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GABRIELE DELLA MORTE (*)

Sollecitato dalle questioni poste nel corso di questo appas- sionato dibattito, nonché da un invito pubblicamente avanzato da Lorenzo Gradoni, propongo qui alcune riflessioni a margine di una Joint Declaration che condanna i fatti di Gaza, e delle critiche che a tale dichiarazione sono state mosse, e ribadite, da quest’ultimo (supra, pp. 41 ss. e 77 ss.).

Cercherò di essere sintetico, e di non sovrapporre le mie ragioni a quelle già espresse da Marco Pertile (supra, p. 51 ss.), che condivido. Perciò, le riflessioni qui presentate si concentre- ranno essenzialmente su tre profili, rispettivamente: 1) sulle premesse da cui muove il discorso di Gradoni; 2) sulle conclu- sioni indotte da alcune esperienze di “giustizia penale interna- zionale”; 3) sulle conseguenze dedotte in tema di diritto inter- nazionale umanitario.

Mi si permetta di aggiungere che le osservazioni sin qui svolte mi hanno offerto numerosi spunti di riflessione. Ciò no- nostante, non ho maturato un’opinione diversa. Lo dichiarerò dunque amichevolmente: caro Lorenzo, questa volta proprio

non siamo d’accordo. Tuttavia, sono certo che questo non rap-

presenti un problema, né simbolizzi alcuna «chiusura comuni- taria». Anzi.

Fin qui le ragioni della critica, d’ora innanzi la critica delle ragioni.

1. Sulle premesse del discorso di Gradoni. – Le premesse del discorso di Gradoni, per come l’ho inteso, sono quelle per cui il diritto internazionale, lungi dal contribuire a risolvere le que- stioni, è «parte del problema». Si tratta di un’osservazione in- controvertibile, che in termini strutturali potrebbe essere estesa ad ogni ambito di conoscenze, persino al di fuori del perimetro delle scienze sociali. Non è forse la scienza medica... («le sue norme, le architetture»), parte del problema che concerne la sa- lute? Ma la ragione per la quale tale premessa mi appare fuor- viante è più specifica: attraverso di essa si altera l’oggetto dell’analisi abbozzata nell’appello, traslando il piano argomen- tativo da un discorso di diritto (quello delle violazioni somma- riamente indicate nella Joint Declaration) ad un discorso sul di- ritto (quello dei due interventi di Gradoni), salvo poi ricondur- re da quest’ultimo piano effetti che si manifestano sul primo (v.

infra, punto 3).

Né mi convince la valutazione negativa che si attribuisce all’appello «savant alla comunità internazionale e al suo diritto, perlomeno con riferimento ai settori evocati nel documento». Infatti, di enfasi retorica è impregnato tutto il linguaggio del di- ritto internazionale, a partire proprio dai «settori evocati nel documento», dal «determined to save succeeding generations

from the scourge of war» del preambolo della Carta delle Na-

zioni Unite, al «concerned that this delicate mosaic may be shat-

tered at any time» del preambolo dello Statuto della Corte pe-

nale internazionale (corsivi aggiunti). A tal riguardo, non mi sembra fuori luogo rammentare che la medesima nascita del di- ritto internazionale umanitario è dovuta al successo di... un ap- pello! È con una petizione che si chiude la galleria degli orrori

narrata in Un souvenir de Solferino (1862), attraverso il quale il trentaquattrenne Henry Dunant diede origine al movimento che portò alla nascita della Croce Rossa: «bisogna lanciare un appello ... al maresciallo di campo, come al filantropo o allo scrittore ... per formulare qualche principio internazionale, sa- cro e convenzionale che, una volta accolto e ratificato, serva da base alle Società di soccorso».

In sintesi, a me sembra del tutto plausibile che nel corso di un conflitto armato si invochi il parere dei giuristi esperti di tali conflitti (ius ad bellum e ius in bello), così come mi sembrereb- be ragionevole se, nel corso di un’epidemia, si invocasse il pare- re degli epidemiologi (e questo indipendentemente dal discorso del se l’epidemiologia, nell’intenzione di trasformare il mondo, non l’abbia addirittura peggiorato).

In alcune splendide pagine di Tristi Tropici, Lévi-Strauss ri- corda con grande libertà di quanto gli fosse presto giunta a noia la tecnica dell’argomentare e del contro-argomentare... senza mai intaccare il nocciolo – il vero? – delle questioni («avevo appreso che ogni problema, grave o futile, potesse es- sere liquidato attraverso l’applicazione di un metodo che consi- ste nell’opporre due visioni ... per giungere infine ad una terza che rivela il carattere egualmente parziale delle precedenti at- traverso un vocabolario che si riferisce ad aspetti complementa- ri della stessa realtà: forma e contenuto, continuo e disconti- nuo, essere e apparire»). Il nostro, che aveva iniziato studiando diritto e filosofia, abbandonerà ogni interesse di questo tipo in favore dello strutturalismo (et alia). Ma, fintanto che si decide di restare nell’ambito del discorso giuridico, non mi sembra va- no adoperarne il linguaggio e le categorie.

