• Non ci sono risultati.

Sergio Atzeni amava, alle volte, parlare della sua scrittura quasi avesse vita propria, indipendente dallo stesso autore Diceva:

«Ho scritto queste pagine, non sapevo cosa fossero, poi, a poco a poco, il disegno si è fatto chiaro. Così è nato questo libro». Era il suo unico vezzo letterario, per il resto sempre incline a spiegare in termini razionali la disciplina artigianale sottesa al lavoro dello scrittore. Che nessuna musa dettasse, ma che ogni pagina pubblicata fosse preceduta da una sotterranea incubazione e da un lungo itine- rario di pensieri può contribuire a dimostrarlo anche la carrellata che abbiamo appena compiuto sugli scritti giornalistici.

Restano soltanto tre articoli ai quali fare riferimento, sottratti all’ordine cronologico per una specifica valenza che li può segnala- re come anticipazioni, più o meno dirette, di pagine future. Il primo, una recensione a Il giorno del giudizio di Salvatore Satta, è del 1979. Scrive Atzeni: «Abbiamo molto, qui in Sardegna, la grave 24

S. ATZENI, E se realizzassimo una balentìa senza fucili?, “L’Unione Sarda”, 7 maggio 1995.

preoccupazione di quale immagine dell’isola passi, fuori dai nostri confini, attraverso le opere letterarie dei sardi. Preoccupazione che denuncia la nostra disabitudine ad essere soggetti e oggetti di lette- ratura: molto spesso mi sono chiesto come reagirebbero gli intellet- tuali isolani di fronte a scrittori capaci di descrivere i sardi così co- me Maupassant e Zola descrissero i francesi: c’è, in noi, l’inconscio desiderio di apparire sempre sotto la veste di eroi. Non si riflette abbastanza sul fatto che una letteratura grande – e solo un popolo coeso e forte può averne una veramente grande – si ciba dei vizi, delle malattie e delle deturpazioni del corpo sociale. Una letteratura veramente grande non ha pietà, né necessità encomiastiche»25.

Da tali pensieri derivano l’iconografia deformata dell’Apologo del giudice bandito, gli imbestiamenti che abbondano in questo ro- manzo ma che giungono fino a Passavamo sulla terra leggeri, dove anche un giudice padre della patria assume le forme grottesche della capra zoppa, le irridenti caricature de Il figlio di Bakunìn o de Il quinto passo è l’addio.

Ma se qui siamo a livello di progetti teorici che in seguito pren- deranno corpo, le ultime due citazioni riguardano veri e propri nu- clei narrativi, poche righe di giornale che in nuce contengono quel che l’autore scriverà molti anni dopo.

Tra le carte di Atzeni, purtroppo senza indicazione del periodico in cui apparve, né data (ma il titolo e le caratteristiche di stile lo in- dicano come posteriore alla pubblicazione dell’Apologo del giudice bandito), è stato ritrovato un ritaglio di giornale contenente un bre- ve pezzo – intitolato I giudici, i poeti, i banditi – che così incomin- cia: «Per sette secoli, sistemati sull’ago dell’anno mille come i due piatti di una bilancia, i sardi vissero liberi sulla loro terra. Fu la se- conda volta, la prima è quella dei nuraghe. Erano divisi in quattro piccoli stati chiamati giudicati perché, mentre altrove nel mondo e- rano re, imperatori e principi, in Sardegna erano giudici a tenere il 25

S. ATZENI, Come un carro fantasma nella città inesistente..., in “La Nuova Sardegna”, 8 aprile 1979.

potere. Il giudice era chiamato a giudicare in caso di guerra o di o- micidi o di nodi da sciogliere, si trattasse di incremento dei com- merci con gli algerini e coi profughi catalani o di organizzazione di bardane banditesche o di incroci degli armenti o di coltivazione dell’olivo… Doveva sciogliere i nodi e indicare la via giusta. Go- vernava circondato da una corona che raccoglieva i più saggi e ba- lentes del giudicato. Alla morte del giudice il successore veniva scelto dalla corona, chiunque fosse il padre. Ogni paese aveva coro- na e giudice. Fin da bambini correvano e duellavano e apprendeva- no ad interpretare la Bibbia, maschi e femmine, tutti potevano esse- re giudici, solo metro la balentìa. Il giudice emetteva sentenze leg- gendo passi della Bibbia. A volte l’oracolo era chiaro e netto, altre meno. E come dappertutto si è uomini, pure fra i giudici c’erano i buoni e i cattivi, i saggi e i folli. Fu la Chiesa di Roma a volere la fine del sistema giudicale? Impose a un certo punto che per essere giudice bisognava essere maschio e figlio di giudice? I giudici no- minati ebbero a volte figlie femmine. Giunsero nobili avvenenti e rapaci da Pisa e Genova e il potere fuggì ai sardi in tre giudicati. Ma un giudicato restò libero attorno ad Arbarei, la città antica, dov’era integra la casa del giudice e il cimitero sacro…».

Con tutta probabilità la rivista sconosciuta aveva chiesto ad A- tzeni, fresco autore dell’Apologo del giudice bandito, di spiegare ai lettori chi fossero i giudici, è questa è la risposta. Una ricostruzione storica? Forse; ma l’insieme del racconto sembra piuttosto il nucleo dal quale deriverà il romanzo Passavamo sulla terra leggeri.

A Bellas mariposas rimanda, invece, un testo pubblicato da “La Nuova Sardegna” nel 1977. Non è più un articolo di giornale, non è ancora un racconto. Un embrione di «storia dai ritmi lugubri» che sembra scovata nelle pagine di cronaca. Is Mirrionis, «case banali, con le serrande e i muri scrostati, i disegni osceni sulle pareti, nuove divinità falliche, i ragazzini che rubano la biancheria stesa, la mise- ria e la cultura del suburbio Ina-casa zeppo di immigrati, rinnovato dalle antenne TV e dalle cosce in copertina»26. Un padre che espri- 26

me morbose attenzioni nei confronti della figlia di soli dieci anni. Un mondo di degrado nel quale può nascere, e vivere, un’idea di purezza.

Atzeni ha individuato un soggetto narrativo, un’ambientazione, alcuni personaggi. Non ha, non può avere, la capacità costruttiva destinata ad affinarsi nel tempo, non ha ancora sviluppato la parte più originale delle sue riflessioni linguistiche. In questo caso affa- stella materiali, tra cronaca e letteratura, non senza rinunciare alla citazione di uno dei suoi poeti preferiti, T.S. Eliot: «Una corrente sottomarina/ gli spolpò le ossa in sussurri./ Mentre affiorava e af- fondava/ Traversò gli stadi della maturità e/ della gioventù/ Entran- do nei gorghi».

Basterà vedere come lo stesso tema del mare è trattato, con forte originalità, nell’episodio di Bellas mariposas in cui le due fanciulle compiono un’immersione purificatrice, per capire l’ampiezza del percorso compiuto da Atzeni. E tuttavia quel lontano articolo è già un segnale, un termine iniziale che ci permette di osservare i pro- cessi di una elaborazione narrativa che la morte ha bruscamente in- terrotto, dolorosamente privandoci di un uomo e delle ulteriori e- spressioni della sua attività artistica.

Tecnica del frammento e sperimentazione linguistica Cristina Lavinio

0. È sufficiente dare uno sguardo anche solo superficiale ai ro-