• Non ci sono risultati.

LA (MIA) FRASE NORMALE

Negli anni ’70 del secolo scorso non ero io. Eravamo noi.

Era quel noi a parlarmi in bocca e a vivermi nelle assemblee, nelle manifestazioni e negli scontri di piazza; era quel noi a scrivere i testi delle canzoni che andavo componendo e cantando.

Fa un po’ sorridere, ma si potrebbe dire che – in senso puramente tecnico – sono stato un poeta epico (diciamo un cantastorie; non però un cantautore: in musica, ho sempre lavorato in gruppo, e anche questo riporta al noi di cui parlavo).

Nel decennio seguente, la prima persona plurale che tutto sosteneva e abbracciava è naufragata nel giro di pochi anni. Le ideologie, i grandi racconti che spiegavano il mondo, si sono dissolti.

Eppure, senza spiegazioni, il mondo era ancora lì; persino più evidente, più chiaro di prima. E nel mondo, c’ero ancora io. Solo, ma sempre insieme. Per quanto smarrito, sbandato, stravolto, mi muovevo ogni giorno in mezzo alla gente con tutti; condividevo autobus, strade, piazze, pioggia vento e sole. Tutto questo, senza che qualche veneranda autorità ne spiegasse il senso. La cosa mi suscitava una tale meraviglia che sentivo un urgente bisogno di trovare le parole per dirla.

Ma per dirla, bisognava che qualcuno prendesse la parola. Il noi la parola l’aveva persa; restavo io. Su quell’io gravava ancora una censura, un’inibizione; certo, nessuno poteva ormai accusarmi di “individualismo piccolo-borghese”, ma la prima persona singolare continuava a sembrarmi smodata, oscena. La mia condizione, le nuove circostanze in cui mi muovevo, mi spingevano verso quello che si chiama lirica; ma un pudore, o forse un pregiudizio, mi tratteneva. Parlare di me, a mio nome, dal mio punto di vista: chi me ne dava il diritto? Mi mettevo nei panni del lettore più scettico e disincantato (il mio lettore ideale), e mi chiedevo che interesse potesse avere per lui – sempre che lo avesse raggiunto – la fervida esposizione dei fatti miei. Oltretutto, quell’io che avrebbe dovuto prendere la parola non sembrava più fondato del noi che si era lasciato alle spalle: era tutto da ritrovare, da ripensare. Così, nei miei primi libri, ad agire nei testi era per lo più uno,

qualcuno, un generico tu, o addirittura quel si impersonale che Heidegger – in Essere e tempo –

bolla come il perno dell’inautentico.

Proprio nel si, invece, io cercavo l’esperienza più condivisa, più comune. La comunità futura che l’ideologia del noi si sforzava di imporre come un valore da conseguire, come il grande Risultato, io la sentivo ogni giorno già presente nelle strade, nei bar, agli incroci, nelle stazioni, come qualcosa di certo e insieme di inafferrabile. Cercavo di parlarne. Non di argomentarla, di celebrarla, di farla valere, ma solo di mostrarla all’opera. Si trattava di capire e di mettere in parole ciò che, nonostante tutto, restava davvero comune.

In questa direzione andavano le immagini, certo: innanzitutto quelle delle case, degli scavi, dei muri che, sotto gli occhi di tutti, si illuminavano; ma per dirle, per raccontarle, andavo in cerca di quella che poi ho chiamato la mia frase normale.

Mia, e insieme normale. Cercavo la frase che mi normava, che mi metteva al mio posto, la frase in

cui la mia singolarità e la lingua di tutti s’incontravano.

Lo scarto, che sembra obbligato e fondante, tra la parola poetica e quella ordinaria mi disturbava quasi fisicamente, come una maschera che ti soffoca. I coturni, i trampoli della poesia, mi impedivano di camminare. Certe frasi, proprio non potevano starmi in bocca.

Non volevo parlare come parla il poeta: volevo parlare come si parla. Nella mia chimerica frase

normale, sentivo la promessa di una comunità che era già lì, ma restava sempre a venire; una

Sul piano retorico-stilistico, ad attrarmi era una figura rimasta un po’ ai margini della tradizione lirica del Novecento: la similitudine. Questa attrazione non era dovuta solo a una volontà di chiarezza: è che nella similitudine sentivo operare quella comunanza di cui ero in cerca.

Per “spiegare” ciò che vede nell’aldilà, Dante ricorre spesso a immagini tratte dalla vita quotidiana; nelle sue similitudini, l’esperienza eccezionale del poeta fa appello a qualcosa di condiviso da ogni essere umano. È come se dicesse: lettore, tu non hai visto l’VIII Bolgia; ma avrai pur visto, come me, le lucciole in un campo d’estate, avrai sentito una fiamma fischiare a un soffio di vento. Lo straordinario, nella Commedia, si richiama continuamente – attraverso il fidentissimo come – al suo opposto, a un’esperienza comune.

Nella modernità, questo richiamo si è perduto: il poeta ha difeso l’eccezionalità (vera o presunta) della propria esperienza dietro uno schermo di metafore, di allusioni, di segni obliqui.

Io non avevo un’esperienza arcana e ineffabile da contrapporre all’ovvietà del quotidiano: in quell’ovvio, anzi, cercavo ciò che era sostanzialmente comune, normale. L’ovvio – inteso etimologicamente, come ciò che sempre ci viene incontro – era al centro della mia riflessione e dei miei tentativi di scrittura.

Qualcuno potrebbe interpretare la mia scelta della poesia – fatta nei primi anni ’80, del cosiddetto “riflusso” – come una ritirata, una fuga dall’impegno politico nella penombra rassicurante della quotidianità. Quello che io sentivo, invece, e che sento, è che la mia scrittura – senza più il sostegno dell’ideologia – era finalmente davvero politica.

Mentre in passato usavo le parole per esprimere idee già date, per diffonderle, per predicarle, ora delle parole facevo esperienza, senza difese e senza presupposti. La lingua non mi appariva più come un mezzo per comunicare, ma come una terra che oscuramente mi sosteneva; una terra da esplorare, da interrogare, per cercare ciò che profondamente mi metteva in comune. Senza più niente da predicare, provavo a parlare, a fare esperienza di cos’è parlare. Nelle parole italiane più ordinarie, mi pareva che infiniti altri parlanti mi venissero incontro, che condividessero col mio il loro inesauribile voler dire.

Outline

Documenti correlati