2. Sulle conclusioni indotte da alcune esperienze di “giustizia

penale internazionale”. – Nel corso del luglio 1998, all’epoca

dei negoziati sul Trattato istitutivo della Corte penale interna- zionale (approvato con 120 voti a favore, 21 astensioni e 7 voti

contrari – vale la pena rammentare quali: Cina, Libia, Iraq, Israele, Stati Uniti, Qatar e Yemen), si è certamente assistito ad un eccesso di aspettative relativamente all’emersione del «dirit- to internazionale penale» (preferisco denominare il settore in questo modo, in omaggio al sistema di fonti, di diritto interna- zionale, appunto).

Le ragioni di tale esuberanza erano diverse e numerose. Da un lato, si concretizzava un progetto che – tra alterne fortune – aveva attraversato tutto il corso del Novecento; dall’altro, si trattava di un settore à la page. Beninteso, nulla di cui sorpren- dersi. Il diritto internazionale, come ogni altro ambito, genera periodicamente temi che per un arco di tempo catalizzano un interesse maggiore: basta menzionare, per limitarci al primo decennio di questo nuovo secolo, la lotta al terrorismo, le que- stioni sottese al cambiamento climatico, le misure di contrasto alla crisi economica internazionale. Oggi, per quanto concerne il diritto internazionale penale, non è più così. Al contrario, il settore gode di «pessima salute», anche perché la sua più com- piuta interpretazione istituzionale (la famosa «Corte penale in- ternazionale africana», che tuttavia è già un poco meno africa- na... se si osserva la situazione dal punto di vista delle «Preliminary Examinations»), ha avuto tutto il tempo per mo- strare i propri limiti, strutturali e funzionali. Tra questi ultimi vanno certamente ascritte – come ricordato da De Sena in un articolato intervento (supra, p. 64 ss.) – le ipotesi in cui la Corte è stato attivata via Consiglio di sicurezza (si citano, al riguardo, i casi Al-Bashir e Gheddafi). Alla luce di tali considerazioni, si teme una sorta di eterogenesi dei fini. Se ho compreso corret- tamente l’obiezione, nella vexata quaestio israelo-palestinese, un ipotetico intervento del Procuratore internazionale potrebbe addirittura radicalizzare gli antagonismi, in luogo di consentire una più facile risoluzione della questione.

L’obiezione è conosciuta da chi si occupa di tali questioni, avendo rappresentato il “rumore di fondo” che ha accompa-

gnato tutti i lavori negoziali sino all’approvazione dello Statuto di Roma, e oltre (se ne udiva ancora l’eco nel 2010 quando, a Kampala, si è discusso di aggressione). Nel corso dei negoziati di Roma ne circolava persino una versione più radicale: era no- to l’esempio di una crescente tensione tra due potenze dotate di armamenti atomici che alla vigilia di un accordo di pace veni- vano a conoscenza dell’intenzione del Procuratore di sottopor- re i rispettivi leader a processo (facendo saltare il tavolo dei ne- goziati). L’organo d’accusa non poteva essere dotato di un po- tere incontrollato, rectius, incontrollabile! Ed è precisamente sullo sfondo di simili argomenti che si è consumato il Package

Deal presentato negli ultimi giorni dei negoziati di Roma, da

accettare, o rifiutare, in blocco (in luogo di una discussione arti- colo per articolo, le questioni relative alla potestà giurisdiziona- le della Corte sono state oggetto di una proposta unitaria avan- zata dal Committee of the Whole, da prendere o lasciare, senza possibilità di modifica). È sulla base di questa rappresentazione dei problemi che – ad esempio – si è abbandonata la lungimi- rante e condivisa proposta coreana (79% di preferenze nelle votazioni informali) che estendeva – nelle ipotesi in cui la Corte fosse attivata dal Procuratore oppure da uno degli Stati parte al Trattato – l’esercizio della giurisdizione oltre i confini dello Sta- to territoriale o di quello della nazionalità della persona accusa- ta (includendo anche lo Stato di nazionalità della vittima o an- cora quello di detenzione della persona accusata, cfr.

