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È sufficiente dare uno sguardo anche solo superficiale ai ro manzi di Sergio Atzeni per rendersi conto di quanto siano ricchi d

stacchi tipografici che spezzano il testo in porzioni più o meno bre- vi, spesso brevissime, in cui talvolta un solo enunciato monoremati- co assume un rilievo particolare in modo, si potrebbe dire, fulmi- nante. Quest’ultimo non è che il caso limite di una scrittura che vuole rendersi evidente nella sua frammentarietà con la stessa materialità del suo depositarsi sulla pagina offrendosi alla vista del lettore.

C’è una ricerca del frammento che, entro brevi sequenze, evi- denzi non solo l’inevitabile selezione con cui ogni scrittore procede per narrare un intero mondo che, per definizione, non può mai esse- re ‘detto/narrato’ interamente1, ma evidenzi anche il mutare di punti di vista e di angolazioni percettive a partire dalle quali il narrato prende forma, così come il mutevole svolgersi di scene differenti, da cogliere in una sorta di presa diretta o di flash, senza che sia ne- cessario esplicitare le connessioni che intercorrono tra l’una scena e l’altra riempiendo di parole di raccordo i vuoti, cioè gli stacchi, che restano dunque visivamente evidenti.

La frammentarietà è la cifra che caratterizza la scrittura di Atzeni fin dall’ Apologo del giudice bandito (Sellerio, Palermo,1986), an- che se, di volta in volta, può essere funzionale al conseguimento di effetti parzialmente differenti e nell’ultimo racconto, postumo (Bel- las mariposas, Sellerio, Palermo, 1996), sembra dissolversi, ridu- cendosi per lo più a un fatto meramente grafico: scandisce solo vi- sivamente il lungo monologo mozzafiato della narratrice- protagonista, da leggersi in realtà senza soluzione di continuità. Lo dimostra anche – in una forte interna tensione grafico-espressiva – l’assenza di qualunque segno interpuntorio che separi i vari capo- 1

Non a caso - è persino banale ricordarlo - nella narrativa il tempo della lettura è in genere inferiore a quello impiegato dai fatti narrati per svolgersi.

versi, pur isolati da righi in bianco, entro un testo in cui peraltro la punteggiatura è quasi totalmente eliminata, fatta eccezione per qualche punto interrogativo o esclamativo.

Nel primo romanzo, a parte la vividezza, spesso grottesca, delle singole scene, si ha invece l’impressione di essere di fronte a episo- di il cui nesso è tanto implicito da farne quasi dei racconti autono- mi. In particolare, si possono leggere nella loro pressoché totale au- tonomia da una parte il processo alla cavalletta, dall’altra la fuga di Juanica, dall’altra ancora la storia di Itzoccor Gunale.

A ben vedere, però, emerge la struttura teatrale di un testo in cui il tempo per far procedere il racconto è sempre il presente e che ri- sulta suddivisibile in due macro-atti preceduti da un prologo e sepa- rati l’uno dall’altro da una sorta di interludio. Il prologo rappresenta il vecchio Lilliccu che, di fronte all’imminente invasione delle ca- vallette, abbandona i suoi campi per raggiungere Kuaili, che vive nella palude e che Lilliccu non vede da tanti anni. E c’è una enig- matica divinazione: Itzoccor, di cui non si è ancora parlato nel testo, «morirà per mano di un fratello mai avuto» (p. 20). Nel primo ‘at- to’, poi, troviamo la rappresentazione del grottesco processo alla cavalletta, nel secondo la pazzia del sempre più visionario viceré don Ximene e il suo giocare a scacchi con Itzoccor Gunale, il bandi- to caduto nelle sue mani e gettato in un pozzo infestato dai topi, che ne costituiscono la fonte di vita. La pazzia di don Ximene spiega a ritroso il primo ‘atto’ e il fatto che gli sia venuta l’idea di intentare un processo alla cavalletta. In mezzo, quasi un interludio, peraltro provvisto di una forte musicalità ritmico-espressiva, la fuga preci- pitosa di Juanica, che ritrova nella capanna della palude in cui si rifugia i corpi di due vecchi («Piccoli. Secchi. Abbracciati. Immo- bili. – Morti? Da quanto tempo?», p. 84): i due personaggi del ‘prologo’.

Solo badando a questi sottili e allusivi fili nascosti, le tessere del- la storia narrata si ricompongono, disponendosi in un racconto na- scostamente unitario, al di là degli stacchi, delle ellissi o dei tagli nel montaggio di un testo fortemente basato anche sulla contrappo- sizione topologica di spazi ora ‘interni’, ora ‘esterni’. C’è infatti

l’interno di Caglié, cinta da mura e bastioni, con le sue vie maleo- doranti, affollate dalla corte dei miracoli fatta di popolani sporchi e di bambini maligni, di gente che ride, sghignazza e fa sberleffi, ma che è incapace di andare oltre e di opporsi consapevolmente al pote- re folle e putrefatto rappresentato dal viceré e svelato in tutta la sua insensatezza all’interno dell’ancora più putrida «aula del giudizio». E, di contro, c’è lo spazio esterno, in particolare la palude ‘profu- mata’ («Profumo d’aranci?», p. 84), contrapposta a una città tanto «puzzolente» da non potercisi camminare se non con un fazzoletto imbevuto d’aceto premuto sul naso; uno spazio di libertà, povero ma sicuro, dove la schiava Juanica può rifugiarsi.

Si potrebbe continuare a lungo a esaminare l’interna articolazio- ne degli spazi di questo racconto ‘teatrale’, al di là di tale opposi- zione fondamentale tra il dentro e il fuori le mura della città e al di là del medesimo spazio-tempo che fa da sfondo alle vicende narra- te: l’unità cronotopica della Cagliari di fine ‘400, resa mimetica- mente da una lingua ricca di tracce di mistilinguismo, con sardismi e ispanismi liberamente intrecciati e disseminati entro l’italiano vi- vace, agile e ‘veloce’ della scrittura di Atzeni.

Vorrei però soffermarmi in particolare, in questa sede, sulle due opere di Atzeni che mi sembrano, per ragioni diverse, le meglio riu- scite: Il figlio di Bakunìn (Sellerio, Palermo, 1991) da una parte2 e Il quinto passo è l’addio (Mondadori, Milano, 1995) dall’altra.

1. Nel romanzo Il figlio di Bakunìn la frammentarietà si sposa