«Mi chiamo Karim Amir, e sono Inglese per nascita ed educa- zione, quasi. Talvolta mi si considera un tipo strano di Inglese, una sorta di nuova razza, emersa da due vecchie storie. Ma ciò non mi interessa: sono un Inglese, – seppure non fiero di esserlo – un pro- dotto della periferia di Londra. […] Forse è questa strana mescolan- za di sangue e continenti diversi, di qui e là, di appartenenza e non, che fa di me un tipo così irrequieto»1.
Così si apre Il Budda delle periferie, romanzo a sfondo autobio- grafico di Hanif Kureishi, scrittore e inglese suo malgrado, com’è il suo alter ego Karim.
Kureishi si può definire solo in negativo: non è un pakistano, pa- ese d’origine della sua famiglia, non rientra in un gruppo o in un movimento, non è né un autore mainstream, che va per la maggiore, data l’eterodossia delle sue opinioni (ma che cosa è ortodosso oggi peraltro?), né uno scrittore marginale considerate le notevoli tirature dei suoi libri, i premi letterari che ha ricevuto o le versioni televisi- ve che la BBC ha tratto dalle sue opere2. Kureishi è, semmai, uno scrittore etnico.
Il suo Karim mi è parso geneticamente affine sia a quel Ruggero Gunale «che si crede principe di antica stirpe, ed invece è figlio di 1
“My name is Karim Amir, and I am an Englishman born and bred, almost. I am often con- sidered to be a funny kind of Englishman, a new breed as it were, having emerged from two old histories. But I don’t care - Englishman I am (though not proud of it), from the South London suburbs and going somewhere. Perhaps it is the odd mixture of continents and blo- od, of here and there, of belonging and not, that makes me restless and easily bored.” H. KUREISHI, The Buddha of Suburbia, London, Faber & Faber, 1990, p. 3.
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Kureishi è di origine pakistana, nato nel Kent. Ha studiato al King’s College di Londra. La sua opera teatrale Outskirts ha ottenuto il George Devine Award cui ha fatto seguito la no- mina a “Writer in Residence” presso il Royal Court Theatre. My Beautiful Laundrette, del 1984, ottenne una nomination per l’Oscar come migliore sceneggiatura e The Buddha of
un fabbro e di una bruscia»3 nonché al narratore di Passavamo sulla terra leggeri, di stirpe ebrea, marrana, genovese araba, eccetera. In tutti questi casi siamo di fronte a dei meticci, per i quali, sia nella periferia londinese che nei bassifondi cagliaritani «la diversità (pro- pria e) degli altri appare dato abituale»4.
Inoltre nella presentazione di Karim, fatta tutta d’un fiato, c’è l’urgenza di una necessità ineludibile.
L’introduzione di un personaggio a forte valenza simbolica (col- lettiva) attraverso l’ascendenza piuttosto che, poniamo, la descri- zione dei tratti fisici, segnala uno stretto rapporto tra identità e nar- razione, rapporto che concepisce la scrittura come passaggio obbli- gato per definire la propria posizione nel mondo. E quando dico ‘nel mondo’ non uso una formula retorica, ma mi riferisco a una ca- tegoria, quella della letteratura postcoloniale, di carattere eminen- temente internazionale, una letteratura nella quale Sergio Atzeni rientra per molti aspetti.
Non si tratta di un fenomeno recente, seppure solo a partire dagli anni Settanta si comincino a individuare sorprendenti analogie, sia per le tematiche che per le poetiche adottate, tra scrittori geografi- camente e culturalmente lontanissimi.
