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A proposito di un appello su Gaza Una risposta

a Lorenzo Gradoni

MARCO PERTILE (*)

Stavo per ultimare un pezzo sull’operazione israeliana «Pro-

tective Edge» quando i curatori di SIDIBlog mi hanno gentil-

mente trasmesso in anteprima un intervento di Lorenzo Gra- doni (supra, p. 41 ss.) sul recente appello di alcuni giuristi sulla situazione a Gaza, appello di cui anch’io sono firmatario. Il mio post si allontanava molto, dal punto di vista tematico, dall’appello e prendeva in esame la questione del diritto alla le- gittima difesa di Israele e altri profili di ius ad bellum che mi paiono, almeno in questa fase, maggiormente rilevanti. La let- tura dello scritto di Gradoni m’impone però di rispondere con celerità. Naturalmente devo chiarire in via preliminare che que- sta risposta rappresenta soltanto la mia opinione e che non ho alcun mandato a rappresentare gli altri firmatari.

Gli appelli, è noto, si firmano anche quando qualche parola forse non ci rappresenta del tutto. Se ne esamina il senso com- plessivo e per varie ragioni si decide che è giusto far suonare la

propria voce assieme a quella di altri. La questione israelo-

palestinese poi è di estrema complessità ed è ovviamente legit-

timo che esistano opinioni diverse sui molteplici snodi di que- sta vicenda. Eppure, dopo aver letto e riletto il pezzo con l’attenzione che riservo sempre a “un Gradoni”, non sono sicu- ro di averne compreso il significato, né in relazione ad alcune affermazioni puntuali, né in termini generali. Forse è più onesto dire che non ne condivido il contenuto in diversi punti.

L’argomento che ha convinto Lorenzo Gradoni a non fir- mare l’appello sarebbe la presunta contraddizione insita nell’invocare l’intervento della comunità internazionale quando la comunità internazionale stessa e il suo diritto internazionale, lungi dall’essere in grado di porre rimedio alla crisi in atto, sa- rebbero tra gli artefici della stessa. Segue una presentazione dei limiti e delle incongruenze del diritto dei conflitti armati, dal principio di distinzione, al rapporto con il terrorismo interna- zionale, al principio di proporzionalità, fino alla questione degli scudi umani. Infine, una precisa ricostruzione dei problemi che si pongono per arrivare all’accertamento delle responsabilità individuali e all’esercizio della giurisdizione da parte di una Corte penale internazionale deferente rispetto al potere politi- co. Gradoni, insomma, ne ha per tutti. La comunità internazio- nale, nelle sue istituzioni più rappresentative, è paralizzata dal veto o prende iniziative inefficaci e inconcludenti. Gli Stati adottano posizioni talvolta estreme che non possono contribui- re alla soluzione della crisi. Il diritto internazionale è vago e si presta a interpretazioni contrapposte. I giuristi («i sacerdoti della disciplina») si perdono in dibattiti sterili e forse faziosi (su questo tornerò tra poco).

Verrebbe da dire preliminarmente che la comunità interna- zionale non è il diritto internazionale e che i fallimenti della prima non sono sempre dovuti soltanto al secondo. È forse in- genuo “entificare” un’astrazione come la comunità internazio- nale, come se davvero ci fosse un deus ex machina in grado di intervenire nelle crisi per risolverle, ma non trovo contradditto- rio il fatto di denunciare la passività della comunità internazio-

nale (degli attori rilevanti) indicando al contempo alcuni prin- cipi che dovrebbero ispirarne l’azione. Semmai, ho l’impres- sione che il discorso di Gradoni attribuisca al diritto interna- zionale delle responsabilità che sono da attribuire alla politica e ai rapporti di forza che si sviluppano all’interno delle istituzio- ni. Se il Consiglio di sicurezza e la Corte penale internazionale sono inerti possiamo affermare che «anche questo è diritto in- ternazionale»? Secondo me, no. Il diritto internazionale non vieta a queste istituzioni di agire, i suoi principi, anzi, ne richie- dono l’intervento. Temo siano in primo luogo le relazioni di potere a impedire l’azione di queste istituzioni. E questo non è (solo) diritto internazionale.

