I GIALLI DI PIOMBO, STAGNO E ANTIMONIO: DALLA “SEMANTICA” DEL COLORE ALLO “STATO DELL’ARTE”
3.4. Il giallo tra i colori della storia.
Le ragioni economiche, sociali e religiose da cui è conseguito l’uso del colore, hanno provocato un’evoluzione che ha influenzato la scelta di un tono piuttosto che un altro.
In tutte le società antiche e fino all’alto medioevo, le funzioni primarie del colore rivolte alla creazione di sistemi di simbolici erano incentrate sulle tre tinte polari: rosso, bianco e nero (Gerschel L., 1966, pp. 603-624; Pastoureau M., 2000, pp. 15-16; Pastoureau M., 1985, pp. 5- 13). Da sempre essi incarnavano le nozioni archetipiche di colorato (il rosso), privo di colorazione e pulito (il bianco) ed infine privo di colorazione, ma sporco (il nero).
La sensibilità degli antichi ai colori ruotava poi intorno a due assi: bianco-nero in rapporto a luce, intensità e purezza bianco-rosso, a proposito della materia colorante, alla sua presenza o assenza, alla sua ricchezza o concentrazione (Pastoureau M., 2000, p. 16). Il bianco quindi era dotato di due contrari, il rosso ed il nero, da cui poteva dare origine a rapporti di associazione o di opposizione.
Erano esclusi da questo sistema gli altri colori che, pur non essendo letteralmente “proibiti”, non occupavano un posto fondamentale nei vari sistemi sociali costruiti sul colore (abbigliamento, liturgia, ecc.) e continuarono a rimanere relegati ad ambienti subalterni per molti anni ancora. Il giallo fu così assimilato al bianco mentre il blu ed il verde furono considerati dei colori simili al nero tant’è vero che il concetto di scuro era espresso ricorrendo proprio a verde, blu e nero.
Per assistere alla disgregazione del vecchio schema bianco-rosso-nero bisognerà attendere tra XI e XIII secolo, quando finalmente sarà proposta una scala cromatica, lineare e gerarchica, in cui tra bianco e nero furono collocati tutti gli altri colori (Pastoureau M., 1985, p. 10). Si definirono sei colori di base: bianco, rosso, nero, blu, verde, giallo e ai due assi già da tempo esistenti se ne aggiunse un terzo che contrapponeva rosso e blu. In questo modo anche il rosso come il bianco poteva contare su due contrari (Pastoureau M., 2000, pp. 82-83).
Se l’occhio medievale era particolarmente sensibile a luminosità, intensità e contrasto, lo spirito era invece molto predisposto a trattare i colori come concetti e a considerarli come categorie pure e monocromatiche.
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Dal VII secolo, i colori brillanti e l’oro si impossessarono di tessuti ed abiti liturgici anche se gli usi variavano poi in relazione alle varie diocesi. Erano i vescovi a detenere il controllo liturgico e raramente si preoccuparono di inserire nei testi normativi gli specifici riferimenti alla questione dei colori. E’ noto solo che fino al concilio di Trento, vescovi, prelati e concili, si batterono affinché non si facesse uso di tessuti a righe, troppo colorati o vistosi (Pastoureau M, 1991, pp. 17-47) ed allo stesso tempo invocarono il primato del colore bianco simbolo di purezza, innocenza, battesimo, conversione, gioia, resurrezione, gloria e vita eterna.
Solo a partire dal XII secolo, cominceranno a trovarsi tra i testi dei maggiori scrittori di liturgia riferimenti sempre più frequenti al significato del colore (Pastoureau M., 2000, p. 39). Ancora una volta, si trovavano descritti i tre poli: il bianco per evocare la sensibilità e la purezza; il nero, l’astinenza, la penitenza e l’afflizione ed infine il rosso che richiamava il sangue versato da e per Cristo, ma anche la passione, il martirio, il sacrificio e l’amore divino. Sporadicamente si trovano riferimenti al verde, al grigio ed al giallo.
