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Dalla denotazione generale all’espressione di una sematica densa: la metafora

3. Giacomo Leopardi e il lavoro della lettura

Un esempio emblematico, nella tradizione letteraria italiana, di quan-to si è cercaquan-to fin qui di descrivere è costituiquan-to dall’incessante attività di lettura, traduzione e scrittura di Giacomo Leopardi18. Dei luoghi del suo Zibaldone di pensieri due in particolare interessano qui la no-stra indagine e precisamente il pensiero del 22 Agosto 1820 e quello del 27 Agosto del 1821.

16 «[…] anche nel luogo del transfert, che è il luogo del Soggetto che sa, l’emergenza del senso e il suo orientamento verso un punto d’origine di-menticato, non solo non arriveranno mai a investire (a rappresentare) quel punto originario, ma subiranno un continuo processo di segmentazione, di deviazione, di spostamento. Il percorso del senso non cessa di interrompersi e aprirsi verso altre costellazioni di significanti, verso nuove parole e nuove rappresentazioni, che esso stesso produce nel suo farsi e nel suo disfarsi, da cui i nuovi reperti, le nuove elaborazioni concettuali, le nuove emergenze di senso, che rimandano ad altre configurazioni primarie latenti, e così via, in un reticolo che non conoscerà mai né arresto né soluzione» (ivi, pp. 164-165).

17 Ivi, p. 171.

18 Si leggerà a riguardo il puntuale saggio di n. primo, Leopardi lettore e

Il primo fa della lettura l’equivalente di una vera e propria espe-rienza pratica che produce effetti su chi scrive e quindi sull’arte dello scrivere. La lettura permette infatti allo scrittore di conoscere, così come fa la vita riguardo agli uomini e alle cose, la lingua e lo stile. È nota del resto la sollecitazione pedagogica dell’antica Retorica che prescriveva agli allievi di imitare i grandi scrittori finalizzando così la lettura alla pratica della scrittura:

La lettura per l’arte dello scrivere è come l’esperienza per l’arte di vivere nel mondo, e di conoscere gli uomini e le cose. Distendete e applicate questa osservazione, specialmente a quello che è avvenuto a voi stesso nello studio della lingua e dello stile, e vedrete che la lettura ha prodotto in voi lo stesso effetto dell’esperienza rispetto al mondo (22. Agosto. 1820.)19.

Il pensiero successivo analizza, ben oltre gli effetti di stile che la lettura può produrre, quelli che la moderna teoria del Testo chiama effetti di godimento e di cui il romantico Leopardi era assolutamente consapevole. Egli mette sullo stesso piano lo studio e la lettura per la soddisfazione che procurano all’animo, pur distinguendo in un altro luogo dello Zibaldone la lettura-esercizio, la lettura-abitudine e le cattive letture che lo scrittore deve dimenticare prima di iniziare egli stesso a scrivere20. Neanche la più sublime e perfetta eloquenza, Ci-cerone docet, riesce a colmare quel desiderio di infinito che la lettura della vera poesia può invece appagare:

Dice Cicerone […] che gli uomini di gusto nell’eloquenza non si appagano mai pienamente nè delle loro opere nè delle altrui, e che la

mente loro , a cui

le forze dell’eloquenza non arrivano. Questo detto è notabilissimo riguardo all’arte, alla critica, al gusto.

Ma ora lo considero in quanto ha relazione a quel perpetuo desiderio e scontentezza che lasciano, siccome tutti i piaceri, così quelli che derivano dalla lettura, e da qualunque genere di studio; ed in quanto

19 g. leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di G. Pacella, Garzanti, Milano 1991, I, p. 205.

si può riferire a quella inclinazione e spasimo dell’uomo verso l’infi-nito, che gli antichi anche filosofi, poche volte e confusamente espri-mono, perché le loro sensazioni essendo tanto più vaste e più forti, le loro idee tanto meno limitate e definite della scienza, la loro vita tanto più vitale ed attiva, e quindi tanto maggiori le distrazioni de’ desiderii, che la detta inclinazione e desiderio non potevano sentirlo in un modo così chiaro e come noi lo sentiamo.

Osservo però che non solo gli studi soddisfano più di qualunque al-tro piacere, e ne dura più il gusto, e l’appetito ec. Ma che fra tutte le letture, quella che meno lascia l’animo desideroso di piacere, è la lettura della vera poesia. La quale destando mozioni vivissime, e riempendo l’animo di idee vaghe e indefinite e vastissime e mai chiare ec. lo riempie quanto più si possa a questo mondo. Così che Cicerone non avrebbe forse potuto dire della poesia ciò che disse dell’eloquenza. Ben è vero che questa è proprietà del genere, e non del poeta individualmente, e non deriva dall’arte sua, ma dalla mate-ria che tratta. Certo è che un poeta con assai meno arte ed abilità di un eloquente, può lasciare un assai minor vôto nell’animo, di quello che possa il più grande oratore: e produrre ne’ lettori quel sentimento che Cicerone esprime, in assai minor grado (27. Agos. 1821.)21. La «lettura della vera poesia» può appagare quell’«aliquid», può colmare quel «vôto» che la più perfetta eloquenza lascia insoddisfat-to in virtù di certe qualità del tesinsoddisfat-to poetico («proprietà» «materia») che producono quelle mozioni vivissime di cui riferisce Leopardi e che la teoria del Testo chiama Produttività e Significanza:

