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G REGORIO P ALAMAS : L ’ ONTOLOGIA E IL CONCETTO DI IPOSTAS

È davvero possibile rinvenire nella dottrina di Gregorio Palamas un’ontologia, vale a dire una riflessione organica e strutturata sull’essere, con una una propria terminologia e delle proprie concezioni? Negli studi di carattere filosofico e teologico dedicati al teologo esicasta nel secolo scorso è difficile trovare una risposta affermativa a questa domanda. Gli studi condotti nel corso del Novecento sul pensiero di Gregorio Palamas, oltre all’interesse dogmatico, hanno infatti posto l’accento sul carattere esperienziale della dottrina palamita e così hanno costruito una narrazione in cui il profilo di Gregorio Palamas che ne è risultato è quello di un monaco athonita impegnato a descrivere e difendere l’esperienza monastica di ascesi e illuminazione sua e dei suoi compagni, mediante un lessico teologico che egli avrebbe imparato nello studio dei Padri greci. Senza negare l’aspetto di vera e propria teologia pratica del pensiero di Gregorio Palamas, né la ripresa dei Padri greci che caratterizza la sua opera, l’obiettivo di questa sezione del nostro studio è di sfatare quello che ci sembra un luogo comune storiografico. In altri termini, pensiamo che l’opera di Gregorio Palamas presenti un valore speculativo e filosofico che risiede in primo luogo nell’elaborazione di una articolata riflessione ontologica.

Il riconoscimento di un interesse ontologico nell’opera di Gregorio Palamas ha incontrato esplicite negazioni da parte di diversi interpreti. Nel suo testo sulla triadologia del teologo esicasta, Amfilochije Radovic ha ribadito più volte come non sia legittima un’interpretazione ontologica dell’opera palamita, sostenendo che si tratterebbe di una preoccupazione estranea a Palamas, la cui unica intenzione sarebbe quella di difendere la sua esperienza mistica e le ricadute dottrinali che questa ha sul dogma1. In linea con la lettura generale che Radovic fornisce, secondo la quale l’aspetto speculativo e filosofico sarebbe assente dalle opere di Gregorio Palamas, la riflessione del teologo esicasta viene da molti ridotta a una sorta di manifesto confessionale, estraneo alla terminologia e alle istanze speculative. Come speriamo di mostrare nelle pagine seguenti, questa

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lettura schematica e stilizzata di Gregorio Palamas è confutata dal testo stesso delle sue opere e dalla sua stessa biografia intellettuale.

Sulla stessa lunghezza d’onda di Radovic, troviamo anche altri testi di studiosi e interpreti del secolo passato che negano la presenza di interessi di carattere ontologico nell’opera del teologo esicasta. È il caso di un classico della storia della filosofia come Plato Christianus di Endre von Ivánka che afferma quanto segue: «I palamiti non tenevano che a difendere l’autenticità delle loro esperienze mistiche, e non a trovare una formula ontologica per comprendere l’insorgenza della creazione e dell’essere finito fuori di Dio»2. Secondo l’interpretazione di von Ivánka, la distinzione fra essenza (οὐσία) e attività (ἐνέργεια) che caratterizza la dottrina palamita non sarebbe infatti che una formula di derivazione neoplatonica impiegata in maniera strumentale per difendere un’esperienza mistica. Nella dottrina di Gregorio Palamas non sarebbe dunque presente alcuna autentica esigenza speculativa. Il risultato filosofico dell’impiego strumentale della distinzione fra essenza e attività, secondo von Ivánka, sarebbe in Gregorio Palamas una dottrina metafisica incoerente nella misura in cui non rispetterebbe il principio logico della semplicità di Dio (un’accusa alla quale lo stesso Gregorio Palamas aveva ampiamente e più volte risposto nei suoi scritti)3.

Possiamo dunque notare come le posizioni di Radovic e von Ivánka tendono a convergere su questo punto, pur partendo rispettivamente da intenzioni diverse: mentre il primo considera inappropriata l’attribuzione dell’interesse speculativo a un Gregorio Palamas innalzato agli onori dell’altare come teologo centrale della Chiesa e difensore di una confessione di fede; il secondo, partendo dal punto di vista della storiografia occidentale del secolo scorso, considera intrinsecamente problematica e poco convincente l’intenzione stessa di Gregorio Palamas di sostenere la sua difesa dell’esperienza esicasta mediante concetti ontologici. Georgios Mantzaridis ha espresso una posizione diversa in un articolo del 19724, sostenendo piuttosto che in Gregorio Palamas il discorso ontologico non conta nell’ambito della relazione che si instaura fra Dio e l’essere umano, che egli

2 E. VON IVANKA, Plato Christianus. Übernahme und Umgestaltung des Platonismus durch die

Väter, Einsiedeln (Johannes Verlag) 1964, p. 393.

