Una sorta di necessità interiore sembra spingere Atzeni alla ricer- ca delle condizioni prelettararie del pensiero. Riverbera in lui qualco- sa del dilemma che fu proprio di Platone, affascinato dalla tradizione orale che lo precedeva ma incapace di sottrarsi al demone della scrit- tura, comunque fedele a una disposizione artistica e letteraria che si sovrapponeva, contrastandola, alla sapienza antica.
Attratto dal mito della purezza originaria - ma forse sospettoso che all’origine non fosse la parola quanto piuttosto, borgesianamente, il Grande Libro - egli sceglie, è vero, la vettorialità della scrittura piuttosto che la circolarità della tradizione orale, ma ricercando sulla pagina ogni possibile mediazione. Quasi che, a disagio nei panni del narratore-letterato, volesse torcere il senso dell’operazione che pure andava compiendo: cercando la mimesi col parlato, improntando l’affabulazione alle regole di un sapere più ciclico che lineare, più magico che scientifico, tendenzialmente antifilosofico e comunque irriducibile alla tradizione occidentale e alla sua razionalità. Il sapere, come egli stesso scrive, proprio del popolo dei «s’ard, che nell’antica lingua significa i danzatori delle stelle»13.
Romanzo dall’ampia campitura, epicamente nutrito di fiducia nominalistica, passione numerologica e ascendenze scritturali14, Pas- savamo sulla terra leggeri è in fondo la storia di una voce. Una voce che risuona di pagina in pagina affinché non si perda la memoria del passato - tema molto caro all’autore -, ma soprattutto perché, come insegna l’antropologia15, la narrazione orale ha in se stessa il potere di rifondare il mondo, ogni volta, magicamente, riattivandone il sen- so e la sostanza. Funzionali all’atto del narrare sono infatti le varianti 13
S. ATZENI, Passavamo sulla terra leggeri, Milano, Mondadori, 1996, p. 39.
14
“Non dimenticammo i nomi. Non dimenticammo i numeri”, si legge alla p. 17 di Passava-
mo sulla terra leggeri. E, in generale, è vero che sulla rilevanza dei primi e dei secondi (pre-
valentemente tre, sette e tredici) si fissa l’attenzione dell’autore: “Il disegno e il moto delle stelle parola del creatore ignoto, decifrarla massima sapienza. Solo strumento il numero. Il numero, sacro” (p. 9). Come è vero che alcuni luoghi del romanzo rinviano al Cantico dei
Cantici: «Hai gambe di cerva giovane alla fonte, seno bello come colli di Mandrolisai. Hai
occhi di velluto, braccia forti, denti sani» (p. 192).
15
introdotte dal singolo narratore (perciò Antonio Setzu avverte il gio- vane «custode del tempo» che potrà modificare i fatti narrati nella storia), e di scarso interesse risulta l’effettiva comprensione dei con- tenuti («avevo ascoltato la storia - dice il ragazzo -, non l’avevo capi- ta, anche ora che la dico non so che senso abbia»)16.
A tale dimensione mitica del narrare corrisponde, nel romanzo, una coerente idea della musica. Musica come ‘sostanza sonora’ dell’uni- verso, legame fra terra e cielo, voce degli Dei ovvero armonia delle sfere, che racchiude nel proprio andamento ciclico l’ineffabile miste- ro dell’esistenza. Ma anche musica come forza ctonia, strutturalmen- te collegata ai corpi e alle loro peripezie: nascita, morte, lavoro, pre- ghiera:
Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare, danzare era la nostra vita17.
Ecco come Atzeni riassume icasticamente la correlazione fra mu- sica e corporeità propria del pensiero mitico. E come invece rico- struisce la nascita del suono, ammaliatore degli uomini:
Dalla scorza al bastone un giunco fine infilato agli estremi in due piccoli cerchi lignei rotanti grazie ai quali si tendeva o diventava molle. Batten- do e strisciando sul giunco teso un giunco più fine, Rszr traeva suoni. Per notti intere restammo ad ascoltarla. Mai avevamo udito nulla di si- mile. Sembrava il vento fra gli alberi e la voce dei falchi, l’onda del ma- re che rifluisce in riva sui sassi e il frusciare delle bisce nell’erba18.