Affonda le radici nel periodo carolingio una corrente di pensiero che si affermerà completamente solo nella prima metà del XII secolo. Si tratta della nuova teologia della luce e della sua discendenza o meno da Dio (Pastoureau M., 2000; Pastoureau M., 1992) che genera dei veri e propri conflitti tra cromofili e cromofobi.
Tra i primi si menzionano coloro che, come i cluniacensi, sostengono che il colore della luce è l’unica parte del mondo sensibile ad essere visibile ed immateriale e pertanto la luce rappresentava Dio (Pastoureau M., 1992. pp. 29-30). Essi si batterono affinché all’interno delle chiese fosse riservato un posto al colore al fine di dileguare le tenebre ma anche di cedere ancora maggiore spazio al divino.
Ad opporsi ai cluniacensi, troviamo i monaci cistercensi che sostengono che il colore altro non è che materia, un involucro intorno a capi ed oggetti che diventano pertanto una sostanza ingannevole, un inutile artifizio che ostacola il contatto tra l’uomo e Dio e allontana dal culto. A giustificare la loro posizione i cistercensi propongono anche ragioni filologiche che confermerebbero la loro visione negativa del colore. L’etimologia della parola “colore”, derivante dalla famiglia del termine latino “celare” (Ernout A. e Meillet A., 1954, p. 133) starebbe a significare che esso nasconde, traveste e denatura. Il buon cristiano quindi, deve allontanarsi da tutto quanto è colore, poiché a sua volta esso stacca il fedele dall’essenziale e quindi da Dio.
Ovviamente questo atteggiamento ebbe le sue conseguenze nella legislazione liturgica. Dal XII secolo i colori destinati a questo scopo e rimasti invariati nei secoli successivi, erano
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rappresentati dai tre polari136 a cui potevano aggiungersi verde e giallo in determinati periodi dell’anno e per circostanze particolari. A fornire un utile criterio per l’impiego dei colori durante lo svolgimento della messa, sarà il Cardinale Lotario Conti di Segni, poi Papa Innocenzo III, che tra 1194-95 fornì la descrizione137 dell’uso dei colori nella sua diocesi (quella di Roma), e che sarà ben presto adottata dall’intera nazione. Il futuro Papa favorì l’uso del bianco, simbolo di purezza per le feste degli angeli, delle vergini e dei confessori a Natale, il giovedì Santo e per la domenica di Pasqua; il rosso, ancora memore del sangue di Cristo, doveva essere invece impiegato per le feste degli apostoli e dei martiri, per la Santa Croce e per la Pentecoste; il nero, legato al lutto ed alla penitenza, serviva per le messe dei defunti, durante il periodo dell’Avvento, per la festa di S. Innocenzo e per tutto il tempo della Cresima. È inoltre interessante notare la possibilità di inserire il verde in giorni in cui non si era previsto l’uso dei tre colori più importanti ed il suo impiego era consentito, poiché il verde aveva una tonalità mediana tra i tre colori polari. Infine il futuro Innocenzo III precisò anche l’eventualità di poter rimpiazzare il nero con il giallo ma anche con il violetto ed il verde. Questo atteggiamento nei confronti dei colori si ripropose più o meno secondo gli stessi criteri qualche secolo più tardi durante il periodo della Riforma protestante. Le posizioni contrastanti assunte da cromofili e cromofobi, iniziarono ad attenuarsi intorno al XIV secolo (Pastoureau M., 2000) quando si riuscì a raggiungere una posizione intermedia tra le due precedenti. Ormai policromia sfrenata o assoluta mancanza di colori avevano lasciato il posto a dorature, effetti di luminosità ed altri numerosi artifici che contribuirono a fare del culto la manifestazione del lusso verso cui si stava indirizzando la classe ecclesiastica e coloro che ricoprivano un importante posizione sociale.