A/CONF.183/C.1/L.6). Ed è sempre sulla base di questo tipo di argomentazione che è stato introdotto l’art. 16 dello Statuto di Roma, che attribuisce al Consiglio di sicurezza, «acting un- der Chapter VII», il potere di sospendere per un periodo di 12 mesi, rinnovabile alle stesse condizioni, «ogni indagine o pro- cedimento».

Gradoni ipotizza una possibile applicazione di quest’ultima norma per impedire il rischio di un «aggravamento del conflit- to», domandandosi se non sia anche questo «diritto internazio-

nale». Certamente lo è. E mi preme aggiungere: è certamente diritto internazionale persino la risoluzione 1422 del 12 luglio 2002 (reiterata con la risoluzione 1487 del 12 giugno 2003) con la quale, meno di due settimane dopo l’entrata in vigore dello Statuto di Roma, si sospendeva ogni azione per i casi concer- nenti il personale di uno Stato non parte che partecipava ad un’operazione «stabilita o approvata dalle Nazioni Unite» (sal- vo che... al momento dell’adozione di tale provvedimento non erano nemmeno state avviate le procedure di nomina dei giudi- ci e dell’organo d’accusa! In cosa poteva consistere la «minac- cia alla pace», allora, se non in una sorta di minaccia “auto- inflitta”, una “meta-minaccia”?).

Sono dunque ben d’accordo: tutto questo (e molto altro) è diritto internazionale! Ma come atteggiarsi, in relazione a que- sto assunto? La posizione critica di Gradoni, se da un lato gli consente di scartare «la celebre dicotomia ormai assurta a “ico- na pop” degli apologeti versus gli utopisti», dall’altro gli per- mette di scrutare il fenomeno da una prospettiva in cui «tutto è tenebra», addirittura una «tenebra che l’appello non rischiara. Anzi». Ma questa notte così hegelianamente scura rende davve-

ro tutte le vacche nere e indistinguibili? Direi invece che il lavo-

ro di distinzione mi sembra una condizione imprescindibile del mestiere di giurista. Così, in luogo di accontentarmi di un «an- che questo è diritto internazionale», mi associo volentieri ad una produzione di distinzioni in grado di rilevare – ad esempio – che l’uso sino ad oggi compiuto dell’art. 16 destruttura il concetto di «minaccia alla pace» in un modo forse mai raggiun- to prima. E desidererei anche aggiungere che tale alterazione è gravida di conseguenze, a partire dal medesimo Statuto di Ro- ma (sino ad espandersi in chissà quali ambiti): se nel corso dei negoziati plenipotenziari si era stabilito – attraverso il c.d. «Singapore Compromise» – che la Corte potesse agire a meno

che il Consiglio non ne decidesse la sospensione (in luogo di ri-

il rinvio ad una «minaccia» che non ha alcun riscontro oggetti- vo, si ritorna ad uno status precedente: la Corte può agire… so-

lo se il Consiglio ne autorizza l’azione.

Ecco, dal mio punto di vista la Joint Declaration si muove nel solco segnato dalle opportune distinzioni, allorquando si pone come scopo «to denounce the grave violations, mystifica- tion and disrespect of the most basic principles of the laws». Il- lustrare i gangli dell’argomento giuridico, significa indicare le tensioni, le torsioni, persino gli elementi di rottura che rifonda- no il discorso, ma non significa rinunciare all’uso di una busso- la.

Così, diversamente dall’autore della critica, leggendo l’appello non ho ravvisato alcun «culto» della «giustizia penale internazionale» (sulla quale, peraltro, suggerirei una maggiore apertura, non certo di giudizio, ma di angolo di osservazione). Piuttosto, un quanto mai opportuno bisogno di segnare confini e differenziazioni, che oggi mi sembra riaffiorare anche nell’esigenza di produrre “mappe”, dottrinarie come satellitari.

3. Sulle conseguenze dedotte in tema di diritto internazionale

umanitario. – Un ulteriore profilo che non mi ha convinto del

discorso di Gradoni è quello relativo all’interpretazione offerta del principio di distinzione, che ho stigmatizzato, in un com- mento probabilmente troppo repentino, definendolo «su base tecnologica». Più esattamente, l’autore argomenta in questo modo: «[l]e offensive israeliane causano molte vittime civili, queste però non sono altro che “danni collaterali” – potrebbe arguire l’attaccante – provocati da un’azione bellica che, anche grazie alla precisione delle armi, e perlomeno nelle intenzioni (non sempre sondabili!), si mantiene conforme al principio di distinzione».

Mi sembra, qui, di scorgere un equivoco in parte simile a quello che si riscontra talvolta nel dibattito sulla, anzi sulle (perché sono diverse: in tempo di pace, in tempo di guerra,

ecc.), qualifiche del crimine di terrorismo, allorché si fa discen- dere la finalità dalle modalità esecutive della condotta crimino- sa (il kamikaze, insomma, sarebbe sempre un terrorista: ma ciò non è necessariamente vero, perché costui può immolarsi anche contro un obbiettivo militare).