Peraltro, se è chiaro a tutti che l’attuale assetto della comu- nità internazionale è insoddisfacente da molti punti di vista, è altrettanto chiaro che di fronte a un argomento decostruttivo come quello proposto da Gradoni la prima tentazione è di chiedere quale sia l’alternativa di cui disponiamo per risolvere le controversie internazionali. Immagino che Lorenzo non pen- si alla Torah o al Corano come testo guida per la risoluzione della questione israelo-palestinese; immagino anche che il reali- smo politico à la Morgenthau e la ricerca di soluzioni mera- mente basate sui rapporti di forza non siano vicini alla sua sen- sibilità. Ma mi fermo e non formulo altre ipotesi, perché qui non stiamo facendo un dibattito accademico astratto. Stiamo discutendo di un’operazione militare, l’ennesima, che ha raso al suolo interi quartieri della Striscia di Gaza, che ha portato alla morte di 1.800 persone e alla creazione di 500.000 sfollati (v.

qui). Mi spiace dover giocare questa carta, e so bene che le questioni giuridiche non si risolvono con la contabilità dei mor- ti e dei feriti, ma sento l’urgenza di ribadire che stiamo discu- tendo di morti, di orfani, e di menomazioni permanenti. Stiamo discutendo di una spirale di odio che rischia di avere importan- ti conseguenze politiche e giuridiche e di rendere la soluzione della questione israelo-palestinese ancora più irraggiungibile.

Molti tra noi si sono ritrovati da studenti nelle aule dove si insegna il diritto internazionale pensando che l’argomento giu- ridico potesse contribuire a razionalizzare e a risolvere crisi come queste. Io continuo a pensare che, almeno in alcuni casi, possa essere così a patto che gli stessi giuristi non abdichino al loro ruolo. Non devo di certo ricordare ai lettori che il diritto internazionale è materia difficilissima, fatta d’interazioni com- plesse, criteri interpretativi labili, sistemi di produzione e di ac- certamento atipici. Esistono però anche casi chiari, soluzioni giuridiche persuasive, argomenti che di fronte alla faziosità e ai calcoli di convenienza politica presentano una forza difficil- mente vincibile. Da questo punto di vista, accanto ad argomen- ti condivisibili, vedo nelle tesi di Gradoni la tendenza a presen- tare il diritto internazionale, soprattutto il diritto dei conflitti armati, come inadeguato perché necessariamente ambiguo. Su questo dissento.

È chiaro che il diritto internazionale umanitario porta su di sé i segni di una lotta impari. Il diritto cerca di razionalizzare la più primitiva tra le relazioni umane, quella bellica, e talvolta il compromesso politico si riassume in norme vaghe, di difficile applicazione nel teatro del conflitto. Lo sanno bene i combat- tenti sul terreno che si trovano in meno di un secondo a pren- dere decisioni che possono influire sulla loro vita, su quella dei loro compagni o su quella dei civili. Ritengo però che anche nel diritto internazionale umanitario, che è ricco di fonti scritte e di precedenti, esistano questioni giuridiche ragionevolmente chia- re. Se la materia non fosse tragica, si potrebbe usare la teoria del ridicolo di Perelman (PERELMAN e OLBRECHTS-TYTECA,

Traité de l’argumentation: la nouvelle rhétorique [1958], Bru-

xelles, 2008). Esistono casi in cui la decisione di opporsi a un determinato argomento contro-argomentando genera in un os- servatore esterno sufficientemente informato un senso d’ilarità e di straniamento: il ridicolo. In quei casi l’argomento giuridico è chiaro. Ecco, io ho firmato l’appello di cui stiamo discutendo

perché da resoconti attendibili e conformi di osservatori neu- trali sul terreno emergono numerosi argomenti giuridici chiari o, quantomeno, numerose denunce credibili che devono essere verificate con la massima urgenza.

