TOGLIATTI E LA POESIA DI «RINASCITA» (1944-1960)
4. Poetiche d’autore
In questo paragrafo ci soffermeremo sulle ragioni che soprintendono alla selezione degli autori italiani. Con che criteri venivano scelti? Che cosa ci dicono sulla politica culturale del Pci? Tra il 1944 e il 1956 (anno in cui di fatto spariscono dalle pagine di «Rinascita»), vengono pubblicati testi di ventotto poeti italiani. A parte i casi notevoli di Gatto, Quasimodo, Aleramo Viganò e Saba, di cui compaiono per altro solo due poesie (Teatro degli Artigianelli e Disoccupato entrambe nel numero di gennaio 1945), gli altri autori vengono tutti da percorsi molto differenti. Anzitutto per la stragrande maggioranza dei casi si tratta di veri e propri poeti amatoriali. In quattro casi (G. Spampinato Sciuto Giuseppe Grassi Paolo Romei Cesare De Murtas) la ricerca sull’OPAC dà esito
negativo, mentre di Diega Russo Lo Presti registra una singola raccolta tarda (1960). L’affiliazione al partito non pare essere condizione indispensabile ai fini della pubblicazione, tuttavia gran parte degli autori o sono tesserati o provengono da un percorso interno. Molti ad esempio sono giornalisti passati attraverso testate fiancheggiatrici del partito o ad esso organiche: Nino Sansone (capocronista all’Unità di Napoli dal 1952 al ‘59), Alberto Caverni, Mario Farinella (collabora con l’Unità di Palermo), Renata Viganò, Gabriele Sellitti, Velso Mucci. Numerosi anche gli esponenti politici: Girolamo Sotgiu (consigliere regionale della Sardegna dal 1949), Romano Pascutto (sindaco e assessore del comune di San Sistino di Livenza), Giorgio Piovano (senatore per tre legislature). Gran parte dei poeti pubblicati escono dalle fila della resistenza, anche in questo caso non necessariamente dai ranghi del Pci: molti hanno, ad esempio, alle spalle partecipazioni al Partito d’Azione. Infine, alcuni pubblicano per pura cooptazione (penso ad esempio a Girolamo Sotgiu o a Velso Mucci), altri accedono alle pagine di «Rinascita» proprio in qualità di “membri periferici”, esponenti provinciali del partito (Giovanni Formisano, Alberto Caverni). Tesserati o no, organici o fiancheggiatori, politici o cronisti: la biografia di questi autori rende plasticamente conto della strategia messa in atto dal partito per egemonizzare il comparto degli intellettuali, anche attraverso una politica di cauta apertura a componenti ad esso non organiche.
Accanto a questi autori vi è la compagine più marcatamente popolare: si tratta della sezione dei poeti dialettali, di estrazione rigorosamente provinciale. Si pensi alla voce tradizionale di Ciccio Carrà Tringali, di Romolo Liberale, di Romano Pascutto. Nella sua prima fase «Rinascita» e il Pci volevano dare un’immagine aperta della cultura: rompere nei fatti con il circuito di autori che aveva prosperato nel ventennio per far avanzare una nuova produzione forgiata dalla Resistenza, in cui fosse superato il limite del professionismo: il partito cioè sosteneva la perfetta commistione tra “popolano” e intellettuale. Proprio per questa ragione, per altro, «Rinascita» non sembra aver avuto particolare interesse nel coltivare un circuito interno di poeti. Anzi, il mito dell’antiprofessionismo, dello sponteneismo artistico vissuto come atto primariamente politico, sarà la causa dell’abbandono da parte della rivista dei poeti che inizialmente aveva sostenuto: è significativo che (quasi) nessuno di essi entrerà in un canone di qualche sorta(41). Non è d’altra parte da escludere che la polemica Togliatti-Vittorini abbia giocato un ruolo in questa scelta del comitato di redazione e di Togliatti in persona. Non è inverosimile pensare cioè che vi sia stata la tentazione iniziale da parte della rivista di costruire un circuito autoriale suo proprio da sfruttare per la ricerca di una qualche egemonia estetica (vista anche la frequenza con cui molti di questi autori compaiono almeno fino al 1948-49), per poi accettare implicitamente l’idea che il mercato della poesia italiana fosse destinato a autoregolarsi in modo spontaneo.
