Un filosofo che può aiutarci a pensare i rapporti tra politica e letteratura è sicuramente Jacques Ranciére. Evito di esaminare in dettaglio le numerose proposte e posizioni espresse in libri come
Politica della letteratura o Ripartizione del sensibile e ne estraggo invece una tesi di fondo su cui
poggiare il mio discorso: la letteratura non ha che fare con la politica per via dei suoi contenuti discorsivi o dell'impegno politico di chi la produce: essa fa, ed è politica, in quanto letteratura. Benché lavorino su due scale diverse, la politica e letteratura si caratterizzano come due pratiche fondate sul dissenso, sull'interruzione; o, detto in modo più neutro, sulla riorganizzazione dei rapporti tra forme di visibilità e forme di dicibilità, tra forme di proprietà e forme di spossessamento, tra regimi di inclusione e di esclusione. Politica e letteratura si presentano, da questo punto di vista, come due pratiche inventive, immaginative, finzionali in un senso ben preciso: due pratiche che hanno la capacità di inventare delle forme, di immaginare degli spazi, in cui i ruoli e i rapporti cambiano, modificando le condizioni della loro visibilità all'interno della scena comunitaria.
Sul concetto di visibilità – di visibilità critica – si è espresso anche uno scrittore e teorico francese come Christophe Hanna, articolando ulteriormente la dimostrazione della politicità della letteratura: una politicità intesa appunto come effetto pragmatico delle operazioni e delle forme che questa mette in campo e non come attributo limitato ai suoi contenuti discorsivi.
In Poèsie Action Directe Hanna esprime la necessità di abbandonare tutti gli a priori circa la funzione estetica della poesia. Basandosi su un certo ventaglio di scritture francesi più o meno contemporanee, Hanna propone una nozione di poetico come risultato di una serie di azioni di selezione e ridisposizione di materiali simbolici in contesti precisi, tali da produrre delle interazioni significanti e inedite. Il “sapere proprio” di queste pratiche transitive, che definisce anche come
disposali, non è quindi un contenuto discorsivo, ma un effetto di visibilità critica. Esporre una
realtà, i suoi rapporti e le sue contraddizioni, a un qualche tipo di visibilità, significa esporre quella stessa realtà all'eventualità di una sua ridefinizione o di una sua rivoluzione. Non si tratta di quindi di ristabilire un senso scomparso, maiuscolo, o di reinscrivere in un mondo in crisi il sentimento perduto del reale; né si tratta di pronunciare, a partire da un punto d'assolutezza, una verità, finanche negativa, di cui si possiede una conoscenza preliminare. Si tratta invece, per le scritture che Hanna ha in mente e per quelle di cui accennerò più avanti, di “disporre o ridisporre degli elementi simbolici nel sistema sensibile di un contesto”, in modo da produrre una visibilità critica dei supporti e dei codici delle diverse realtà del mondo, di operare una ridefinizione degli àmbiti, di scombinare i rapporti di corrispondenza tra regole, funzioni ed usi. È in questo senso che abbiamo a che fare con scritture impegnate: epistemologicamente. Ed è in questo senso che abbiamo a che fare con scritture politiche: pragmaticamente.
Selezione e ridisposizione di materiali e codici sono un assunto teorico, e una pratica specifica, anche per quanto riguarda l'arte contemporanea. Nicolas Bourriaud nel suo saggio Postproduction parla infatti di selezione, appropriazione, trasformazione dei materiali secondo un'intenzione precisa che prevede infine la condivisione, la messa in comune dell'oggetto estetico. Il passaggio dal paradigma teologico della “creazione dal nulla”, a quello della postproduzione a partire da un bacino materiale e simbolico comune, è un passaggio con conseguenze decisive. Il creatore, il genio artistico, viene sostituito da figure diverse, figure laiche come il bricoleur o il semionauta. Per comprendere ciò che è in ballo in questo processo, il cui punto di partenza è ravvisabile nell'opera di Duchamp, Bourriaud ricorre all'Introduzione per la critica dell'economia politica, laddove Marx scrive che il consumo è allo stesso modo, e immediatamente, produzione e viceversa la produzione è sempre anche consumo. Tanto il ready made quanto le pratiche disposali fanno quindi venir meno la distinzione tra produzione e consumo, tra creazione e fruizione.
consumo. Perché così facendo asseconda una caratteristica precisa del capitalismo contemporaneo, cioè il fatto di trattare come beni di consumo quelli che sono invece beni di uso. Come appunto gli oggetti artistici.
