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L’importanza dei tintori nella storia dei colori.

I GIALLI DI PIOMBO, STAGNO E ANTIMONIO: DALLA “SEMANTICA” DEL COLORE ALLO “STATO DELL’ARTE”

3.2. Il legame degli artisti con i colori.

3.3.2. L’importanza dei tintori nella storia dei colori.

Il settore che accomuna tintori, stoffe e abbigliamento fornisce un importante contributo alla storia dei colori. In quest’ambito, infatti, fattori sociali, ideologici e simbolici si “intessono” (Pastoreau M., 2000, pag.10) a problemi chimici, tessili, materiali e professionali rendendo le stoffe ed gli abiti il luogo per eccellenza di una ricerca multidisciplinare.

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La nascita delle prime forme di attività di tintura (Pastoreau M., 2000, pag.14) su supporto tessile, risalgono, al VI-IV millennio a.C. ed hanno origine asiatica e africana. Al 4000 a. C., invece, si fanno risalire le prime testimonianze europee di tessuti (Brunello F., 1968, pp. 3- 16). Un aspetto curioso che accomuna questi reperti di stoffe è il fatto di essere accomunati dai toni del rosso.

Fino all’epoca romana, tingere una stoffa equivaleva a modificare il suo colore originale in uno dalle sfumature del rosso che andava dai toni più chiari delle ocre, ai rosa, fino ai più intensi porpora. La spiegazione più plausibile sarebbe da ricercarsi in una migliore resistenza alla penetrazione dei coloranti rossi usati per tingere le stoffe rispetto a quelli impiegati per ottenere altri colori. Questa pratica si era radicata al punto tale da implicare che il termine tingere assumesse il significato di imprimere alle stoffe un colore rosso. Inoltre, nel vocabolario latino le voci ruber e coloratus (André J., 1949, p. 125-126) erano considerate dei sinonimi.

L’egemonia del colore rosso legata a vesti e tessuti comincerà a subire un declino solo nella seconda metà del XIV secolo grazie al proliferare di decreti vestimentari (Hunt A., 1966) adottati un po’ ovunque dalla cristianità. Nel tentativo di porre un freno al lusso sfrenato che in questo lasso temporale investì tutte le classi sociali dominanti intorno al 1350-1400, si desiderava prevenire l’aumento dei prezzi, dare un nuovo orientamento all’economia, stimolare la produzione locale e frenare l’importazione di prodotti di lusso provenienti soprattutto dall’Oriente. Si aspirava a concedere alla chiesa attraverso le nuove leggi vestimentarie, quella tradizione cristiana di modestia e virtù che era andata scemando negli ultimi decenni. Per raggiungere tale obiettivo era tassativamente vietato aprirsi alle novità ed ai cambiamenti che potevano destabilizzare l’ordine e trasgredire le regole del buon costume. La maggior parte delle nuove leggi, originariamente rivolte solo all’ambiente ecclesiastico, fu brevemente estesa al resto della società interessando prevalentemente giovani e donne, le due categorie più predisposte alle novità (Pastoureau M., 1992, pp. 37-49).

La nascente normativa mirò, inoltre, a definire i criteri per mantenere una certa distinzione tra le classi sociali. Ognuno era costretto ad indossare gli abiti che competevano al proprio sesso, stato e rango sociale. In questo modo si contribuì a fare dell’abito il primo segno distintivo al fine di evitare che membri di classi diverse si congiungessero in legami sentimentali venendo meno a quelle leggi dell’ordine voluto direttamente da Dio (Pastoureau M., 1992, pp. 37-49). Questa tendenza si tradurrà nell’eliminazione dei colori troppo accesi quali rosso e giallo, rosa e aranciato, ritenuti disonesti; per preferire invece le tinte scure quali nero, grigio e marrone. Il bianco, invece, verrà prevalentemente adottato per gli abiti dei bambini poiché considerato

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il colore della purezza. Nell’ambito di questi cambiamenti, chi si dedicava alla messa in opera di tessuti per rispondere alle esigenze sociali era la figura del tintore. Colui che si occupava di tingere i tessuti, oltre che dalle richieste sociali, era vincolato nello svolgimento delle sue attività quotidiane anche dalle direttive che le corporazioni di appartenenza gli imponevano. Erano diffuse corporazioni della lana e del lino, della seta e raramente del cotone. Ognuna era dotata di un severo regolamento nel quale si definivano le regole per l’organizzazione interna, la posizione all’interno della città, i diritti ed i doveri dei membri ed infine le liste di coloranti e pigmenti leciti e vietati (Pastoreau M., 1992; Ball P., 2001).

La specializzazione nel tingere era strettamente legata al territorio nel quale si esercitava. In linea di massima durante tutto il Medioevo, i tintori si trovarono a dover fronteggiare la sensibilità dell’epoca strettamente connessa alla cultura biblica (Douglas M., 1992) che influenzava fortemente anche l’aspetto ideologico e simbolico dell’intera società. Anche per i tintori, come per tutti i membri della società era tassativamente vietato alterare l’ordine e la natura delle cose voluta direttamente da Dio. Per questa ragione essi erano costretti ad eliminare totalmente dalle loro azioni quotidiane miscele e fusioni, operazioni ritenute infernali.

Nonostante la diligenza nel rispettare le regole, il loro lavoro implicava una manipolazione dei colori per ricercare sfumature diverse al fine di ottenere risultati sempre migliori. Per ricavare da due colori un terzo, i tintori procedevano sovrapponendo le tinte a disposizione nella speranza di raggiungere il risultato desiderato.

Prima del XV secolo, in nessuna raccolta di ricette è stata ritrovata la descrizione della produzione del verde dalla miscela del blu e del giallo. Tale tonalità era ottenuta ricorrendo a pigmenti e coloranti naturali, oppure applicando al blu o al nero alcuni trattamenti che, alterandone il colore originale, consentivano il conseguimento della tinta ricercata. La miscela era difficilmente ottenibile poiché sottostando alle rigide prescrizioni legislative delle corporazioni, due colori difficilmente erano accordati alla competenza di uno stesso laboratorio di tintura.

La complessità del lavoro svolto dal tintore si deduce anche dalla meticolosa ricerca e scelta dei materiali utili a tutte le operazioni di tintura. Nelle raccolte di ricettari si trovano descritti recipienti di ogni dimensione (grandi, piccoli, larghi, bassi, stretti, ecc.) e materiale (stagno, ferro, terracotta) e ad ognuno era attribuito un nome diverso dagli altri (Pastoureau M., 2000). Tra le materie da impiegare nel quotidiano il principio di base per tingere o dipingere si basava sul far agire una materia considerata viva, su una morta. Tra le materie vive c’erano

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quelle di origine animale e vegetale, mentre quelle di origine minerale erano reputate morte (Pastoureau M., 2000).

Da quanto detto, si evince quindi che la produzione di materiali usati per imprimere colori su supporti tessili era intimamente connessa oltre che ad esigenze di carattere economico, alle richieste sociali da cui derivarono tutte le scelte materiali e di colore nei laboratori di tintura.