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Gli anni che vanno dal 1991 al 1995 coincidono con la terza e ultima fase del rapporto con “L’Unione Sarda” Si tratta, questa vol-

ta, di una collaborazione intensa: Atzeni ha una rubrica, intitolata Idee di fine secolo, nella quale si occupa di vicende epocali, di me- ditazione religiosa, dei temi che gli sono sempre stati cari ma che ora vengono affrontati senza intonazioni polemiche, anche quando sono inevitabilmente destinati a suscitare discussioni, con la consa- pevolezza della raggiunta maturità, la serenità di chi ha compiuto le scelte, non ha particolari rimpianti e può guardare il panorama cir- costante, anche quello letterario nazionale al quale ormai appartie- ne, senza invidie o pregiudizi.

Una fine secolo tanto inquieta potrebbe suggerire considerazioni apocalittiche: non a chi sa riunire le letture delle quali, come abbia- mo visto, si è fin qui nutrito per rispondere all’interrogativo che af- fiora dal profondo della coscienza: qual è il libro di Dio? «Non ho trovato risposta più convincente di quella di Sant’Antonio eremita, vissuto circa 1600 anni fa: “Un filosofo chiese a Sant’Antonio: Pa- dre, come puoi essere felice quando sei privato della consolazione dei libri? Antonio rispose: Il mio libro, o filosofo, è la natura, e ogni volta che voglio leggere le parole di Dio, il libro è davanti a me”. Risposta che è quasi una replica d’una più antica: circa 5000 anni fa qualcuno chiese a un saggio babilonese: “Conosci la parola di Dio? e quello rispose: Cerco di capirla. Come cerchi? e quello rispose: Ogni notte leggo i mutamenti della volta celeste, ogni giorno inter- rogo i fruscii dell’erba”»19.

Con tale spirito vengono affrontati, in questa fase, i problemi dei quali Atzeni si occupa: sia quelli che hanno a che vedere con le più generali visioni del mondo, sia quelli, di non minore momento per chi abbia compiuto l’itinerario fin qui descritto, della cultura e della 19

S. ATZENI, L’universo, vero libro di Dio anche per chi dubita, “L’Unione Sarda”, 27 di- cembre, 1991.

letteratura viste nelle ampie prospettive e in quella, più circoscritta ma non meno difficile da affrontare, dell’ambito sardo. Atzeni ha elaborato un modo proprio – garbato ma fermo, senza cedimenti o rinunce al personale punto di vista, ma anche senza asprezze pole- miche – di affrontare le questioni. Si veda, ad esempio, l’articolo I salvati e i sommersi in cui tratta di un argomento che pure lo tocca da vicino: la valutazione della giovane narrativa italiana. Gli scritto- ri più noti, Alessandro Baricco, Paola Capriolo, Sandro Veronesi e così via, non sono pienamente apprezzati dall’articolista che, dopo aver indicato gli aspetti migliori della loro prosa, aggiunge con iro- nia: «Potrei continuare ma l’impressione generale è una: fanno un po’ gazosa. A Cagliari fare gazosa si dice, quando si gioca a foo- tball, di quei tizi che prendono il pallone, dribblano uno, due, tre avversari, a volte anche se stessi, poi non riescono a passare al com- pagno meglio piazzato, oppure fanno un lancio bellissimo di qua- ranta metri, che però finisce nell’unico angolo di campo dove non c’è neppure un compagno. Gianni Brera ha inventato un verbo, per questi tizi: venezianeggiano. Ecco, i migliori mi paiono un po’ troppo venezianeggianti». Propone, di seguito, i nomi dei giovani non esaltati dalla critica, Claudio Camarca, Pino Cacucci, Carlo Lu- carelli, Silvia Ballestra, Pia Pera, per concludere con un elenco di qualità positive rilevabili nei loro romanzi: «Insomma: tutto il con- trario di quelle accuse che i critici addebitano a un’intera genera- zione. Emerge un dubbio: ma non sarà che i critici in quel cahier de doleances in realtà facevano autoanalisi? Ovvero: fuggono i narra- tori che parlano davvero del Paese; ne hanno paura. Preferiscono la bella scrittura, di cui si fanno poi accusatori. Gli piace chi venezia- neggia, chi fa gazosa. Perché nella gazosa nuotano ch’è un incanto? Nel vino e nel sangue nuotare è più difficile»20.