Dove il consumo prevede l’esaurimento, la distruzione dell’oggetto consumato, l’uso pertiene invece al possibile, agli infiniti e indefiniti impieghi dell’oggetto, che può essere utilizzato e riutilizzato anche più volte. «si fa uso quando si può eseguire una variazione, immaginare una forma diversa […] nell’uso il reale retrocede a possibile, il bordo tra impossibile e possibile diviene poroso». La nozione di uso, che ha assunto un rilievo decisivo nella filosofia contemporanea, ci obbliga quindi a riconsiderare il nesso inscindibile tra prassi e poiesi, e tra parola e azione; permettendoci così di ripensare l'istituzione della letteratura o della poesia in termini di intreccio fra consuetudini e innovazioni. L’uso ci permette di riconfigurare l'unidirezionalità lineare del processo estetico in una biunivocità osmotica in cui non c'è più un soggetto attivo che fa uso di un oggetto inerte, ma in cui gli oggetti usati, e i termini del loro uso, retroagiscono sul soggetto autore e sul soggetto lettore, modificandone disposizioni e condotte. In ambito artistico possiamo distinguere tra uso conforme o proprio e un uso improprio cioè tra un uso che rispetta regole, consuetudini, funzioni e scopi, depositati e cristallizzati nell’oggetto o nel materiale, e un uso improprio, ribelle se vogliamo, che si fonda sull’immaginazione di ciò che è possibile fare e mostrare con ciò che c’è, usando lo spartito comune dell’intelletto generale e i materiali condivisi che ci circondano.
Ciò è tanto più importante nel momento in cui la società postfordista in cui viviamo ha come connotato principale quello di aver messo a lavoro e a profitto il linguaggio e la comunicazione e tutte le facoltà cognitive dell'uomo in quanto tali. Questa identità di produzione materiale e comunicazione linguistica, analizzata a più riprese da Paolo Virno, comporta infatti tra le altre cose la trasformazione dell'industria culturale in industria dei mezzi di produzione. L'industria culturale produce, in altre parole, procedure e modelli comunicativi che fungeranno ulteriormente da mezzi di produzione.
In uno scenario siffatto la politicità e l'impegno della letteratura non possono che acuirsi, responsabilizzarsi in modo radicale rispetto alle condizioni contestuali. Si daranno allora scritture reazionarie o collaborazioniste e scritture dissensuali o anti-realiste, nel senso conferito a un simile concetto dal semiologo Rossi-Landi: «È realistico ciò che il pubblico – un determinato pubblico – capisce e accetta, subito e facilmente, come proprio; e ciò che il pubblico non può capire e accettare subito e facilmente come proprio, varia in modo incessante di momento in momento e di luogo in luogo». In questa definizione si situa un modo di essere tipico del capitalismo, la sua capacità cioè di fagocitare costantemente il nuovo, l'antagonistico, di metterlo a profitto e così disinnescarlo. Sarà allora opportuno proporre non una coazione al nuovo di stampo modernista o avanguardistico, bensì una coazione al dissenso, il quale, però, non può avere valenza universale e eterna, non può che mutare costantemente forma e modalità operative in base alle condizioni contestuali. La rivoluzione, il dissenso, non possono avere modelli astratti validi per tutte le situazioni, vanno reinventati sempre daccapo.
Quanto detto finora vorrebbe mostrare anche quanto poco sia produttivo, se non superficiale, impostare il problema rappresentato dalle cosiddette “scritture di ricerca” riducendole ai tratti dell’ipo-assertività e del distacco ironico, come ha recentemente fatto Guido Mazzoni in una sua intervista. Alle regressioni intellettuali della lirica e alle operazioni post-poetiche così miniaturizzate, Mazzoni oppone la potenza discorsiva della sua stessa produzione poetica, quella “poesia per adulti” che, muovendo verso il romanzo-saggio, intenderebbe dire molto “di più” rispetto a quanto di solito si fa in àmbito lirico. Questo “dire di più” è senz'altro anch'esso una precisa politica, ma per quanto mi riguarda la questione non è tanto dire di meno o di più rispetto alle varie ideologie del testo più invalse, se poi si producono comunque discorsi che si pongono come la forma verbale del vero e che riducono l'esperienza di lettura e il soggetto-lettore a cassa di risonanza dove far riecheggiare il discorso dell’autore sul mondo e su di sé. La questione è quella di accettare uno spostamento, un altrove del possibile della letteratura.
