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Gaza e la lotta per il diritto internazionale

LORENZO GRADONI (*)

È stato prima di tutto per rispondere alla mia coscienza – non per il gusto di scandalizzare – che ho deciso di contrappor- re un piccolo scritto (supra, p. 41 ss.) a un appello per Gaza di grande successo, che si apre accennando a un «dovere intellet- tuale e morale» di denuncia. Il fatto che io abbia avvertito l’esigenza di giustificare la mia mancata adesione avrebbe potu- to segnalare il sussistere di un’intersezione tra il mio senso mo- rale e quello dei miei “correligionari” – autori, banditori e fir- matari dell’appello – e che il mio super-ego internazionalistico non è molto diverso dal loro, non è in dismissione e neppure, a quanto pare, adagiato in agostane panciolle. Ho insomma volu- to esprimermi come membro di una comunità ma di questa comunità devo aver infranto una fondamentale regola, dato il tenore di alcune reazioni.

Mi riferisco soprattutto, ma non solo, alla splendida rispo- sta di Marco Pertile (supra, p. 51 ss.), la quale – come cercherò di mostrare – fraintende ampiamente il senso del mio discorso e che, ciò nonostante – o proprio per questo? – ha strappato a un altro firmatario dell’appello, Gabriele Della Morte, un commosso «Marco, sei tutti noi»!

Dopo l’iniziale sgomento di chi è deferito dinanzi a un folto schieramento di sopraccigli aggrottati, ho cercato di sfruttare l’occasione per meditare sui costrutti psicologici e identitari – e di riflesso teorici – all’origine del successo del documento che stavo per sottoscrivere e della “chiusura comunitaria” manife- stata da alcuni firmatari di fronte alla mia critica.

La prima breve replica pervenuta a SIDIBlog “tronca e so- pisce” imputandomi l’incapacità di intendere il documento se- condo i canoni propri del genere letterario “appello”: nulla di cui discutere, dunque, a parte eventuali mises au point dottrina- li. Marco Pertile si è in prima battuta lamentato della difficoltà di cogliere il «significato» dell’intervento, la cui oscurità lo avrebbe spinto a ricercare il mio reale movente per via indizia- ria, un movente – secondo lui, la delusione per la «faziosità» dell’appello – che avrei celato dietro scuse non richieste, come sempre rivelatrici, e persino ricorrendo a ingannevoli asserzioni contrarie… non ho forse scritto che dell’appello ho apprezzato l’afflato politico e morale? Ebbene, avrei mentito. Mi si attri- buisce, insomma, una certa disonestà intellettuale. E anche – mi pare – una tendenza a contrapporre considerazioni accademi- che e astratte al coraggioso impegno che i firmatari hanno as- sunto di fronte alla tragedia, ergo una certa fiacchezza o abie- zione morale, come quella di chi preferisce «restare sulla spon- da del fiume a contemplare il passaggio dei cadaveri», per cita- re le parole di Fabio Marcelli (all’accusa di essermi persino proposto come «apologeta» del potere contro il diritto ho già in parte replicato).

Credo di comprendere la causa di queste reazioni. Il mo- mento in cui i giuristi decidono di impiegare il loro “capitale sociale” (mi appresto a sfruttare alcuni noti concetti della so- ciologia di Pierre Bourdieu, sui quali v., in sintesi, BOURDIEU,

Questions de sociologie, Paris, 2002) al di fuori del loro campo

specifico – ossia a far valere, nella comunicazione con altri am- biti del sociale, tramite un appello per esempio, il loro status di