Ma ciò che soprattutto gli preme, scrivendo d’altri, riflettendo sui propri progetti, è comprendere quale rapporto lo debba legare al mondo d’origine. Un retropensiero sempre presente, come par di capire anche leggendo una recensione de L’amante del vulcano di

20

Susan Sontag: «Romanzo ben fatto ma non rimanda a nient’altro, non tocca nessuna corda del profondo. Perché Susan Sontag non ha scritto di sé e dell’America? (È la domanda che ogni tribù pone all’antropologo straniero, ogni colonizzato al colonizzatore animato da intenzioni amiche e comprensive: “Perché non descrivi te stesso invece di descrivere noi?”»21).

Atzeni, negli articoli e nei romanzi, vuole descrivere se stesso, la propria tribù, il mondo dal quale deriva. Vuole, per convincimento teorico, per autentico gusto, parlare la lingua della sua gente: «Vi- vere a Cagliari è un’esperienza esaltante, per chi ama la confusione linguistica, la mescolanza spuria degli idiomi, i giochi di parole de- liranti: spesso – in modo più o meno cosciente – si parla un italiano contraffatto, incomprensibile a chi non sia del luogo, tratto di peso dal sardo»22: teorizza il meticciato linguistico.

Non avrà vita facile, in un’isola di grandi suscettibilità linguisti- che, di nobiliari alterigie relative a una pretesa purezza della lingua. Tira dritto per la sua strada e ribadisce, nell’articolo intitolato Na- zione e narrazione, i motivi per i quali si sente sardo, italiano ed eu- ropeo, partecipe di culture diverse ma strettamente legate, le una e le altre per lui necessarie: «La complessità di radici e tradizioni (sardo, italiano, europeo) rende arduo il compito della scrittura na- zionale, ovvero di chi narra la propria nazione cercando un linguag- gio personale ma comunicativo. Arduo ma non impossibile, vale la pena di tentare, è la risposta dei sardi che in questi anni tentano la via della narrazione, della letteratura»23.

Parla di sé, del progetto che va realizzando con Il quinto passo è l’addio, con Passavamo sulla terra leggeri e con Bellas Mariposas, racconto che rappresenta un compimento, non solo perché è l’ultimo scritto da Atzeni, ma perché in esso giunge al risultato più pieno e maturo un progetto narrativo e linguistico tenacemente idea- to, gradualmente realizzato opera dopo opera.

21

S. ATZENI, Un’americana a Napoli, “L’Unione Sarda”, 16 giugno 1995.

22

S. ATZENI, Il dialetto scompare e il «gergo» dilaga, “L’Unione Sarda”, 11 dicembre 1991.

23

A Bellas mariposas sembrano riferirsi le parole di uno degli ul- timi articoli, quello che conclusivamente citiamo per chiudere que- sta parte del discorso: «Ogni tanto mi chiedo: qualcuno in Sardegna pensa o vuole imbrigliare il sardo di Santa Rennera in vocabolari indiscutibili di condanne? Qualcuno pensa o vuole dizionari e grammatiche sarde imparate a memoria in prima elementare?»24.

Il concetto linguistico che Atzeni propone nel suo lavoro giorna- listico, quello che sostiene i romanzi e i racconti, non è fatto di norme imparate alle elementari. Implica la lingua forte e viva, vino non contaminato con gazosa, degli uomini adulti che conoscono il sapore della realtà in cui sono nati, hanno confrontato la propria con altre esperienze, sanno spaziare nei paesaggi letterari moderni e nel- le sperimentazioni linguistiche, vogliono lavorare con lo strumento linguistico di cui dispongono: spurio e meticcio quanto si voglia, destinato a essere nobilitato dall’elaborazione letteraria, se questa saprà conseguire, come Atzeni diceva, «merito artistico».

9. Sergio Atzeni amava, alle volte, parlare della sua scrittura