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Il contenuto di alcuni manoscritti del XVIII e XIX secolo.

1.2.3. I ricettari vetrari manoscritti 1 Il manoscritto di Montpellier

1.2.3.5. Il contenuto di alcuni manoscritti del XVIII e XIX secolo.

Un importante contributo allo studio di ricettari manoscritti provenienti dall’ambiente muranese è stato fornito dagli studi di Cesare Moretti e Sandro Hreglich (Moretti C., 1982; Moretti C. Hreglich S., 1984 a e b).

In particolare i due studiosi hanno passato in rassegna ben quarantatre ricettari datati tra XVIII e XIX secolo ponendo particolare attenzione alle modalità di preparazione delle anime. Con questo termine ci si riferisce a “prodotti vetrosi, opachi, colorati, che, preparati preventivamente, servono ad opacizzare e colorare altri vetri trasparenti cui vengono aggiunti, alla fine della fusione, sotto forma di polvere e ad essi amalgamati mediante mescolatura con un attrezzo metallico” (cfr. Moretti C., Hreglic S., 1984 a, pag. 17). L’esplicita introduzione del temine anima comincia a comparire nei ricettari a partire dal XVIII secolo. In precedenza nonostante alcune ricette facessero chiaro riferimento alle tecniche di produzione che caratterizzano questi opacizzanti e coloranti per polveri, non compare nessun riferimento specifico al termine.

Gli elementi chiave per rendere l’opacità delle anime sono da riconoscersi in antimoniato e stannato di piombo, utilizzati singolarmente o in miscela. La loro composizione è pertanto associabile a quella dei pigmenti impiegati sulle opere d’arte e oggetto di questo studio. Dalle ricette che costituiscono i quarantatre manoscritti esaminati da Cesare Moretti e Sandro Hreglich emerge che le anime si ottengono dalla miscelazione di minio, calcina di piombo e stagno, antimonio solfuro, ferro ossidato (Croco), ossido di zinco (Tuzia) e silice (Terra). Ovviamente la scelta dei reagenti era dettata dalle specificità che volevano ottenersi dal composto finale.

Un altro dato interessante che emerge dall’analisi delle ricette del XVIII-XIX secolo, è che relativamente alla calcina di piombo e stagno, spesso contemplata per la realizzazione delle anime, sono poche le indicazioni relative alle modalità della sua messa in opera. Molto spesso, infatti, vengono dati per scontato quantità e reagenti per la sua manifattura. Dalle poche ricette che spiegano come produrre una calcina di piombo e stagno, è interessante osservare che nella la tipologia impiegata per produrre le anime si prevede una maggiore percentuale di piombo rispetto a quella di stagno (in media Pb 63%, Sn 36%; Moretti C. Hreglich S., 1984 a pag. 18-19; Moretti C., Hreglich S., 1984 b, pag. 83-84) concordando con i dati presentati alle pagine precedenti. Nella preparazione degli smalti, invece, in media si presume un composto costituito dal 48% di piombo contro il 52% di stagno (Moretti C. Hreglich S., 1984 a pag. 18-19; Moretti C., Hreglich S., 1984 b, pag. 83-84), indicando una proporzione più prossima alle prescrizioni del Manoscritto di Danzica e di Antonio Neri.

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Al XIX sec. risalgono due documenti anonimi datati uno 1820-25(Porter A. L., 1830, p 417), e l’altro 1886 (Brannt W. T. e Wahl W. H., 1186, pag.117) che descrivono le ricette per la preparazione di gialli prodotti da una miscela di stagno e antimonio denominati smalto giallo. Nel documento risalente al primo quarto del 1800, si trova descritto:

Per Smalto Giallo, mischiare otto parti di piombo rosso con una di entrambi i perossidi di antimonio e stagno; scaldare la polvere mischiata su una piastrella olandese, sotto una muffola, finchè diventa rosso caldo, poi lasciar raffreddare: il variare della proporzione di Antimonio potrebbe far ottenere una sfumatura di colore diversa (cfr. Porter A. L., 1830, pag. 417).