All’istanza espressivista, queste scritture anomale oppongono un lavoro sui margini degli ordini di verità dominanti, inceppando la volontà di dire con un’intenzionalità ostensiva, operativa. Invece di una poesia per adulti proporrei una poesia fatta da e per esseri umani neotenici.
La neotenia è un concetto coniato nel 1884 dal biologo tedesco Julius Kollmann, combinando due parole greche: neòs (nuovo) e teìno (tendere verso, estendere, mantenere) per descrivere una caratteristica di un tipo di rana messicana. Havelock Ellis, antropologo e sessuologo, fu invece il primo ad applicare il concetto di neotenia all’uomo. Successivamente teorici come Bolk, Portmann e Gould hanno affermato e dimostrato nel corso del Novecento come l’uomo sia un animale neotenico cioè caratterizzato da una ritenzione di tratti somatici e comportamentali dei cuccioli. Riassumendo, per neotenia è stato inteso: nascita anticipata, sviluppo lento e ritardato, immaturità cronica, scarsità di specializzazione morfologica, pulsionale e linguistica.
È dirimente eliminare due equivoci possibili che nascono da due opposte idee caricaturali dell’infanzia:
1. Equivoco apologetico che vede il bambino come simbolo di innocenza e purezza e usa la neotenia come prova della natura fondamentalmente buona dell’essere umano;
2. Equivoco dispregiativo che vede il bambino come un minus habens, un cognitivamente sottosviluppato e l’infanzia come stadio transeunte che viene chiuso definitivamente con l’entrata nell’età adulta e nel regno della ragione.
E qui penso al Mazzoni che in una intervista su Nuovi argomenti propone una poesia per adulti: Una parte consistente della poesia contemporanea, sia quella che discende dai
poetesi tradizionali, sia quella che discende dai poetesi avanguardistici, chiede al lettore di regredire verso strati di coscienza anteriori a quelli della coscienza desta adulta e lo immette in retoriche separate dal brusio della comunicazione ordinaria. Credo che oggi si debba fare così: trattare il lettore da persona adulta.
Il pregiudizio del primo tipo non può non farci pensare al mito del fanciullino di Pascoli, che però, se spurgato dalle scorie ideologiche romantico-decadenti, è una teoria della meraviglia non solo attuale, ma prassi in aggirabile del fare poetico.
Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose. Egli adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: Impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare. (G. Pascoli,
Il fanciullino)
La neotenia confuta entrambe le posizioni: l’infanzia né come fase passeggera, né come periodo innocente, bensì come invariante biologica da cui derivano: natura indeterminata e ambivalente, apprendimento ininterrotto, interazione attiva e creativa con l'ambiente.
Un pensatore che ha dedicato pagine illuminanti all’infanzia, senza incorrere in pregiudizi idealizzanti, è stato Walter Benjamin. Nel gioco infantile, nel rapporto che esso stabilisce con la materia della realtà, si esplica una capacità combinatoria, di assemblaggio, di continua scomposizione e ricomposizione degli oggetti.
I bambini sono fondamentalmente portati a frequentare i luoghi dove si lavora, dove in modo evidente si opera sulle cose. Sono attratti irresistibilmente dai materiali di scarto che si producono in officina, nelle attività domestiche o lavorando in giardino, nelle sartorie e nelle falegnamerie. […] Con gli scarti di lavorazione i bambini non riproducono le opere degli adulti, tendono piuttosto a porre i vari materiali in un rapporto reciproco nuovo e discontinuo, che viene loro giocando.
(Walter Benjamin, Figure dell’infanzia. Educazione, letteratura, immaginario, a cura di F. Cappa e M. Negri, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012, p. 60).
Accanto alla figura del bambino Benjamin aggiunge quella del collezionista che al pari del primo intrattiene con gli oggetti un rapporto feticistico, che è il risultato di una trasgressione alla regola che assegna a ogni cosa un uso appropriato, trasgressione che per Freud coincide con la deviazione del desiderio dal suo oggetto primario, mentre per Marx con la violazione del valore d’uso (Agamben 1977, 41-46, 53).
