Devo fare una confessione. Quando preparai il discorsetto che avrebbe dovuto integrare il convegno organizzato da Italo Testa su politica e poesia (cui diedi un contributo preparatorio anch’io), il titolo che idealmente mi frullava per la testa era: Elogio della separatezza. Adesso, a circa sei mesi di distanza, una volta metabolizzate le ottime impressioni di tutto quanto avvenne nella giornata del 2 marzo 2019 in quel seminterrato meraviglioso che è la Casa della cultura di Milano, a una decina di metri dai luoghi storici del neofascismo, e mentre sopra di noi sfilavano le decine di migliaia di persone di un corteo antirazzista, – adesso, dunque, ritengo ancora attualissima quella mia prima intenzione. La poesia o è separata o non è. Nella sua separatezza risiede la sua (eventuale, molto eventuale, e comunque non programmabile facilmente) funzione politica.
Procediamo con calma. È lo stesso Adorno, preso a spunto del nostro convegno, a ricordarcelo. Il ‘genere’ lirico è il luogo in cui la soggettività infelice che caratterizza l’individuo della modernità capitalistica trova una felice espressione, diciamo, simbolica, suscettibile di prefigurare una “condizione in cui nessun cattivo universale, cioè profondamente particolare, incateni più l’altro universale”. Quel tipo specifico di ‘cristallizzazione’ linguistica che storicamente costituisce la poesia lirica (diciamo, la lirica moderna da Goethe e dai romantici, anche inglesi, in poi) costituisce l’espressione – noi diremmo istituzionale – di un “io che si determina e si esprime in quanto contrapposto al collettivo, all’obbiettività”. In parole povere, lo specifico della poesia è anche lo specifico di una posizione altra rispetto all’alienazione collettiva, alla falsa infinità della società capitalistica.
Il punto tuttavia è che quanto io chiamo, con espressione volutamente rétro, “specifico” è la pantera odorosa di Dante, sulle cui tracce dobbiamo metterci, rischiando tuttavia di non catturarla mai. In parole povere (lasciando da parte una minacciosa banalità, una domanda cretina ma in fondo inevitabile: che cos’è la ‘vera’ poesia lirica?), non è possibile accertare la forza contestativa, sociale, della lirica se non si elaborano alcune ipotesi sulla sua struttura, sui suoi meccanismi di funzionamento. La capacità di incidere ‘fuori’ della poesia è direttamente proporzionale alla funzionalità ‘interna’ dei suoi meccanismi; la sua Wirklichkeit sociale è conseguenza della sua densità ‘struttiva’, del pieno successo della sua costruzione. Tutto qui, né più né meno. Se è vero che ‘poesia’ (lirica) importa la definizione di un genere-dispositivo simbolico dotato di una forte autonomia pubblica, che anzi si configura proprio come uno spazio chiuso garantito dal proprio essere altrove, dal proprio essere diverso, l’unico modo per cogliere lo snodo decisivo del sistema è
lavorarci dentro. Dire come funziona, come manifesta il suo eventuale vigore; in che maniera
modula le sue tradizioni formali e tematiche, come le mantiene in vita e le ridiscute. Chi mette piede in questo gioco deve accettare una specie di buco nero della comunicazione linguistica per poter vivere al suo interno: più che da lettore, da diagnosta o analista; da scienziato del testo, con ricca dote di arrière pensées politiche – che mai peraltro possono essere spiattellate fino in fondo. Bisogna dunque progredire, sopravvivere in una posizione di isolamento, che è tanto più significativa quanto più è consapevole di potersi nominare a fatica, di non avere altra legittimazione che non sia il collocarsi da un’altra parte rispetto ai valori dominanti. Assecondare la poesia lirica significa insomma sentirsi parte di una cerimonia in cui il non dire fa premio nettamente sul dire. Né si può credere che una forma di illuminazione (qualcosa di vagamente imparentato con lo Zen) venga a premiarti come individuo.
Del resto, che cosa chiede la poesia al suo lettore? (Non mi riferisco a quel poveretto o poveretta che le convenzioni sociali prevedono – l’infelice lettore scolastico, costretto a fingersi ‘specialista’ suo malgrado, a dispetto della sua assenza di ogni ‘specialità’.) Chiede di intercettare quelle che con Jean-Luc Nancy potremmo chiamare delle “venute” del senso, delle improvvise accensioni di significato che, sì, possono arricchirci: ma in una direzione sociale, secondo il modello immaginato da Baudelaire. Un lettore ipocrita, leggermente strabico o presbite, solo nel suo salotto, nel suo scompartimento ferroviario, nella sua camera da letto, nell’aula universitaria in cui langue,
all’improvviso vede spiattellarsi davanti a sé un senso che – forse – lo aiuterà, oppure – più probabilmente – rientrerà nel buio dell’esperienza quotidiana. E se un aiuto, un accrescimento cognitivo ci sarà, si spera che riguardi una maggior consapevolezza pubblica. Se la saggezza orientale (buddista, zen) mira a svalutare la lingua per mettere in auge la praxis, la saggezza poetica eccita la lingua al massimo delle sue potenzialità per sperare che una coscienza per un attimo si accenda; e una prassi corretta appaia meno improbabile.
Sono convinto che quanto sopra scritto sia ancora largamente vero. E un pezzo importante della mia vita si è speso dentro una simile condizione. Vero è che oggi viviamo (e nel convegno se ne sono udite le frequenti espressioni) in un insopportabile, logicamente impresentabile, adornismo di
massa. A pensarci bene, succede questo: quanto più si elogiano le virtù salvifiche della parola
poetica, tanto più se ne chiede la presenza pubblica, la sua immediata promozione a valore sociale condiviso. Magari condiviso per legge. Ogni dieci libri stampati, uno dovrebbe essere di un poeta di quelli bravi, di quelli che i critici bravi sanno chi sono. E altre follie del genere. Perché l’editoria ci tratta tanto male, noi, che siamo il sale della terra? Ohi, ohi, quanto soffriamo...!
Non ho tanta voglia di argomentare – lo confesso. Ricordo solo che, da questo punto di vista, l’ultimo dei trapper ottiene il ‘successo’ sociale che il migliore dei lirici (o ricercatori) italiani o
global nemmeno si sogna. Se il metro di riferimento fosse il riconoscimento, il trapper avrebbe
vinto da un pezzo; e nessun poeta avrebbe la minima speranza di entrare in gioco. Nemmeno se la trap venisse messa fuori legge da qualche scagnozzo salviniano; e nemmeno se si triplicassero le ore di letteratura a scuola. Altro era il problema, e altre le soluzioni.
Insomma. Compagni poeti, vi invito alla separatezza! E, insieme, compagni poeti, parliamo dei rapporti di produzione! I rapporti di produzione sono ciò che la vostra poesia non dice, e non dirlo
nel modo giusto è ciò che ci serve. (Del resto, una consulenza gratuita su “modo” posso sempre
darvela.)