Il documento basato su un manuale tecnico protetto da diritti d’autore del 1886 riporta:

Smalto giallo: mescolare in un contenitore di pietra otto parti di minio, una di ossido di antimonio ed una di ossido bianco di stagno. Posta la mistura in un crogiuolo, conducila ad un rosso caldo poi raffreddala e strofinane una parte con due parti e mezza di flusso No.VII (cfr. Brannt W. T. e Wahl W. H., 1186, pag.117)

A differenza di tutte le ricetta analizzate in questo capitolo, le due sopra riportate e datate al XIX secolo, indicano esplicitamente che i reagenti per la manifattura dello smalto giallo sono: minio, ossido di stagno ed antimonio. Il dato è giustificato dal fatto che l’evoluzione della tecnologia aveva reso possibile l’approvvigionamento di materie prime già trattate rendendo più agevole la formazione manifattura dei prodotti a base di piombo, stagno e antimonio.

1.2. 4. L’arte vetraria distinta in libri sette di Antonio Neri.

L’arte vetraria distinta in libri sette di Antonio Neri è considerata l’unica raccolta di ricette

vetrarie, derivanti dall’ambiente lagunare, giunta fino a noi in forma di testo a stampa e non di manoscritto.

La prima edizione del trattato fu concessa alle stampe dal sacerdote fiorentino nel 1612 ma conobbe piena divulgazione a partire dal 1661, quando a Firenze ne venne pubblicata una seconda edizione. La fortuna del trattato, oltre che in Italia, fu riconosciuta nel resto d’Europa grazie soprattutto alle traduzioni in altre lingue prodotte entro il XVII secolo. In particolare,

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nel 1662 Christopher Merret si dedicò alla trasposizione in inglese; al 1663, per opera di Giacomo Batti, si ebbe la versione in veneziano; 1668 e 1669 sono, invece, gli anni delle pubblicazioni del testo in lingua latina. Nel 1679 L’arte vetraria distinta in libri sette giunse in Germania grazie alla traduzione in tedesco per opera di Johann Kunkel von Löwenstern; la versione in francese fu invece curata François Haudicquer de Blancourt nel 1697 (Seccaroni C., 2006, pp. 213-215). Le varie traduzioni al trattato Antonio Neri sono caratterizzate da aggiunte, commenti e personalizzazioni che in taluni casi, come per esempio nella veste francese, si discostano molto dal testo originale.

L’arte vetraria distinta in libri sette è tutt’oggi considerata una fonte di estrema importanza

poiché, a differenza di molti manoscritti compilati da soggetti lontani dall’arte vetraria o comunque poco avvezzi alle tecniche ed al linguaggio proprio della materia, è stato redatto da un sacerdote fiorentino che in prima persona aveva visto e conosciuto alcune tecniche di lavorazione del vetro. A tal proposito sembra che il Neri abbia operato in alcune botteghe vetrarie di Pisa, Firenze ed Anversa. Alcuni documenti attestano che durante i sette anni in cui soggiornò in quest’ultima, il sacerdote fiorentino fece visita alla vetreria di Filippo Gridolfi. Dal maestro vetrario ed i suoi collaboratori carpì principlamente i segreti relativi alla preparazione della calcedonia ad imitazione dell’agata orientale che si trova dettagliatamente descritta nel suo trattato (Schueremans H., 1985, pag. 34; Moretti C. et al, 2004, pag. 16). Tra i prodotti di cui espone Antonio Neri nel suo trattato, non è fatto nessun accenno al giallolino. In aggiunta sono rari anche i richiami alle modalità di adulterazione di piombo, stagno e antimonio, materiali costitutivi dei pigmenti gialli oggetto di questo studio.

L’antimonio è citato nel terzo libro come ingrediente per la preparazione del calcidonio (Cap LXVIII Secondo Calcidonio e LXVIIII Terzo Calcidonio; Neri A., 1612, pp., 42, 46) e nel quarto, allorquando descrive il Modo di tingere il cristallo di montagna senza fondere in

colore di vipera (Cap. LXXIII, Neri A., 1612, pp. 65-66) e Colore di balascio, rubino, topatio, opale, & girasole nel christallo di montagna (Cap. LXXIIII, Neri A., 1612, pp. 66-

67).