È fuor di dubbio che sia complesso affermare la violazione del principio di distinzione in assenza di un’inchiesta sui fatti o di un accertamento giudiziale. Su questo punto Gradoni ha ra- gione quando virgoletta il verbo “accerta” riferendosi all’ap- pello. Nella recente operazione sono però emersi dei fatti, tal- volta non contestati dalle parti, che dimostrano una preoccu- pante tendenza all’indebolimento del principio di distinzione. Mi chiedo, ad esempio, come un esercito che ha il completo controllo aereo del territorio anche attraverso i velivoli a pilo- taggio remoto, una schiacciante superiorità tecnica sul terreno e un’intelligence di altissimo livello possa colpire un gruppo di bambini che corrono su una spiaggia deserta. Un grave errore? Una violazione del principio di distinzione? Mi chiedo anche perché sia stata bombardata l’unica centrale elettrica della Stri- scia di Gaza, quando è chiaro che l’utilizzo dell’energia in quel caso era prevalentemente destinato a fini civili, ivi compreso l’adeguato funzionamento degli ospedali. Mi sembra difficile affermare che, nelle circostanze date, questo bene possa essere considerato un obiettivo militare legittimo. In ogni caso, gli ef- fetti secondari di questo attacco, largamente prevedibili, mi paiono incompatibili con il principio di proporzionalità. Vorrei pure capire perché durante l’operazione Protective Edge in tan- te occasioni siano stati colpiti beni civili, tra questi anche ospe- dali, mezzi di soccorso e strutture dell’UNRWA, l’Agenzia del- le Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (sette volte). Ricordo a me stesso che l’uso passato e sporadico di un bene civile a fini militari non vale a trasformare un bene «dual use» in un obiet- tivo militare. In caso di dubbio, un bene civile non può essere considerato un obiettivo militare. Per chiarire meglio, il ritro- vamento di razzi in tre strutture dell’UNRWA, depositati vero-

similmente quando le stesse erano state abbandonate nella pau- sa estiva, non può trasformare tali strutture in un obiettivo mili- tare per il futuro. Tanto più che la presenza dei razzi è stata prontamente denunciata dalla stessa agenzia delle Nazioni Uni- te. Resta ovviamente il fatto che la dislocazione dei razzi in quelle strutture per opera dei militanti palestinesi configura a sua volta una violazione del diritto umanitario e, in particolare, del principio che impone di adottare adeguate precauzioni nel- la difesa contro gli effetti degli attacchi. In termini generali ha destato stupore negli analisti militari la scelta dell’Esercito israeliano di utilizzare nell’ambito di ostilità che si svolgono in uno scenario urbano proiettili a frammentazione di tipo indiret- to che hanno un raggio letale di 150 metri, una capacità di fe- rimento fino a 300 metri e un margine di errore variabile dai 200 ai 300 metri. I dati raccolti dall’Agenzia per il coordina- mento degli affari umanitari delle Nazioni Unite (OCHA) de- scrivono centinaia di episodi di fuoco diretto sulle abitazioni civili ed emergono rapporti credibili che descrivono una serie di casi di fuoco diretto sui civili. L’insieme di queste fonti porta a formulare due ipotesi: o esistono seri problemi di addestra- mento nell’esercito israeliano o le regole di ingaggio sono rilas- sate a tal punto da ammettere il coinvolgimento dei civili in modo inaccettabile.

Il principio di proporzionalità (rectius, addirittura, di non eccessività) delle perdite civili rispetto al vantaggio militare di- retto e concreto previsto dal comandante militare è senza dub- bio una norma di difficile applicabilità (cfr. art. 51, par. 5, lett.

b, del I Protocollo aggiuntivo). Essa richiede di valutare ex an-

te, sulla base delle informazioni disponibili al momento, se il

vantaggio militare che si attende il comandante si ponga in una relazione di proporzionalità rispetto ai danni collaterali che è ragionevole prevedere. Si tratta evidentemente di un’analisi complessa, ma ciò non significa che il test previsto da questa norma sia del tutto inapplicabile in alcuni casi limite. Vorrei