esperti di una disciplina che tende a presentarsi, soprattutto agli occhi del profano, come istanza neutrale e come veicolo di giustizia (cfr. l’endiadi «diritto e giustizia» nel commento di Fabio Marcelli) – è il momento meno indicato per proporre lo- ro una critica del diritto, perché in tal caso dissentire equivale a insinuare presso il pubblico che la valuta in cui è espresso l’investimento è a rischio di deprezzamento. E il dissenso appa- rirà tanto più incomprensibile – e reprensibile – se a formularlo è proprio un collega che, per quanto marginale (magari un semplice «Dott.», che delizioso esempio di violence symbolique in una delle reazioni al mio intervento!), rischia di scalfire quel- la compattezza di convinzioni e di intenti che le sortite degli esperti in campo aperto richiedono (cfr. la confessione di alcu- ni dei firmatari della famosa lettera dei «Teachers of Interna- tional Law» contro l’intervento angloamericano in Iraq, i quali avrebbero “finto” di condividere una semplificatoria sintesi dello ius ad bellum per ragioni politico-strategiche: CRAVEN,

MARKS, SIMPSON e WILDE, “We Are Teachers of International

Law”, Leiden Journal of International Law, 2004, p. 363 ss.). Di qui il ricorso – credo del tutto spontaneo e innocente – a dispo- sitivi retorici di sterilizzazione del dissenso intracomunitario.

A parte quelli già ricordarti, vale la pena citare l’appello di Marco Pertile ad accantonare i dubbi che tormentano ciascuno di noi, «per far suonare la propria voce assieme a quella di al- tri» (corsivo omesso), oppure l’evocazione di un uditorio pe- relmanniano presso cui vige un comune senso del ridicolo che fa piazza pulita delle opinioni strampalate (cfr. CHRISTIE, The

Notion of an Ideal Audience in Legal Argument, Dordrecht,

2000) o, infine, l’invito di Fabio Marcelli a contemplare l’ipotesi di «cambiare mestiere» (rivolto non al sottoscritto ma, in astratto, a chiunque perda la fede nel diritto internazionale). Oltre a ciò, se si vuole evitare il deprezzamento della valuta di cui dispone il giurista firmatario dell’appello – il diritto – allora torna utile negare che il dissenso riguardi il diritto in quanto ta-

le, come fa Marco quando sorprendentemente insinua che le mie vere perplessità, chissà perché da me criptate, sarebbero di ordine politico – nel senso di “partigiano” – ed emergerebbero dal rifiuto di un documento giudicato troppo filopalestinese, mentre per me, in un certo senso, non lo è abbastanza (sul pun- to tornerò in fine), oppure quando mi attribuisce – in modo al- trettanto inatteso – credenze sul diritto internazionale da me mai coltivate e facili da ridicolizzare, perlomeno al cospetto di un certo uditorio. Cominciamo da qui.

Marco Pertile contesta la mia presunta tendenza a presenta- re il diritto internazionale «come inadeguato perché necessa-

riamente ambiguo» (corsivo mio). Poiché, come chiunque può

verificare, nessuno dei miei argomenti poggia sull’idea secondo cui il diritto internazionale in generale o quello umanitario in particolare sarebbero affetti da indeterminatezza, mi è difficile comprendere il senso di questo addebito. Dato che ci siamo, però, azzardo un’ipotesi sulla sua origine: la tesi dell’indeter-

minatezza (da non confondere con la vaghezza: v., per qualche

ragguaglio, KRESS, “Legal Indeterminacy”, California Law Re-

view, 1989, p. 283 ss.), un tempo minoritario vessillo del mo-

vimento dei Critical Legal Studies, ha ormai raggiunto un tale livello di popolarità – e di sfilacciamento concettuale – da as- surgere a idea dominante (certo non in Italia!) o perlomeno in- combente, come una minaccia, per cui si tende ad ascriverla meccanicamente a chiunque abbozzi una critica del diritto. Ma non tutta la critica è… “Crit”! Per quanto mi riguarda, consi- dero la tesi dell’indeterminatezza debilitante per qualsiasi poli- tica del diritto autenticamente radicale, tanto che alcuni anni fa