Al Capitolo LXII, A calcinar il piombo (Neri A., 1612, pag. 58), Antonio Neri descrive in maniera dettagliata e precisa tutti i procedimenti per trattare l’elemento metallico prima di impiegarlo come ingrediente da aggiungere alla produzione dei vetri. L’autore raccomanda di usare un fornello costituito da una base in pietra tenera come quello utilizzato dai vasai, facendo attenzione che la temperatura non sia troppo alta né troppo bassa. Manipolando continuamente il metallo nella fornace mediante un accessorio in ferro, si ottiene un prodotto

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giallo65 che una volta tirato via del forno, può essere sottoposto a nuova calcinazione dopo aver macinato e setacciato il frutto della prima operazione. Le indicazioni fornite dal Neri, nonostante siano caratterizzate da una spiegazione più minuziosa e chiara, riprendono in maniera esplicita i dettami della ricetta 12, carta 12v., del manoscritto Brunuoro descritta nel paragrafo dedicato al manoscritto di Danzica.

Al Capitolo XCIII del libro sette del trattato di Antonio Neri è presente una prescrizione relativa alle modalità di preparazione di una calcina di piombo e stagno il cui contenuto recita:

Materia con la quale di fanno gli smalti Capitolo XCIII.

Piglisi piombo fine per esempio libre trenta stagno fine per esempio libre trentatré, questi metalli insieme si calcinino nel fornello, come si è detto del piombo a suo luogo, calcinati si passino per staccio. Queste calcina si faccia bollire in acqua chiara, & vaso di terra pulito, cioè pignatto, come ha bollito un poco si levi dal fuoco, & si voti l’acqua per inclinatione, che si portera seco della calcie metallica più sottile, si rimetta nuoua acqua sopra la residentia della calcie, & si faccia bollire, & si decanti come sopra, & questo si reiteri tante volte, che l’acqua non porti con seco più calcina; & la ressidentia grossache rimarra nel fondo, si può tornare a calcinare per cauarne le paste più sottile per ebollizione di acqua comune, come sopra […] (cfr. Neri A., 1612, pag. 83)

Anche in questo caso, come nella descrizione della calcina di piombo, è possibile identificare un chiaro rimando ad una ricetta del Manoscritto di Danzica ed in particolare alla 13 della carta 3v. Oltre alla coincidenza dei quantitativi di piombo e stagno sono riprese e descritte le tecniche di separazione granulometrica della polvere ottenuta mediante ausilio di acqua. Le osservazioni alle ricette contenenti riferimenti ai materiali costitutivi del giallolino mettono in evidenza una stretta correlazione del tratto di Antonio Neri con il Manoscritto di Danzica. La spiegazione a tali similitudini potrebbe essere identificata nel fatto che gli autori dei due testi possano aver colto da una medesima fonte. Ciascuno di loro però, in base alle proprie capacità e competenze, ha sviluppato i contenuti in maniera differente. Mentre

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Antonio Neri esprime in maniera esplicita che il prodotto ottenuto dalla calcinazione del piombo è un composto giallo chiaramente riconducibile alla forma ossidata del piombo dalla formula PbO.

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l’autore del manoscritto di Danzica, chiaramente lontano dalla tradizione lagunare, si limita a trascrivere in dialetto muranese concetti e contenuti di taccuini di bottega, Antonio Neri ne fa una lettura critica che risulta decisamente più fluida. La maggiore chiarezza del linguaggio impiegato dal sacerdote è giustificata da una sua estrazione fiorentina che indubbiamente ha contribuito all’eliminazione di inflessioni dialettali probabilmente presenti nella fonte comune. Inoltre, la rielaborazione della fonte originale da parte del Neri è finalizzata a rendere più comprensibili i contenuti del suo trattato, soprattutto in vista del fatto che sarebbe stato pubblicato e quindi letto da un ampio pubblico che doveva essere messo in grado di comprendere al meglio concetti enunciati.

Dall’analisi del trattato di Antonio Neri si possono identificare circa cinquanta ricette che trovano un legame diretto con il Manoscritto di Danzica. Probabilmente il sacerdote fiorentino aveva ottenuto questo gruppo di ricette durante uno dei suoi viaggi e la volontà di renderli alle stampe, lo aveva indotto ad un loro perfezionamento mediante una modifica del linguaggio originale (Zecchin L., 1987, pag. 173).