3 Ibidem, pp. 412-414.

4 G.MANTZARIDIS, Ὁ ἅγιος Γρηγόριος Παλαμάς ὡς διδάσκαλος τῆς Ὀρθοδοξίας, in: Γρηγόριος ὁ

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considera nei termini di una relazione non di tipo ontologico o esistenziale, bensì in quelli di una relazione di natura logica e noetica. Ad ogni modo, nella stessa sede Mantzaridis ha comunque riconosciuto la presenza di un interesse ontologico nella riflessione di Gregorio Palmas.

Un’esplicita interpretazione ontologica della dottrina di Gregorio Palamas è quella che fornisce invece Stavros Yagazoglou5, soprattutto per quanto riguarda il rapporto fra Dio e il creato a partire dall’atto di creazione e inoltre per quanto concerne la Trinità come modello ontologico del creato. Yagazoglou prende in considerazione proprio la differenza tra il paradigma ontologico platonico e neoplatonico e quello delineato da Gregorio Palamas a partire dalla confutazione del concetto di anima mundi da parte del teologo esicasta6.

Come si cercherà di mostrare nelle pagine del presente studio, il concetto di ipostasi che rinveniamo nel pensiero di Gregorio Palamas si colloca nel flusso della tradizione filosofica e teologica e ne raccoglie, in maniera originale, l’eredità. L’uso del termine greco ὑπόστασις nella storia del pensiero filosofico si caratterizza in alcuni casi per un confine sfumato in rapporto ai concetti di οὐσία e φύσις, indicanti rispettivamente la sostanza/essenza e la natura.

Nel De mundo dello Pseudo-Aristotele troviamo, ad esempio, il termine impiegato nel senso di sostanza o, meglio, di sostrato materiale di una singolarità, come si può vedere in De mundo 4, 19, dunque in un significato che è prossimo al concetto di οὐσία.

Nel pensiero neoplatonico il concetto di ὑπόστασις viene a indicare in senso specifico una “forma di realtà determinata e realmente sussistente”. Plotino, come è noto, si serve del termine per indicare i tre principali livelli di realtà che fungono al contempo da principi costitutivi di tutto il reale: l’Uno, l’Intelletto e l’Anima. Come ha notato Andrew Smith, l’uso del concetto di ipostasi in senso più marcatamente ontologico caratterizza soprattutto la riflessione di Porfirio, in cui troviamo il termine ὑπόστασις impiegato in due accezioni principali. In alcuni casi, esso viene a indicare, per riprendere le consideraizoni di Smith, semplicemente qualcosa che esiste. In altri casi, invece, esso sembra alludere a una sorta di vera e propria potenzialità performativa che viene espressa in

5 S.YAGAZOGLOU, Κοινωνία θεώσεως, cit.. 6 Ibidem, pp. 42-54.

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particolare attraverso l’uso del verbo ὑφίστημι che indica il produrre e il far esistere/sussistere. Secondo Smith, è stato inoltre proprio Porfirio, che attraverso i titoli attribuiti ai trattati di Plotino, a sancire l’uso del termine ὑπόστασις per indicare i tre principi supremi, dando un contributo significativo allo sviluppo di questo concetto nell’ambito della riflessione neoplatonica. Per fare due esempi particolarmente significativi, Porfio utilizzò il termine ὑπόστασις nei titoli che applicò a due trattati plotiniani, basandosi sull’uso di tale concetto nei due testi: V, 1 intitolato: “περὶ τῶν τριῶν ἀρχικῶν ὑποστάσεων” e V, 3 intitolato “περὶ τῶν γνωριστικῶν ὑποστάσεων”. Nel frammento XVI della sua Historia philosophiae il termine ὑπόστασις è ancora una volta impiegato da Porfirio per indicare le tre ipostasi supreme. Leggiamo infatti: « ἄχρι γὰρ τριῶν ὑποστάσεων ἔφη Πλάτων τὴν τοῦ θείου προελθεῖν οὐσίαν »7. Nonostante il testo porfiriano venga riportato da Cirillo di Alessandria, possiamo comunque pensare che egli sia comunque rimasto fedele alla terminologia originale. Lo stesso vale anche per il frammento XVIII, sempre da Cirillo di Alessandria, in cui il Noûs è descritto come «αἰώνιος μόνος και ἀχρόνως ὑποστάς» e «ἐν ταυτότητι τῆς ἑαυτοῦ αἰωνίας ὑποστάσεως»8. Possiamo inoltre notare che la quarantesima sententia porfiriana, riprendendo