ho tentato di confutarla di fronte a una piccola platea di ferven- ti adepti (non ho mai ritenuto la relazione degna di essere pub- blicata, ma ciò non significa che io abbia cambiato idea). Anche per me, come per Marco Pertile, esistono «casi chiari», argo- menti più persuasivi di altri, conclusioni difficilmente scalfibili. Il suo case against Israel, efficace e documentato, mi convince

pienamente. Altrettanto chiaro mi pare il case against Hamas (e Marco lo riconosce). Solo che, nell’improbabile evenienza che si celebri un processo parallelo davanti alla Corte penale inter- nazionale, i responsabili del lancio indiscriminato di razzi sa- rebbero condannati per direttissima, mentre gli architetti dell’operazione Protective Edge avrebbero dalla loro parte una temibile compagine di esperti di diritto umanitario, rispettatis- simi e con una spiccata propensione alla logomachia. O po- tremmo idealmente estrometterli dall’uditorio perelmanniano da Marco vagheggiato quale garanzia di obiettività?

La mia critica al diritto umanitario – e a chi lo invoca con sapienza ma un po’ automaticamente – non ha nulla a che fare con la densità o la forza dei suoi precetti (credo, d’altra parte, che un diritto dei conflitti armati che non si avvalga di standard elastici sarebbe inconcepibile). Mi pare piuttosto che esso non costituisca terreno d’elezione per chi lotta disperatamente avva- lendosi di armi obsolete e di sistemi di informazione precari o inesistenti, per chi è costretto alla promiscuità con la popola- zione civile e forse anche propenso – tragicamente – a sfruttarla per procrastinare indefinitamente la debellatio e per cercare un’improbabile vittoria passante per una radicalizzazione del conflitto. A chi impugna la matita blu attribuendomi un’inedita lettura del principio di distinzione «su base tecnologica», posso rispondere con una domanda retorica: il diritto dei conflitti armati “premia” chi lancia a casaccio missili obsoleti o chi inve- ste ingenti risorse nella predisposizione di sistemi d’arma “pre- cisi” e micidiali? Se la risposta non è chiara, si possono cercare indizi nel sito Internet delle Forze armate israeliane, dove alta tecnologia militare e diritto umanitario si tengono a braccetto. Ciò detto, resta perfettamente legittimo e persino meritorio, ogni volta che deflagra il conflitto, tornare a consultare il nobile catechismo dello ius in bello, operare le opportune qualifica- zioni giuridiche e farsi testimoni delle più gravi infrazioni… ma tutto ciò, a parte sublimare un comprensibile desiderio di re-

pressione, sin qui frustrato dalla latitanza degli organi ufficiali della giustizia penale internazionale, quale risultato concreto produce?

Per Marco Pertile, se l’inazione della Corte penale interna- zionale e del Consiglio di sicurezza, inteso come potenziale ar- tefice di meccanismi repressivi ad hoc, costringe gli esperti di diritto internazionale a un ruolo di supplenza, a reiterare rituali di accertamento “privati” o ad accontentarsi dell’ennesima commissione d’inchiesta (altro evidente succedaneo tribunali- zio), la «responsabilità» non è da ascriversi al diritto interna- zionale bensì «alla politica e ai rapporti di forza che si svilup- pano all’interno delle istituzioni». Se la Corte e il Consiglio re- stano inerti, il diritto internazionale non ha colpa perché, os- serva Marco, «non vieta a queste istituzioni di agire, i suoi prin- cipi, anzi, ne richiedono l’intervento». Su queste basi, egli mi rimprovera di non aver compreso il rapporto – o piuttosto lo scisma da lui decretato! – tra diritto internazionale e politica. Credo che sarebbe più prudente affermare che i nostri modi di intendere tale rapporto sono diversi e incompatibili.