Postcoloniale in origine è colui che, nato o vissuto in una ex co- lonia, generalmente francofona, anglofona, o ispanofona, si è gua- dagnato, con i suoi libri, un posto di rilievo nell’Olimpo, o, se si preferisce, nell’establishment letterario del paese ex-colonizzatore. A questo successo non sempre infatti ne corrisponde uno analogo in patria. Questo vale per i padri storici delle letterature africane, ca- 3
«Ruggero conosce i venti, i profumi, i predoni. Si crede principe di un’antica stirpe, è fi- glio di un fabbro e di una bruscia, è ignobile e folle come un muflone» in S. ATZENI, Il
quinto passo è l'addio, Milano, Mondadori, 1995, p. 7. Giuseppe Marci nel suo articolo Sergio Atzeni o la conquista dell’Incittà, “La grotta della vipera” n. 72/73, p. 21 rileva che
questo procedimento “genealogico” si presenta anche in un racconto intitolato Con i Khmer
in Pelikan Strasse, che così incomincia: «Nato da genitori nomadi in una casa dove, secon-
do i venti, sentivo tamburi algerini o nacchere o pianti di madri di morti ammazzati, ho tra- slocato a cinque giorni e per tutta l’infanzia ho vagato come uno zingaro» (AD, n. 165, feb- braio 1995, p. 12).
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raibiche o indiane, da Senghor, a Walcott, a Soyinka, a Tutuola, a Naipaul, autori di cui purtroppo in Italia arriva sì e no un’eco sbia- dita in occasione del conferimento di un Nobel. Ottengono invece un maggiore successo di pubblico i sudamericani, che hanno messo l’accento su una colonizzazione, o neocolonizzazione, tuttora in at- to, più sottile e penetrante, di tipo culturale.
Atzeni, da recensore attento, osservò come «A tutti questi scrit- tori si deve il meglio (della letteratura contemporanea), per origina- lità ma anche per ricchezza semantica della lingua che veicola la lo- ro prosa». E, aggiunge, non bisogna stupirsi della loro «capacità di esprimere una propria visione del mondo in una lingua importata» visto come in questo secolo gli autori mitteleuropei5 hanno potuto stabilire punti di contatto e riconoscersi in una civiltà comune gra- zie al tedesco, mentre gli Afroamericani hanno evidenziato il loro essere creoli servendosi spregiudicatamente del francese6.
Le generazioni di scrittori del secondo dopoguerra non europei, a differenza dei padri storici del modernismo, Conrad o Henry James o T.S. Eliot, un Polacco e degli Americani che vollero diventare In- glesi in tutto e per tutto, non accettano invece l’integrazione.
L’integrazione passerebbe infatti attraverso l’accettazione incon- dizionata di un canone letterario eurocentrico, che l’esperienza co- loniale ha smascherato come costruzione tutt’altro che politicamen- te innocente7.
Si rifiuta dunque una storia scritta da altri, poi confluita in con- venzione, vincolo, e si comincia una ricerca introversa: lo scrittore postcoloniale deve confrontarsi con la sua storia, deve cioè, per A- 5
«Ma a che cosa si deve ascrivere questo improvviso successo di uno scrittore cronologi- camente e psicologicamente così lontano da noi, almeno in apparenza? Il motivo che appare principalmente è che la descrizione della società che egli costruisce con la sua opera, l’analisi della decadenza e dello sfilacciamento di un tessuto sociale evoluto e complesso, che compie con rigore descrittivo fermissimo, paiono a molti quasi un ritratto della nostra crisi attuale». S. ATZENI, Roth, il profeta della decadenza, “La Nuova Sardegna”, 13 mag- gio 1977.
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S. ATZENI, Nazione e narrazione, “L’Unione Sarda”, 9 novembre 1994.
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Per uno studio approfondito su come la civiltà occidentale, veicolata dall’insegnamento dell'inglese, sia stata esportata in India e in Africa si veda, fra gli altri, il classico studio di E.J. HOBSBAWN e T. RANGER, L'invenzione della tradizione, Torino, Storica Einaudi, 1987.
tzeni, definire la sua nazione8, come «stirpe che riconosceva a se stessa origine comune e alla quale gli altri riconoscevano comunan- za di sangue e tradizioni»9. Ecco l’etnia, concetto antropologico e non burocratico.