Enneades VI 5.12, 8, sostituisce il termine φύσις usato da Plotino con ὑπόστασις,

a riprova di quanto i due termini non siano, nella riflessione neoplatonica, distinti in maniera sempre definita9.

Nella tradizione cui facciamo riferimento nel presente lavoro, vale a dire quella della patristica greca e νella sua ricezione da parte di teologi e filosofi bizantini, il termine entrò in maniera significativa a partire dal IV secolo attraverso la riflessione triadologica per indicare le tre persone divine o, in alcuni casi, la stessa natura di Dio. Tale ambivalenza concettuale richiese quindi una chiarificazione, affinché non si cadesse in errori dottrinali proprio nel discorso sulla Trinità divina. Il problema circa il valore concettuale del termine ὑπόστασις fu al centro delle dispute sulla natura del Cristo sorte intorno alla dottrina del presbitero alessandrino Ario e si impose anche nel dibattito conciliare di Alessandria nel

7 J.A.NAUCK (cur.), Porphyrius. Historia Philosophiae (fragmenta), Lipsia (Teubner) 1860. 8 Ibidem.

9 A. SMITH, Ὑπόστασις and ὕπαρξις in Porphyry, in: F. ROMANO D. P. TAORMINA (cur.),

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362. La questione riguardava soprattutto se il termine indicasse la natura (οὐσία/φύσις) della Trinità o le persone. Il concilio alessandrino non definì il termine in maniera decisiva e il dibattito continuò almeno fino al secondo concilio ecumenico, tenutosi a Costantinopoli nel 381. Nel frattempo possiamo ritenere che fu decisivo per la patristica greca e la definizione dogmatica conciliare l’apporto dei Padri cappadoci al dibattito sui concetti di ipostasi e natura. Gli scritti di Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo furono infatti decisivi per definire la polarizzazione concettuale di base per cui nella tradizione cristiana greca il concetto di ὑπόστασις fu ascritto all’ambito della personeità divina, mentre quelli di οὐσία e φύσις all’essenza e alla natura di Dio. Il dibattito sul valore del concetto di ipostasi nel cristianesimo tardo-antico non riguardò soltanto la triadologia, ma anche la cristologia, dal momento che, ritenendo ὑπόστασις come indicante la natura, si sarebbe dovuto parlare di due ipostasi nel Cristo, mentre se si considerava il termine come equivalente a quelli di πρóσωπον e indicante dunque la persona, si sarebbe dovuto parlare di una sola ipostasi e due nature. Possiamo considerare che il dibattito cristologico in merito raggiunse una prima definizione decisiva con il concilio ecumenico di Calcedonia nel 451, che stabilì nella riflessione cristiana l’equivalenza concettuale dei termini ὑπόστασις e πρóσωπον, ribadendo la linea già propria ai Padri cappadoci.

Uno studio approfondito sugli sviluppi che hanno portato il concetto di ipostasi a passare dal ruolo che aveva nella riflessione neoplatonica a quello assunto nella patristica greca a partire dai Cappadoci esula dal presente studio. Possiamo limitarci a indicare che nelle pagine di questa ricerca si seguirà la tesi, sostenuta, tra gli altri, anche da Claudio Moreschini, circa un’interpretazione cristiana del concetto neoplatonico di ipostasi da parte dei Padri cappadoci, in cui ha un ruolo centrale la riflessione di Plotino, seguito da Porfirio, e la sua gerarchia di Uno- Bene, Intelletto e Anima cosmica10.

sul Neoplatonismo, Università degli Studi di Catania, 1-3 ottobre 1992, Firenze (Leo S. Olschki)

1994, pp. 33-36.

54 2.2 ESSENZA E NATURA