Quello di Marco si iscrive, a mio parere, nell’alveo della nobile tradizione dell’illuminismo giuridico, nella sua versione originaria sette-ottocentesca, che coniuga ottimismo normativo – il diritto è buono – e pessimismo potestativo: il potere, la po- litica, sono cattivi e rischiano in ogni momento, poiché operano nelle istituzioni, di corrompere l’immacolato “Giure”. Perché, secondo Marco, il diritto umanitario è men che perfetto? Per- ché «talvolta il compromesso politico si riassume in norme va- ghe» (corsivo mio). Il suo “positivismo” presenta forti tracce giusnaturalistiche; ed è normale, altrimenti come farebbe ad ar- ginare l’infida potestas che il diritto positivo istituisce? Nell’ambito di una simile concezione il tema del quis judicabit è ovviamente soppresso. Meglio non pensarci, perché chiunque sia chiamato a decidere – Consiglio o Corte – rischia di inqui- nare la purezza (morale) del precetto giuridico con la politicità

del suo agire. Marco ritiene che sia sempre possibile reperire un principio – nelle fonti non scritte, nei preamboli di patti, convenzioni e carte o altrove – che consente di qualificare come lecita o illecita la decisione politica di un organo internazionale. Il suo è un tentativo di “positivizzare” il sentimento morale che si rispecchia nelle vaghe teleologie (pace, sicurezza, giustizia, ecc.) dei grands textes internazionalistici. In sintesi, il diritto serve per far la morale alla politica. Ed è quindi immune da ogni critica. Chi critica il diritto sbaglia destinatario: il mittente è pregato di rivolgersi alla politica. I giuristi che lanciano un appello hanno bisogno proprio di questo diritto innocente, che è la valuta pregiata della loro expertise.

Come opera, in concreto, questa concezione? Nella pecu- liare prospettiva che essa crea, una critica del diritto di veto (per esempio), ossia della norma internazionale che dà spazio e forma all’esercizio della politica di potenza in seno alle Nazioni Unite, è semplicemente inconcepibile; solo il concreto – e “po- litico” – esercizio di tale diritto è criticabile, se impedisce un esito conforme ai superiori principi della pace, della sicurezza, della giustizia. Ma chi detiene la competenza a esprimere un giudizio su tale conformità? E soprattutto: dove sono le proce- dure idonee a far valere l’eventuale responsabilità del Consiglio di sicurezza per omesso intervento?

In modo del tutto analogo, l’appello pretende che il Consi- glio deferisca la situazione in Palestina alla Corte penale inter- nazionale, pena venir meno alle sue «responsabilità di mante- nimento della pace e di perseguimento della giustizia». E se il Consiglio ritenesse che la sua missione richiede di non conse- gnare il caso alla Corte? E se – supponendo che la Corte giunga a occuparsene per altre vie – il Consiglio decidesse di strappar- glielo di mano, agendo ai sensi dell’art. 16 dello Statuto di Ro- ma (e anche questo è diritto internazionale), allo scopo di pre- venire il rischio, da esso percepito, di un aggravamento del con- flitto? Tali decisioni potrebbero naturalmente suscitare critiche

di ordine politico ma sarebbe perlomeno ingannevole asserirne il carattere “illecito”, ossia la loro non conformità a parametri normativi la cui autonomia rispetto al potere decisionale – co- stituito, non dimentichiamolo, dal diritto! – è del tutto illuso- ria. E se il Procuratore della Corte penale internazionale deci- desse di continuare a… menare il can per l’Aja, come del resto fa da oltre 5 anni – includendo nel computo sia i tentennamenti di Moreno-Ocampo sia il curioso caso della Freedom Flottilla – si potrebbe ragionevolmente ritenerlo responsabile di un illeci- to continuo di natura omissiva? E quali sarebbero i meccanismi da innescare per produrre un accertamento della violazione, decurtando così il considerevole potere discrezionale del Pro- curatore? Ma questo è un problema che non può porsi un ap- pello impegnato a celebrare un implicito culto della giustizia penale internazionale (il cui pessimo stato di salute è a mio av- viso realisticamente diagnosticato nell’intervento di De Sena,

supra, p. 64 ss.).