È questo un dichiararsi attraverso una genealogia simbolica, se- condo modalità affini a un’antichissima consuetudine orale sarda: solo la genealogia infatti, nella sua complessa, irregolare sedimen- tazione di eredità genetiche e attributi esterni – in questo emerge per Atzeni la lezione di Levi-Strauss – riesce a rendere «l’appartenenza nazionale doppia, tripla o quadrupla», la cui espressione è «oggetto e scopo dichiarato»10 del mestiere di scrittore.
Nella stratificazione che la genealogia implica vengono compen- diate le connotazioni multiple di «sardo, italiano ed europeo», e si verifica, allo stesso tempo, la disintegrazione del canone. Fenome- no, anche questo, ben noto ai postcoloniali: una sorta di necessario viatico, un modo di eliminare le incrostazioni del luogo comune at- tribuito dall’esterno, di riscrivere la tradizione partendo dal suo sen- so etimologico di “tradere” e dalle motivazioni propulsive del trade- 8
«Il popolo sardo non è diventato né nazione né stato unitario nel periodo storico in cui po- teva, al pari di altri popoli europei, diventarlo. I tentativi che furono fatti fallirono, tra il XII e il XIII secolo, quando cioè dall’ordinamento giudicale autonomo, che era durato poco me- no di cinque secoli, non si riuscì a passare a un ordinamento unificato, alla unificazione dei quattro piccoli regni in cui era allora ripartito il territorio isolano, ed a creare così le condi- zioni di una piena unità politica nazionale, politica, economica, di cultura, su basi più mo- derne. Ciò fu determinato principalmente da un ritardo nello sviluppo economico dell'isola. […] Senza nazione unitaria, senza lingua unitaria, la tesi della esistenza di una minoranza linguistica diventa difficile da dimostrare: diventa affermazione di principio, teoria senza gambe. Allora, la strada che resta da percorrere è quella già indicata da Antonio Gramsci: la strada di un’autonomia regionale molto forte e radicale, nell’ambito dello stato italiano e della moderna nazionalità italiana; autonomia fondata sulla coscienza dei connotati distinti e peculiari del popolo sardo. Egli indica la necessità di un pieno recupero dei valori autono- mistici così come essi si sono storicamente costituiti e, nel contempo, una partecipazione sempre più profonda e intensa al rinnovamento, in senso socialista, dell’Italia. Secondo Gramsci dunque, non bisogna chiudersi in se stessi, isolarsi, ma partecipare alla vicenda e alla storia della nazione italiana». S. Atzeni, Identità di popolo o nazione sarda, anno 1, n. 5, Altair 1977. In queste parole è particolarmente evidente l’influenza del pensiero di Um- berto Cardia relativamente alla lettura di quest’ultimo di Gramsci. Già qui sono poi presenti le basi per la scrittura di Passavamo sulla terra leggeri.
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S. Atzeni, Nazione e narrazione, “L’Unione Sarda”, 9 novembre 1994.
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re stesso11. Il tutto privilegiando l’immediatezza dell’oralità sulla scrittura: qualcuno parla al proposito di decostruzione, Atzeni chiama questo scavo «costrizione maledetta»12.
In altre parole: «È la domanda che ogni tribù pone all’antropologo straniero, ogni colonizzato al colonizzatore seppure (questo sia) ani- mato da intenzioni amiche e comprensive: perché non descrivi te stesso invece di descrivere noi?»13.
Ma a questa domanda che prelude alla ricostruzione genealogica non si può rispondere secondo modalità realistiche – e qui si coglie tutta la distanza tra Atzeni e, poniamo, un Dessì – perché il realismo in letteratura se non addita, senz’altro adombra una verità ed invece quando «sui fatti si deposita il velo della memoria (questo) lenta- mente distorce, trasforma, infavola, il narrare dei protagonisti non meno che i resoconti degli storici»14.