provare, ad esempio, a fare un sondaggio nelle accademie mili- tari chiedendo ai consiglieri giuridici se la distruzione di un edi- ficio di 4 piani in cui si trovano intere famiglie e un solo affilia- to ad Hamas (non risulta un leader del movimento), in una si- tuazione in cui si ha il completo controllo aereo, sia ammissibile in base al principio di proporzionalità (v. qui). Mi chiedo anche se l’asserita provenienza di uno o più razzi da una scuola in cui si trovano 3.300 sfollati valga a giustificare, alla luce del princi- pio di proporzionalità e dell’obbligo di adottare le necessarie precauzioni nell’attacco, la risposta al fuoco verso la scuola stessa (di cui si conoscevano coordinate e natura). Mi chiedo ancora se la strategia denominata «Hannibal», per cui a seguito della cattura di un proprio soldato, la reazione prevista è il bombardamento a tappeto della zona per impedire la fuga del commando, possa essere applicata all’area urbana di Rafah nel rispetto del principio di proporzionalità. Da un altro punto di vista, mi chiedo se il ricorso in zone urbane a proiettili di arti- glieria del tipo «fléchette», che esplodono lanciando migliaia di minuscoli dardi in un’area conica di 300 per 90 metri, sia com- patibile con gli obblighi posti dal principio di precauzione nell’attacco. Sempre in relazione al principio di precauzione nell’attacco, mi chiedo se l’attacco contro due o tre miliziani in moto debba essere sferrato in corrispondenza del cancello di una scuola dove un gruppo di bambini sta facendo la coda.

Riteniamo che un esercito che dispone di un arsenale vastis- simo e continuamente rifornito possa permettersi scelte di que- sto tipo? Il diritto internazionale umanitario non si è evoluto al punto da richiedere che gli Stati che dispongono di armamenti di precisione li usino sempre a prescindere dai costi (cfr. KOLB

e HYDE, An Introduction to the International Law of Armed

Conflicts, Oxford-Portland, 2008). Ma l’uso ampio e generale

di armamenti che di precisione non sono non vale forse a dimo- strare l’animus di chi attacca?

che erano stati già censurati nelle precedenti operazioni militari israeliane nella Striscia di Gaza. Forse l’unico elemento positivo riscontrabile in quest’operazione, dal punto di vista giuridico, è che non esiste finora notizia dell’utilizzo di proiettili al fosforo bianco in aree urbane e del ricorso alla pratica degli scudi umani da parte dell’esercito israeliano. Si tratta di violazioni del diritto dei conflitti armati che erano state invece registrate du- rante l’operazione «Cast Lead».

Quanto al comportamento di Hamas, che dire? È evidente che lanciare razzi incapaci di discriminare verso il territorio di Israele è una violazione del principio di distinzione e un atto di terrorismo. Lo avevo già affermato senza esitazioni in un mio scritto relativo alle violazioni del diritto umanitario compiute da Hamas durante l’operazione Cast Lead (Pertile, “Le violazioni del diritto umanitario commesse da Hamas durante l’operazione Piombo fuso”, Diritti umani e diritto internazionale, 2009, p. 333 ss.). Lo ribadisco ora con forza e in modo non “svogliato”. In realtà non so bene cosa significhi l’accusa di svogliatezza formula- ta da Gradoni, ma direi che nemmeno l’appello è “svogliato”. Grazie al cielo la popolazione israeliana è protetta da un sistema difensivo relativamente efficace. La presenza di questo sistema non diminuisce la gravità della violazione del diritto internaziona- le umanitario derivante dal lancio dei razzi, ma mi sembra realisti- co che un appello che ruota attorno all’analisi dello ius in bello si soffermi maggiormente sulle responsabilità della parte che sta di- mostrando una maggiore capacità offensiva. Come durante l’operazione Cast Lead, non sembra esistere una prova chiara del fatto che Hamas abbia obbligato i civili palestinesi a fungere da

scudi umani. Esistono dichiarazioni di alcuni dirigenti di Hamas che invitano la popolazione a rimanere nelle proprie case e ne lo- dano il comportamento, ma non è dato riscontrare forme di coer- cizione. È invece piuttosto chiaro che il lancio dei razzi da parte dei militanti palestinesi avviene dalle aree urbane. Del resto a Ga- za gli spazi sono davvero molto limitati, specialmente dopo la

creazione di una zona cuscinetto da parte dell’esercito israeliano durante l’azione terrestre. L’intera Striscia di Gaza, per intender- ci, ha una superficie equivalente a quella del comune di Enna

(ventiseiesimo comune italiano) e una popolazione superiore di 500.000 unità a quella del comune di Milano. Su questo corre l’obbligo di ricordare che la norma che impone ai combattenti di collocare gli obiettivi militari al di fuori delle aree densamente popolate è limitata da una clausola che recita «in tutta la misura possibile».