Il collezionista infatti raccoglie oggetti, raduna frammenti non integrati nell’ordine delle cose; si interessa di «territori estremi», cose desuete o declassate; chiama a raccolta scarti, resti e quanto si sottrae alla logica commerciale dell’utile, li libera dalle relazioni funzionali cui soggiacciono, sogna un mondo «dove le cose sono liberate dalla schiavitù di essere utili».
Il collezionista e il bambino affrancano quindi le cose dalla loro riduzione a valore di scambio, attraverso un doppio movimento, un movimento nel tempo (eterocronia) e un movimento nello spazio (eterotopia): le sottraggono alla linearità storica del tempo cui sono destinate e le salvano dall’oblio; contemporaneamente producono uno spostamento nello spazio, generando un contesto nuovo in cui le cose rivivono.
In questo senso, agli occhi di Benjamin il «carattere distruttivo» dei bambini e dei collezionisti è rivoluzionario, poiché rifiuta di sottostare alle leggi dell’utile e della funzionalità, alle leggi del mercato che governano la moderna circolazione delle merci. La loro prassi peculiare si fonda sulla volontà anarchica e distruttiva di scardinare la continuità omogenea e vuota dell’esistente, attraverso la raccolta di scarti, il recupero di frammenti, materiali strappati dal contesto che sono riordinati secondo nuovi criteri in modo che si illuminino reciprocamente, in questo modo, «ogni brandello e ogni scarto […] salvato finisce per cospirare contro l’ordine esistente».
Lo psichiatra e pediatra D.W. Winnicott nel suo libro Gioco e Realtà analizza proprio la distruttività dei bambini come caratteristica precipua della nostra specie e ne fa il punto di svolta tra due fasi evolutive: 1. entrare in rapporto con un oggetto e 2. usare un oggetto.
Entrare in rapporto con un oggetto è un evento e un’esperienza del soggetto mentre usare un oggetto vuol dire che quell’oggetto deve essere reale, deve essere parte di una realtà condivisa e non un fascio di proiezioni. Per usare un oggetto il soggetto deve accettare e riconoscere che l’oggetto è fuori di sé, è fuori del suo controllo onnipotente. È nell’uso che l’oggetto diventa reale, esterno e pubblico. Per Winnicott il passaggio dall’entrare in rapporto all’uso si realizza non tramite la conoscenza o l’esperienza ma tramite un tentativo di distruzione. Far diventare reale un oggetto significa tentare di farlo a pezzi. Solo dopo il tentativo di distruzione l’oggetto o ciò che ne sopravvive può essere usato. Quindi ogni uso è un prima di tutto una distruzione, una distruzione però in parte fallita, che va a vuoto, che lascia del materiale che può essere appunto riutilizzato. Come abbiamo precedentemente affermato, solo il consumo comporta una distruzione totale dell’oggetto e quindi rende impossibile qualsiasi uso.
Tornando al gioco, come ha recentemente sottolineato Marina Montanelli nel suo saggio Il
principio ripetizione, per Benjamin l'essenza del gioco è appunto il principio ripetizione. Ma
bisogna distinguere tra due nozioni di ripetizione. La prima è la ripetizione mitica di religione e destino: l’eterno ritorno dell’identico. La seconda è una «ripetizione storica e differenziale» che ripetendo trasforma e modifica e produce futuro.
Nella prima accezione è stata inteso il gioco da Freud e da Piaget o come coazione a ripetere intrisa di pulsione di morte, per dominare il trauma, o come fuga dalla realtà sulla base del principio del
piacere. In entrambi i casi il gioco è una tendenza disadattativa e recessiva destinata a scomparire con l'età adulta, l'età della ragione e del principio di realtà.
Questo orientamento è stato smentito dalle sperimentazioni condotte da Paul L. Harris, accompagnato dalle teorizzazioni di Eugen Bleuler e Vygotskij, secondo i quali il gioco e la capacità finzionale non rappresenta qualcosa di occasionale destinato a una graduale scomparsa nel corso dello sviluppo intellettuale; al contrario risultano essenziali anche all’uomo adulto.