Il testo è una produttività. Ciò non vuol dire che sia il prodotto di un lavoro (come potevano esigere la tecnica della narrazione e la padronanza dello stile), ma il teatro stesso di una produzione in cui si ricongiungono il produttore del testo e il suo lettore: il testo «lavo-ra» in ogni momento e da qualunque lato lo si prenda; anche scritto (fissato), non smette di lavorare, di alimentare un processo di pro-duzione. Che cosa lavora il testo? La lingua. Decostruisce la lingua di comunicazione, di rappresentazione o d’espressione (là dove il soggetto, individuale o collettivo, può avere l’illusione di imitare o di esprimersi) e ricostruisce un’altra lingua, voluminosa, senza

do né superficie, perché il suo spazio non è quello della figura, del quadro, della cornice, ma quello – stereografico – del gioco combi-natorio, infinito non appena si esca dai limiti della comunicazione comune (sottoposta all’opinione, alla doxa) e della verosimiglianza narrativa o discorsiva […]; è il testo che, in verità, lavora instanca-bilmente, non l’artista o il consumatore. […].

La significanza è un processo, nel corso del quale il «soggetto» del testo, sfuggendo alla logica dell’ego-cogito e impegnandosi in altre logiche (quella del significante, e quella della contraddizione) si di-batte con il senso e si decostruisce («si perde»); la significanza – ed è ciò che la distingue immediatamente dalla significazione – è dunque un lavoro, non il lavoro con cui il soggetto (intatto ed esterno) cer-cherebbe di padroneggiare la lingua (per esempio il lavoro stilistico), ma quel lavoro radicale (non lascia niente intatto) attraverso il quale il soggetto esplora come la lingua lo lavori e lo sciolga non appena vi entri (invece di sorvegliarla): è, se si vuole, «il senza fine delle possibili operazioni in un dato territorio della lingua». La significan-za, contrariamente alla significazione, non può dunque ridursi alla comunicazione, alla rappresentazione, all’espressione: essa pone il soggetto (dello scrittore, del lettore) nel testo, non come una proie-zione, anche fantasmatica (non c’è «trasporto» di un soggetto costi-tuito), ma come una «perdita» (nel senso che questa parola può avere in speleologia); donde la sua identificazione con il godimento; […].22

Cioè, con «quella inclinazione e spasimo dell’uomo verso l’infinito», secondo le parole dello Zibaldone.

La significanza, che è il testo al lavoro, non riconosce i campi im-posti dalle scienze del linguaggio (questi campi possono essere ri-conosciuti al livello del fenotesto, ma non a quello del genotesto); la significanza […] sta indistintamente a tutti i livelli dell’opera: nei suoni […] come movimenti pulsionali, nei monemi (come alberi di associazioni, connotazione e polisemia); nei sintagmi (risonanza in-tertestuale); nel discorso, la cui «leggibilità» è sopraffatta o superata da una pluralità di logiche diverse dalla semplice logica predicativa. Questo rivolgimento dei «luoghi» scientifici del linguaggio appa-renta molto la significanza (il testo nella sua specificità testuale) al

lavoro del sogno di cui Freud ha avviato la descrizione […] ciò che il «lavoro onirico» e il «lavoro del testo» hanno in comune […] è l’essere un lavoro al di fuori di ogni scambio, sottratto al «calcolo».23

Da queste puntuali citazioni risulta evidente che il lettore non occupa più un posto esterno al testo e per così dire di tutto riposo (passi-vo), e nemmeno il posto rassicurante, distaccato e obbiettivo dello scienziato. In quanto soggetto della lettura egli occupa, allo stesso titolo del soggetto che presiede all’enunciazione del testo, un posto di desiderio:

Rimettere, o ritrovare, il desiderio che è nella lettura ha un’importan-za di metodo. Se è infatti impossibile sottomettere l’attività di lettura a una pertinenza d’analisi e fare della lettura un concetto docile a un approccio scientifico, è proprio perché la lettura è offerta al deside-rio, e non vi potrebbe essere «scienza» del desiderio: un’analisi «og-gettiva» della lettura condurrebbe alla fine fuori dal suo oggetto; per tradizione, sia retorica che semiologica, ci si aspetterebbe di trovare quest’oggetto (scientifico) dalla parte della struttura – e si avrebbe senz’altro ragione: ogni lettura avviene all’interno di una struttura (sia pure multipla, aperta) – e non nello spazio cosiddetto libero di una pretesa spontaneità: non vi è lettura «naturale», «selvaggia»: la lettura non deborda mai dalla struttura; essa le è sottomessa, ne ha bisogno, la rispetta: ma la perverte. La lettura sarebbe come il moto del corpo che, con un solo movimento, pone e perverte il proprio ordine24.