C’è poi un altro punto che vorrei sottolineare: è il meno rile- vante in termini giuridici, ma è la critica più importante che Gra- doni rivolge all’appello. Purtroppo, e di questo mi spiace, l’autore non sembra muoverla apertamente, introducendola invece per implicazione. Se posso permettermi di renderla esplicita, Gradoni ritiene che l’appello sia fazioso. Aprendo il suo scritto, afferma (una clamorosa excusatio?) che non intende proporre al lettore «un controcanto di puntigliose rimostranze di non completa “obiettività”». Successivamente, però, si rivolge ai firmatari dell’appello chiedendo loro retoricamente se davvero siano sicuri che il diritto dei conflitti armati possa offrire «una solida sponda a chi intende far valere le ragioni del popolo palestinese». È chiaro che firmando quell’appello ero purtroppo rassegnato a essere an- noverato per sempre nella fazione filopalestinese. Ho visto in de- cine di casi che in questa triste vicenda è diventato normale arruo- lare anche gli osservatori, ma speravo che ciò avvenisse soltanto per opera di Julian Ku e non anche del mio amico Lorenzo Gra- doni. In tutta franchezza le motivazioni che mi hanno spinto a firmare l’appello non dipendono da simpatia verso una delle par- ti, ma dallo sgomento nel vedere la condizione dei civili, e soprat- tutto dei bambini, peggiorare giorno per giorno nella Striscia di Gaza, attraverso una serie di condotte che appaiono ai miei occhi come gravi violazioni del diritto dei conflitti armati. Se un’inchiesta imparziale dimostrerà che mi sbaglio, sarò pronto a ricredermi.

Ma su questo, in un altro passaggio del suo intervento, Gradoni critica l’appello per aver incondizionatamente accolto con favore l’istituzione di una commissione d’inchiesta da parte del Consiglio per i Diritti umani. Dove sarebbe il problema? Non nel mandato della Commissione, che copre i crimini commessi da tutte le parti al conflitto e che, giustamente, Gra- doni non critica. Il problema secondo l’autore risiederebbe nel fatto che la risoluzione che istituisce la Commissione sarebbe stata adottata dopo un «confronto altamente polemico» tanto da portare gli Stati europei, alcuni Stati africani, il Giappone e la Corea a prendere le distanze dal testo. In questo modo, se ne deduce, il risultato del lavoro della Commissione non potrà es- sere usato dalle parti nel negoziato giacché una di esse non ac- cetterà mai il risultato dell’accertamento. Il problema dunque non risiede nell’accertamento, nell’attendibilità e nella terzietà della Commissione o nel mandato ricevuto. Per Gradoni, il problema sembra risiedere in una questione di opportunità po- litica. Che avrebbero dovuto fare gli estensori dell’appello? Lamentare l’asserita posizione polemica e il linguaggio politi- camente connotato di alcuni Stati nel dibattito che ha precedu- to l’adozione della risoluzione? E a che fine? Personalmente, penso che l’istituzione di una commissione d’inchiesta, a fronte di fatti che – riportati in modo convergente da un ampio nume- ro di osservatori sul terreno – turbano la coscienza dell’umanità, sia senz’altro uno sviluppo positivo. Non trovo necessario, né giusto interrogarsi sull’opportunità dell’accertamento e sulla sua funzionalità rispetto a un negoziato che, condotto in queste forme e da questi mediatori, non ha possibilità di riuscita. E poi, anche in termini teorici, possiamo davvero pensare che la funzione di accertamento dei fatti debba essere necessariamen- te inserita in un processo negoziale? L’accertamento dei fatti serve anche solo ad accertare i fatti. Quando c’è un fondato so- spetto che i fatti riguardino la commissione di crimini interna- zionali su vasta scala dobbiamo forse decidere che, politica-

mente, è meglio non conoscerli? Seguendo questa logica non avremmo mai nemmeno dei parametri su cui discutere. O forse continueremmo ad avere il rapporto Cassese sulla crisi in Dar- fur, mentre prudenza politica ci avrebbe sconsigliato di istituire