Ricalcando l’atteggiamento di S. Bernardo e dei suoi sostenitori, i fautori della riforma protestante a distanza di due secoli, attaccarono lo sfarzo in cui era ricaduta la chiesa. Ispirati dalla sola parola di Dio (Pastoureau M., 1989, pp. 203-230), il miglior addobbo per qualunque luogo di culto, presero a criticare tutti gli ornamenti architettonici e decorativi. La purezza dell’anima a cui aspiravano era raggiungibile solo attraverso la semplicità e l’armonia.
È così facilmente comprensibile il violento atteggiamento contro quella oscena teatralità che ridicolizzava la chiesa (Scribner R. W., 1980, pp. 234-264) e costituta da gesti, ritmi, oggetti, a cui non si poteva non aggiungere il colore.
Un colore codificato dal sistema liturgico ma anche legato ad oggetti, sculture policrome, decori architettonici, ornamenti preziosi ed immagini dipinte nei libri dei santi, non poteva che essere oggetto di critica da parte dei riformatori. Il rosso che per molti anni era stato
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Rosso, bianco e nero.
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considerato il simbolo per eccellenza della Bibbia, poiché emblema del sangue di Cristo, era visto da loro come il colore della follia degli uomini che avevano perso così la retta via della purezza (Whirt J., 1921, pp. 9-21).
Il colore continuava ad essere trucco, lusso ed artificio ed era pericoloso perché allontanava dal vero e dal bene colpevole di sedurre e confondere.
Con una certa continuità di pensiero dai calvinisti ai riformatori, l’arte e quindi il colore come suo mezzo di espressione che discendeva direttamente da Dio, doveva aiutare a comprendere meglio la parola del Creatore. Le sue immagini erano bandite, ma i suoi prodotti dovevano aiutare l’artista a ricercare l’ispirazione analizzandone l’armonia delle forme e dei toni. Elementi costruttivi della bellezza sono chiarezza, ordine e perfezione ed i più bei colori sono quelli della natura (Whirt J., 1921, pp. 9-21; Bielier A., 1963, pp. 25-27) nei toni verdi della vegetazione e dell’azzurro del cielo.
Gli artisti di questo periodo nell’impiegare il colore per le loro produzioni tennero sempre ben presente il concetto di sobrietà nel rifiuto del variopinto e di tutto quanto poteva aggredire l’occhio e trasgredire il puritanismo cromatico (Pastoureau M., 2000, pag. 107) da cui erano ispirati. L’atteggiamento riformista ha così consentito il rafforzarsi dell’opposizione di un asse bianco-nero-grigio rispetto ai colori propriamente detti ed ha consacrato definitivamente la stampa e l’incisione come le forme d’arte da loro preferite (Pastoureau M., 1992, pp. 41- 42).
La netta predilezione dei protestanti per nero ed bianco, ebbe conseguenze anche nel campo dell’abbigliamento. Sulla base dei principi generali della dottrina protestante, i riformatori si guardarono bene dall’indossare abiti troppo vistosi o ricchi di ornamenti preferendo invece un abbigliamento sobrio e dai colori scuri. Ne conseguì l’affermazione dell’importanza sociale del colore nero come simbolo di umiltà e temperanza (Pastoureau M., 1996, pp. 7-39).
All’atteggiamento dei protestanti ben presto seguì la posizione dei Contro-riformisti. In maniera del tutto naturale e coerente alla religione di cui si facevano portavoci i cattolici, partendo dal presupposto che tra i misteri della fede era inclusa la chiesa come immagine divina sulla terra (Pastoureau M., 2000; Pastoureau M., 1992), ritenevano lecita qualunque magnificenza all’interno dei santuari: marmi, ori, stoffe e materiali preziosi, statue, affreschi, immagini dipinte e colori splendenti, nulla era eccessivo per la casa di Dio. Si stava giungendo quindi nel Barocco, tempo in cui tutto era nuovamente lecito anche in ambito liturgico.
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