Pasquale De Sena si è chiesto se nella presa di posizione di Marco Pertile – e in quella dei firmatari dell’appello – non si possano intravedere «tracce di una “lotta” appassionata per l’affermazione del diritto internazionale», forse riconducibile all’ideale tratteggiato nel famoso pamphlet di Rudolf von Jhe- ring. Concordo solo in parte.

Il loro è senza alcun dubbio un atteggiamento appassionato e pugnace: essi, come Shylock, la cui vicenda processuale è lungamente esaminata nel libello, «crave the law» (Il Mercante di Venezia, Atto IV, Scena I); sembrano tuttavia refrattari alla massima, coniata dal teorico de La lotta per il diritto, secondo cui «non deve accusarsi l’ingiustizia di usurpare il dominio del diritto, ma il diritto di permettere tale usurpazione» – l’opposto diametrale della concezione del nesso politica-diritto di Marco Pertile! – oltre che estranei alla prospettiva, anch’essa cara a Jhering, per cui «la lotta per il diritto» deve talvolta convertirsi in «lotta contro il diritto» (lontano da biblioteche ho potuto

consultare questa edizione inglese; le citazioni sono tratte ri- spettivamente dalle pp. 70 e 88, le traduzioni mie).

In Jhering, inoltre, la lotta per il diritto è – come Pasquale ricorda – lotta dell’individuo o della nazione ispirati dal senti- mento del proprio diritto, mentre chi firma un appello come quello qui discusso incita qualcun altro alla lotta e deve perciò guardarsi dalla sindrome della «mosca cocchiera» (qui raccon- tata da La Fontaine). È davvero responsabile – e politicamente sagace – incitare il Governo della Palestina a rivolgersi alla Cor- te penale internazionale, ossia ad affidarsi, costi quel che costi, alle cure di un’istituzione il cui comportamento è stato sin qui elusivo sino alla beffa? Certo, è giusto denunciare le pressioni esercitate da alcuni Stati affinché il Governo palestinese desista dal suo intento, ma chi pagherà il prezzo delle ritorsioni che minacciano di abbattersi sul corpo già macilento dell’economia palestinese? Si è riflettuto abbastanza sulle possibili conseguen- ze del perseguimento di una soluzione internazionalpenalistica, molto probabilmente illusoria, oppure si è ritenuto di poterse- ne esimere perché il diritto internazionale, tanto, è buono?

Due parole, per finire, sulla rinuncia a proporre soluzioni alternative, da alcuni ritenuta delegittimante. Sul punto condi- vido in tutto e per tutto la riflessione De Sena (supra, p. 75). Recependo l’opinione espressa da Valeria Pinto in un bel libro sui nuovi dispositivi di valutazione della ricerca scientifica in Italia, aggiungerei che «non spetta d’ufficio a chi svolge un esercizio di critica presentare soluzioni, aggiustamenti di rotta, individuare correzioni e finalità alternative, anzi neppure in ge- nerale finalità oltre la prassi critica medesima» (PINTO, Valuta-

re e punire, Napoli, 2012, pp. 16-17). Ciò premesso, il dissidio

tra me e i firmatari dell’appello non è così grave da costringer- mi a mantenere un atteggiamento critico allo stato puro, per così dire. Del resto, stavo per firmare. Se l’appello fosse stato meno “istituzionale”, meno compiaciuto nel delineare soluzioni internazionalpubblicistiche pronte all’uso e nel dipingere sog-

getti desiderosi di intervenire se regolarmente chiamati in causa (la Corte penale internazionale), oppure pronti a scattare sulla molla di qualche obbligo internazionale (il Consiglio di sicurez- za, le Alte parti contraenti delle Convenzioni di Ginevra), se, invece di vendere illusioni con il marchio dell’expertise, fosse stato più sferzante, più politico (non meno!) – se, in pratica, avesse speso qualche parola sulla deludente condotta dei sog- getti che chiama in causa – lo avrei firmato mettendo da parte ogni residua perplessità.

Su Gaza. Tre obiezioni