16
S. ATZENI, Passavamo sulla terra leggeri, rispettivamente, alle pp. 211 e 15-16. Sul tema della ‘voce’, come è noto, esiste oggi una vastissima bibliografia, in parte leggibile in appen- dice al saggio di C. BOLOGNA, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Bologna, Il Mulino, 1992. Per restare nel campo che qui interessa sarà sufficiente far riferimento a M. SCHNEIDER, Il significato della voce, trad. it. in Il significato della musica, Milano, Rusconi, 1979 (ora 1996).
17
Ivi, p. 29.
18
Ivi, p. 24. «Tutte le volte che la genesi del mondo è descritta con sufficiente precisione - scrive Marius Schneider nel suo La musica primitiva, trad. it. Milano, Adelphi, 1992, p. 13 -, un elemento acustico interviene nel momento decisivo». Anche se non è detto che Atzeni co- noscesse Schneider, certamente non ignorava gli studiosi del pensiero mitico, dal momento
Si tratta, a ben vedere, di una forza che la musica attuale sembra aver perduto, immemore dei poteri della cetra di Orfeo. In quella mu- sica risiede una forza che non è solo in relazione con la dimensione razionale del numero e dell’universo, ma anche, necessariamente, con la vita sensibile del corpo. E non è certo casuale che il termine arcaico, ma sopravvissuto sino alle soglie della decadenza ellenica, di musiché (che nulla ha a che fare con l’idea “occidentale” della musi- ca come arte dei suoni) stia ad indicare tutte le forme di espressione che sono possibili attraverso l’esercizio del corpo: la danza, il mimo, la lirica, la poesia, il canto19.
Si può dunque riconoscere una ‘musicalità’ propria a questo ro- manzo postumo, rinvenibile, più che nelle singole pagine, nell’ispira- zione compositiva, nella riscrittura di una vicenda arcaica e ‘armoni- camente’ integrata nelle sue componenti.
Ma, al contempo, ritroviamo indizi di questa sensibilità nei testi d’esordio. Basterà ricordare Quel maggio 1906. E non solo per il sot- totitolo: Ballata per una rivolta cagliaritana, in grado di riassumere il senso di un’opera pensata ‘anche’ per la musica. Ma per lo spazio concesso alle musiche di scena, chiamate a sottolineare i passaggi e a scandire i tempi - anche psicologici - della vicenda, ad accentuare il peso dei silenzi, delle attese, dei tumulti. Come scrive Sergio Bulle- gas, la scelta della forma-ballata «offre proprio la possibilità alla pa- rola di avere un ritmo musicale […], di cantare meglio gli aspetti più duri e le pieghe più dolorose della realtà»20. L’utilizzo della musica in funzione drammaturgica, in quest’opera giovanile, indicherebbe inoltre una linea di tendenza «caparbiamente seguita finché non ne derivi una misura stilistica personale»21.
che nel romanzo è verificabile una certa consonanza con le loro posizioni circa le origini ‘mu- sicali’ dell’universo e la natura magica del suono.
19
G. BARBIERI, Dissertazione prima. Il libro di Orfeo, in AA.VV., Musica e Mito, catalogo del Bologna Festival 1991, “I grandi interpreti”, Bologna, Grafis, 1991, p. 13.
20
S. BULLEGAS, La parola e il teatro, “La grotta della vipera”, 72/73, 1995, p. 37.
21
Fra tutti gli strumenti, e non per caso, in grande evidenza sono po- sti i tamburi. Va notato, infatti, che ripetutamente Atzeni si è occupa- to dell’aspetto percussivo della musica, lamentando che fosse scom- parso dalla tradizione mediterranea e dalla Sardegna stessa, dove un tempo era incarnato dal “trimpanu”, lo straordinario tamburo di pelle di cane più volte rievocato:
Mir disse: “tr im pa n’us”. Suonammo e danzammo per meritare la be- nedizione di Is e per nascondere la paura. Gli ik attraversavano la foresta buia e sentirono i tamburi sotto i piedi, suonati nelle viscere della terra. Assieme ai tamburi udirono canti, credettero alla presenza di demoni e fuggirono22.
Ma altre musicali sorprese sono riservate al lettore che scorra le pagine dei romanzi pubblicati da Sellerio.