Mutatis mutandis, anche articolando un discorso (che in

ogni caso non è stato prodotto) sulla separazione tra mezzi e metodi di combattimento, il principio di distinzione, con il quale si richiede di differenziare «at all times» tra popolazione civile e combattenti, non può in alcun modo ritenersi soddisfat- to, ex se, dalla «precisione delle armi». Si può distinguere, o

non distinguere, con una baionetta come con un lancio di missi-

li. Ed è sulla base di simili ragionamenti che la Camera d’appello del Tribunale ad hoc per l’ex-Iugoslavia ha avvertito l’esigenza di smentire la Camera di prima istanza considerando che quest’ultima sia incorsa in «error of law» quando ha ritenu- to che «[t]argeting civilians or civilian property is an offence when not justified by military necessity. […] The Appeals Chamber underscores that there is an absolute prohibition on the targeting of civilians in customary international law», (Blaškić, sentenza del 29 luglio 2004, par. 109).

Né ho compreso la portata del richiamo che Gradoni ha se- gnalato, quando nel suo secondo intervento rimanda – in rispo- sta a questa critica – al sito delle forze armate israeliane. Tanto più che, come riprodotto in una sezione dello studio sul Cus-

tomary International Humanitarian Law condotto dal Comitato

internazionale della Croce Rossa sulla prassi degli Stati in mate- ria di attacchi contro la popolazione civile, se nel Israel’s Law of

War Booklet del 1986 si prevedeva che «[a]ttacks on civilians

are strictly prohibited», nel più recente Manual on the Rules of

Warfare (2006) si sancisce che il principio di distinzione «im-

poses the duty to refrain from attacking civilians as far as possi-

ble» (corsivo aggiunto).

scernimento sia proprio chi opportunamente rimarca la non coincidenza tra diritto e giustizia, sottintendendo, si parva licet, come il primo non sia uno strumento “buono” di per sé, ma in- nanzitutto una regolamentazione dei rapporti di forza soggiacen- ti. Non è forse anche la perizia (τέχνη), una sorta di “regolamen- tazione precisa” di quanto giace sotto? O la “tecnica” applicata al mondo militare, diversamente – a questo punto – da quella applicata al mondo del diritto è, di per sé, buona? Sono persuaso che scavando tra le pagine del Novecento, e in particolare “nei campi”, si possano attingere notevoli risposte a tale quesito («nel sistema della biopolitica nazista [i campi] non sono soltanto il luogo della morte e dello sterminio, ma, anche e innanzitutto, il luogo di produzione ... dell’ultima sostanza biopolitica isolabile nel continuum biologico» (AGAMBEN, Quel che resta di Ausch-

witz: l’archivio e il testimone, Torino, 1998, p. 79).

In conclusione, non saprei dire (anche se mi piacerebbe di- batterne) se i razzi che Hamas oggi orienta contro le città israe- liane rappresentino il “ramo caduto” dello storico discorso “del ramoscello d’olivo’” tenuto da Arafat dinanzi all’Assemblea ge- nerale delle Nazioni Unite oramai 40 anni fa («sono venuto portando un ramoscello d’olivo, in una mano, e la pistola di un combattente per la libertà, nell’altra. Non lasciate che il ramo- scello d’olivo mi cada dalla mano»). Né saprei dire (ma anche di ciò mi piacerebbe dibattere) se quel ramoscello sia stato de- liberatamente lasciato cadere, oppure se il pugno che lo strin- geva sia stato obbligato ad aprirsi per la brutalità della morsa che cingeva tutto intorno il braccio. Ma il tema che oggi si pro- pone è: chi può raccogliere quel ramoscello? A leggere Gradoni si ha l’impressione che la comunità internazionale – e il diritto che essa esprime e dal quale è espressa – non possa... perché è essa stessa l’arbusto che ha dato vita al ramo. Osservazione che merita la più alta considerazione. Ma che non mi ha persuaso, perché argomenta troppo (il diritto internazionale può tutto

Ciò premesso mi auguro, con la presente, di avere reso un corretto omaggio allo spirito critico di Lorenzo, cercando di il- lustrare in modo cordiale gli elementi del suo discorso che mi hanno lasciato più perplesso. Se non ci sono riuscito me ne rammarico, e spero che mi concederà una nuova opportunità (magari davanti a un buon bicchiere). Ma se posso congedarmi con un auspicio, è che si torni a dibattere dei temi dai quali siamo partiti. Ricominciare da Gaza.

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Il programma di «Outright