di coscienza, non teorizzata ma spontanea, delle due ulteriori funzioni della FP ha fatto emergere tecniche ul-teriori, da affiancare a quella della relazione. Come la relazione si confà ad una estensione del sapere cognitivo, così si ritiene che lo studio dei casi e/o la simulazione dei medesimi sia funzionale ad un’estensione delle capacità operative; e che il lavoro di gruppo sia il più rispondente alle esigenze del “saper essere”, cioè a quell’ap-prendimento psico-sociale che nasce dagli interrogativi sul proprio ruolo, sulla legittimazione e sugli effetti del proprio operare.

Entrambe queste dimensioni stanno entrando a poco a poco nell’at-tività di formazione oggi gestita dal CSM: ma appunto perché prive di una riflessione teorica e di un contributo da parte di specialisti, vi stanno entrando in modo artigianale e solo in parte efficace.

Lo studio dei casi sconta il limite dell’assenza di una efficace ricerca dei casi: quando esso si verifica, viene interpretato essen-zialmente come esposizione della singola vicenda giudiziaria da par-te del soggetto che l’ha vissuta, ed è carenpar-te l’aspetto della scompo-sizione della vicenda in momenti aperti a varie opzioni, che esige non solo profonda conoscenza del caso, ma anche elevata capacità

di astrazione, completa padronanza degli strumenti normativi ed ope-rativi, ed acuta sensibilità didattica. È del tutto comprensibile che non ogni gestore della vicenda possieda l’insieme di queste non fa-cili doti.

Quanto al lavoro di gruppo, esso continua a venir interpretato come un momento di libera discussione, ed anche la presenza - ta-lora inutilmente vasta e dispendiosa - di coordinatori non produce risultati significativi, poiché gli stessi dovrebbero (ed assai raramen-te lo sono) venire previamenraramen-te sensibilizzati su un programma pre-ciso, e richiesti di una regia mirata a fini definiti, anziché assolvere ad un ruolo sostanziale di moderatori.

Se la FP vuole coprire tutte e tre le aree di cui si è detto (e pres-santi sollecitazioni in tal senso vengono non solo dai partecipanti agli incontri di studio, ma anche dalle stesse riflessioni consiliari: si vedano i dibattiti aventi ad oggetto la cultura dei magistrati in tema di reati sessuali ovvero in materia di restrizioni della libertà perso-nale, per quanto attiene il c.d. “saper essere”; e le ripetute discussioni in tema di organizzazione degli uffici, per quanto concerne il c.d.

“saper fare”), allora occorre dedicare alle varie tecniche di cui sopra un’attenzione maggiore e più qualificata: ciò significa che non è più sufficiente un approccio alla FP di tipo dilettantesco, ma occorre pen-sare ad una struttura erogatrice qualificata e specializzata, incarica-ta di còmpiti che trascendono ormai la semplice funzione orga-nizzativa (v. infra il par. 10).

Occorre tendere, cioè, ad una stretta interazione tra relatori e coordinatori, i primi portatori di insostituibili esperienze giudiziarie, i secondi esponenti di competenze didattiche specializzate, atte a far diventare il caso non una semplice “storia”, ma una palestra di per-corsi tecnico-pratici-assiologici, atti a soddisfare sia il bisogno di “sa-pere”, sia quello di “saper fare” che quello del “saper essere”.

A questa stregua, la relazione, lo studio del caso, la simulazio-ne del caso, il lavoro di gruppo sul caso cessano di essere momenti distinti, ciascuno incompleto, e si compenetrano vicendevolmente. La FP diventa, in sostanza, acquisizione di conoscenze sistematizzate, di atteggiamenti e di motivazioni, e produce quel coinvolgimento at-tivo che supera il semplice accantonamento di nozioni a futura me-moria, oggi insito nella formula della relazione.

Conforta in tal senso l’esperienza di altri ordinamenti, nei qua-li lo spazio destinato alla relazione tradizionale cede a tecniche di

simulazione, di analisi e di interscambio collettivo; nonché la cre-scente propensione anche del CSM - sia pure non teorizzata - ad ac-cordare spazio alla funzione del coordinamento e della regia pre-ventiva delle sessioni.

Nel documento La formazione pre-concorsuale (pagine 73-80)