Per verificare come la musica si costituisca come modello esteti- co, entri nel progetto della scrittura piegando il ritmo frastico alle proprie esigenze, si presti attenzione al quarto capitolo dell’Apologo del giudice bandito, dedicato alla fuga della schiava Juanica dal pa- lazzo dei Curraz. Si incontreranno situazioni interessanti: prolifera- zione ora delle liquide in funzione cinetica («Juanica corre, non tre- ma, ora è forte, le gambe saltano, volano, corre veloce»), ora delle sibilanti per indicare la circospezione del movimento («Striscia, sui muri, lenta, silenziosa, serpente che carica i denti di veleno»)23. Del medesimo capitolo, si legga poi con attenzione il seguente passo: 22
S. ATZENI, Passavamo sulla terra leggeri, p. 20. E così ne aveva parlato in Storia e pro-
blemi della Sardegna nelle voci del quartetto di Orgosolo, “Rinascita Sarda”, 10 giugno
1974: «Si batteva su una pelle di cane morto per inedia, ottenendo effetti particolarmente cu- pi, ed ultrasuoni potentissimi, che arrivavano oltre i trecento metri».
23
Le citazioni sono da S. ATZENI, Apologo del giudice bandito, Palermo, Sellerio, 1986, pp. 74-75. Nota giustamente Dino Manca (Una storia immobile nell’Apologo del giudice bandito, “La grotta della vipera”, 72/73, 1995, pp. 40-41) a proposito dell’episodio che vede protago- nista Juanica: «La sua fuga dal palazzo dei Curraz, luogo del delitto, raccontata con buon rit- mo narrativo, per stacchi e riprese (in armonia col precipitare degli eventi) è tutta un’ansiosa e trepidante corsa verso la salvezza. Sullo sfondo, mentre la giovane braccata dai cani corre a perdifiato e l’aria si riempie del suo profumo casto, una natura palpitante e commossa, parte- cipe del destino e della condizione interiore del personaggio, entra in sintonia con la schiava e, attivando con lei un rapporto di dialogo e intesa, ne diviene complice e guida».
Dondolano al maestrale morente le foglie del palmeto, frusciano, sussur- rano, diresti che cantino: - Corri bambina, attenta a non cadere, corri, segui la stella, guarda avanti, vola, rondinella24.
Qui, è la gabbia degli accenti a conferire al testo il suo profilo so- noro e la sua configurazione dinamica: sospesa, quasi rallentata nella prima parte dalla sequenza sdrucciola dei quattro verbi, funzionali alla descrizione di una natura umanizzata e partecipe della sorte di Juanica. Accelerata dall’infilata degli undici accenti piani nel discor- so diretto, che scandisce i passi della giovane in fuga. Si tratta di un vero cambio di ritmo in funzione espressiva: al melodismo avvolgen- te (e ternario) della prima parte, segue la scansione percussiva (e bi- naria) della seconda.
Nel nono capitolo de Il figlio di Bakunin è ancora la voce che do- mina i rapporti fra i personaggi - si rammenti Passavamo sulla terra leggeri -, divenendo metafora della passione e supporto del desiderio. Sia essa quella «intonata» del giovane minatore Tullio, che spinge l’inquieta narratrice prima alla finestra - volutamente discinta, il seno sporgente tanto «ché ne potevano vedere un po’, bianco di luna»25 -, e successivamente all’adulterio. Sia quella greve del marito Ottavio, che ne segnala l’insopportabile volgarità rendendolo odioso perché «stonato, dovevi sentirlo quando cantava Faccetta nera, voce di ba- rattolo sbattuto sulle pietre»26.
E tutto musicale è infine il capitolo ventiquattresimo, dove pri- meggia la figura di Cesarino, fisarmonicista e caporchestra. Nell’arco di poche pagine si sdipana la vicenda di una vita interamente vissuta per la musica, e destinata all’incontro fatale con la modernità nella figura - siamo negli anni del secondo dopoguerra - di un negro clari- nettista di jazz:
Su un mozzicone di muro giallo era poggiato di spalle un negro alto due metri con la divisa dell’esercito americano, senza mostrine, forse era
24
Ivi, p. 77.
25
S. ATZENI, Il figlio di Bakunin, Palermo, Sellerio, 1991, p. 38.
26
uno di quelli che spruzzavano il DDT e in pochi anni hanno fatto sparire la malaria. Era lui che suonava il clarino. Affianco aveva un cinese alto mezzo metro di meno, anche lui in divisa americana, che suonava come fossero tamburi una serie di barattoli di pappetta vuoti27.
Ed è l’agnizione. Ma mentre il narratore, «ubriaco di vino e di musica straniera», sogna di trasferirisi oltreoceano, il saggio Cesari- no si limita ad allargare il repertorio, introducendovi quelle canzoni americane, imparate dal negro, che determineranno il suo successo.