Benjamin insiste sulla non esaustività della lettura freudiana del gioco, esiste invece un gioco svincolato, o esente, dal dominio (di sé, del trauma) – un gioco libero, ma soprattutto un gioco produttore di nuovo. Con le parole di Montanelli: «Il gioco sospende la ripetizione rituale dell’identico rovesciandola in pratica emancipativa e costruttiva: non reitera il ciclo né finge una linearità progressiva, piuttosto procede orizzontalmente per serie di combinazioni, per salti e contrazioni in cui il nuovo emerge dalla “manomissione” continua e gioiosa del vecchio» (p. 91). Il giocattolo è una forma innovativa che nasce da atti distruttivi, dal prendere distanza dal mondo, dal passato e dalla tradizione. L’uso fondato su ripetizione, variazione e montaggio di materiali spogliati della loro unità mitica e della loro aura, riporta questi materiali dalla sfera dell’Erlebnis unico a quella dell’Erfahrung ordinaria. Nella lettura che ne dà Marina Montanelli il gioco, come inteso da Benjamin, non condivide ma contende al sacro il suo campo d’azione. E proprio questo punto ci collega alle riflessioni di Emile Benveniste e Giorgio Agamben sull’argomento.
Nel suo saggio Il gioco come struttura (1947) Benveniste afferma che il gioco è un’attività regolata da un’intenzionalità non orientata verso l’utile, che ha un rapporto dialettico con il sacro. Il sacro presuppone la realtà del divino e il fedele attraverso il rito è introdotto in una realtà più vera – il sacro è sur-reale. Al contrario il gioco è extra-reale, col gioco si esce dalla realtà, il giocatore è introdotto in un’altra realtà. Il gioco è un’operazione desacralizzante – è un sacro invertito. Tutto può essere trasformato in gioco se lo si separa dal suo fine reale che si propone e che gli conferisce efficacia.
Agamben, nel suo saggio Elogio della profanazione (2005), afferma che mentre la religione sottrae cose e luoghi all’uso comune e le trasferisce in una sfera separata, la profanazione restituisce le cose e i luoghi all’uso comune, e proprio il gioco viene definito come organo principe della profanazione. Successivamente Agamben si perita di distinguere tra secolarizzazione e profanazione: mentre la prima è una forma di rimozione che sposta lasciando intatta la dinamica di potere e di dominio; la seconda implica una neutralizzazione del sacro, una distruzione di aura di ciò che viene restituito all’uso disattivando i dispositivi di potere. La profanazione non si limita ad abolire la separazione ma sgancia il mezzo dal fine e rende inoperoso un vecchio uso e ne crea uno nuovo. Profanare significa fare nuovo uso delle separazioni, giocare con esse. Nella società del capitalismo avanzato, inteso come religione cultuale che crea l’assolutamente improfanabile, spettacolo e consumo sono le due facce dell’unica impossibilità di usare, perciò profanare è diventato impossibile e proprio per questo la profanazione dell’improfanabile è il compito politico della generazione che viene.
Meraviglia, gioco, distruzione e uso improprio sono alcune delle precipuità derivanti dalla natura neotenica dell’animale umano. Come ha analizzato Marco Mazzeo nel suo saggio Il bambino e
l’operaio, questi stessi caratteri neotenici vengono esplicitamente messi a profitto in quanti tali dal
capitalismo avanzato contemporaneo in forme come il Lifelong Learning, l’infantilizzazione nel consumo e nel lavoro, etc.
«In un mondo che ci condanna a essere creativi come tanti enfant prodige, ma politicamente disorganizzati come bimbi al nido», queste pratiche testuali e gli autori che le praticano, mettono in campo «un’infanzia all’opera non asservita ai miti puerili della società dello spettacolo con i suoi gadgets, le sue mode compulsive, le sue novità all’ultimo grido, i suoi bestsellers», ponendo al centro della scrittura «potenzialità linguistico-cognitive, sospensioni d’uso, possibilità
d’apprendimento». Lo scrittore postproduttore e bricoleur, va perciò inteso come essere neotenico all’opera, un soggetto che mette alla prova, distrugge e usa ciò che lo circonda, «come un parlante alle prime armi che tende a cambiare […] porzioni di lingua, sistemi di usanze, intere immagini del