A guardare le biografie degli autori salta immediatamente agli occhi un dato: la maggior parte di essi (ben 14 su 23, quelli di cui si è riuscito a rintracciare gli estremi biografici) nasce tra gli anni Dieci e gli anni Venti del Novecento(42). Fanno parte cioè di quella generazione che è stata spesso definita “del littorio” o “di Mussolini”(43). Perché? Nel gennaio 1944 un giovane Aldo Moro si apprestava a tenere la sua relazione al convegno dei rappresentanti dei comitati provinciali meridionali della Dc. Prima di cominciare, un «vecchio esponente del Partito Popolare contestò pubblicamente il diritto alla parola del giovane […], in quanto considerato compromesso con il passato regime per la sua partecipazione ai Littoriali»(44). Questo aneddoto è estremamente rappresentativo di quanto accadde ai giovani intellettuali nati negli anni Dieci, che si formarono interamente all’interno delle strutture del regime fascista, che parteciparono (spesso con entusiasmo) ai suoi riti, che ebbero accesso alla vita pubblica all’interno dei circuiti messi a disposizione dal Minculpop. Contro di essa si scatenò un fuoco di fila da parte della generazione dei “padri”, che tentò di imporre una “quarantena politica” che tenesse i giovani lontani dalla partecipazione attiva alla sfera pubblica: non avendo conosciuto la democrazia, non avrebbero potuto certo partecipare con profitto alla sua rifondazione(45). Una posizione, questa, condivisa da tutto lo spettro politico, dai cattolici, ai socialisti.
Al contrario, il Partito Comunista, addirittura prima della fine del conflitto, attuò una strategia di infiltrazione sia nelle stesse organizzazioni di massa del regime (quelle specificamente orientate ai
giovani), sia nei campi di prigionia (in particolare, come ovvio, in territorio sovietico). Dal 1944 poi, gli organi della stampa di partito cominciarono a riflettere in modo organico sulla questione della generazione di Mussolini. «L’Unità» vi dedicò ampio spazio, a partire dagli articoli del direttore Velio Spano, così come pure si verificò un’esplosione di pubblicazioni diaristiche e pseudodiaristiche incentrate sulla conversione comunista dei giovani del Littorio(46). Su questo sfondo va allora collocata l’attenzione di «Rinascita» per la giovane generazione di poeti. Pubblicare testi di autori nati tra gli anni Dieci e gli anni Venti, significava attuare una politica della “mano tesa”, fortemente rivolta al ceto intellettuale e specificamente letterario, per rafforzare la presa ideologica su queste élite. Il Pci insomma tenta una sorta di Opa su una generazione marginalizzata dalle altre forze politiche per guadagnarne il consenso.
Accanto alla dimensione generazionale riposa la questione del cambio di posizione ideologica. Molti dei poeti presenti sulle pagine del mensile hanno un passato di collaborazione attiva (più o meno convinta, più o meno di fronda) con le strutture culturali del regime: Alfonso Gatto, Salvatore Quasimodo, Girolamo Sotgiu, Raoul Bartolotti. Ma il caso più eclatante è certamente quello di Sibilla Aleramo. Dopo una prima fiammata antifascista (firmerà il manifesto degli intellettuali antifascisti di Croce nel 1925), la scrittrice verrà completamente aggiogata alle strutture di potere del ventennio. Da qui passerà ad una vera e propria ostentazione delle direttive ideologiche fasciste, facendosi strumento di propaganda. In cambio otterrà benefici notevoli. Assegnataria di lauti sussidi da parte del Ministero della Cultura Popolare (si stimano circa 235 mila lire in circa quindici anni), Aleramo farà continue pressioni sugli uomini del ministero per la ricerca di collaborazioni giornalistiche, per la sponsorizzazione delle sue opere (noto è il caso delle pressioni del ministero su Mondadori per la ripubblicazione della raccolta Sì alla terra), infine per compiere veri e propri atti di intimidazione verso critici non benevoli(47). Nel dopoguerra Aleramo muterà radicalmente fronte, iscrivendosi al Pci e ricevendo uno spazio sulle pagine di «Rinascita» superiore a qualsiasi altro poeta italiano. La collaborazione di Aleramo assume allora le fattezze di una scelta simbolica: il Pci di Togliatti, sulla scia dell’indulto approvato dal suo ministero nel ’46, prosegue nella politica di distensione e nel tentativo pervicace di ingraziarsi i ceti intellettuali. Le politiche d’autore perpetrate da «Rinascita» rivelano ancora una volta forti risvolti politici.