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GIAN PAOLO CAPRETTIN

Nel documento What about the german prisoner? (pagine 60-65)

Università degli Studi di Torino

venuti e di pratiche già effettuate.

Ho potuto mostrare, ad esempio, come l’apertura di Eyes

Wide Shut di Stanley Kubrick riprenda l’esordio di Peter

Pan (nella versione cinematografica di Walt Disney) prefi- gurando l’identità di un protagonista avvolto ancora nelle incertezze adolescenziali o come la ritrattistica nell’ icono- grafia filatelica “saldi” ideologicamente personaggi politici del presente o del recente passato con esempi straordinari del mondo antico, ponendo nella stessa serie celebrativa, ad esempio, Michelangelo o Shakespeare accanto a scienziati o politici influenti di quel paese. E’ il caso, di chiara impronta “promozionale”, che si presenta in francobolli anni ’70 e ’80 della Repubblica Democratica tedesca DDR. O come infine la fotografia di fine Ottocento e primo Novecento esprima, nell’esempio che poi verrà presentato, la memoria familia- re contestualizzandola con la documentazione di esterni e di scene di vita.

Azioni di memoria che mostrano l’efficacia simbolica di alcune procedure e anche, con ogni probabilità, la speciale consistenza iconica di ciò che nuovamente investe sentimen- ti individuali e sociali, privati e pubblici, quel toccare nuo- vamente il cuore (letteralmente il ri-cordo, appunto), quel far risuonare il lontano e l’altro che l’etimo del ricordo porta con sé.

2. RICORDO E LINGUAGGIO

Il linguaggio compie la sua lotta o, se si preferisce, svolge il suo compito per il tempo e contro il tempo: qui si annida la memoria come intolleranza e insieme sospensione del pre- sente, presa fra le trappole di ricordi parziali e l’ambizione di attese, conferme o illusioni rispetto a ciò che si manifesta. Il ricordo è sempre incompleto, di qui il suo fascino e la sua insidia, esso è sineddoche, parte per il tutto. Dunque il ricor- do ha/è un montaggio che deve fare economia per lasciare il giusto spazio alle nuove informazioni che arriveranno e a quelle già contenute nella memoria.

Il ricordo anche sotto questo aspetto funziona come il lin-

Un’opera che contenga teorie è come un oggetto su cui si sia lasciato il cartellino del prezzo

Marcel Proust 1. SCOLPIRE IL TEMPO

M

emoria e dominio visivo, attraverso la fissazione iconica del ricordo, ope- rano congiuntamente per creare una galleria di riferimenti e allusioni, per determinare una cronologia anche immaginaria. La cultura condivisa e l’esperienza biografica, la storia e il succedersi degli eventi collettivi e individuali costituiscono i campi di manifestazione e di verità che poi le rappresentazioni colgono presentandone frammenti o se- quenze più o meno ordinati.

Al fine di esplorare i territori della memoria occorre tenere presenti esempi dell’icona come ricordo e del ricordo come icona nella dimensione letteraria, in quella cinematografica, e in altri universi discorsivi , privilegiando tanto il concetto di memoria storica, deliberatamente prodotta e archiviata, quanto quello di documentazione derivata dal sedimentarsi di tracciati personali, come possono essere le foto di famiglia o di ambiente, rappresentanti di un passato che va a confron- tarsi col presente dell’osservatore.

Sullo sfondo un’idea di citazione che trova la sua giusti- ficazione nella concezione dei testi che ritornano, di quelle storie e/o immagini che sono entrate a far parte del dominio culturale e simbolico e che le arti, con varia consapevolezza, fanno riemergere: in particolare, il cinema anche come so- gno degli archetipi, come ripresentazione nuovamente con- notata di vicende iconiche e narrative già offerte da altri testi, ad esempio quelli letterari.

Si comprenderà allora che la memoria, in una dimensione artistica e/o comunicativa, ha a che fare con l’intertestualità, ossia con la circolazione e intersezione dei testi, analoga- mente a quanto succede in rapporto all’esperienza individua- le dove la memoria agisce invece sul piano interdiscorsivo attivando sequenze o frammenti di scambi linguistici già av-

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Occorre comunque sottolineare, con Oliver Sacks, che “da un punto di vista qualitativo, l’immaginazione è diversa dall’allucinazione. Le visioni degli artisti e degli scienziati, le fantasie e i sogni a occhi aperti di cui tutti noi abbiamo esperienza sono localizzati nello spazio immaginativo della nostra mente, ovvero nel nostro personale teatro privato”; si tratta dunque di riconoscere i pensieri come nostri “e non originati all’esterno” (p. 221); altra cosa poi è assumere le immagini prodotte da altri come prossime o remote, familiari o inquietanti, più o meno accettandole, e questo è ciò che avviene nella visione cinematografica.

3. IL PUNTO ROSSO, TRA SIMBOLO E INDICE

Il ricordo avanza verso di noi o si presenta a una certa di- stanza come un paesaggio all’interno del quale si sia fatta strada il sole, la luce. E allora ecco alcuni artifici, come i punti rossi, attivatori di attenzione, piccoli led che in tanta pittura naturalistica ci spingono a rilevare nel quadro d’as- sieme un fuoco accentratore sul berretto di un contadino, sul riflesso di un lago, tra nuvole o tra onde.

Potremo allora dire, imprudentemente, che la procedura del ricordare, mostra somiglianze con la semiosi stessa e più precisamente ne costituisce in molte occasioni la fase prepa- ratoria. In particolare ciò avviene quando si aziona la memo- ria funzionale, ancorata a un soggetto che ne sia portatore, il quale “getta un ponte tra passato, presente e futuro” e “si comporta in maniera selettiva dal momento che ricorda una cosa e ne dimentica un’altra” (Assmann 1999, trad.it. p. 148).

La semiosi, in effetti, ossia il processo di produzione del senso, può essere pensata lungo un processo articolato in tre guaggio: incrocia selezione e combinazione, scelta fra innu-

merevoli elementi, equivalenti soltanto in parte, e loro as- semblaggi in stringhe, strisce o sequenze più o meno ordinate secondo lo stile dello scrittore, del regista, del montatore, del sognatore, di colui che ricorda.

Sicuramente tra ricordo e linguaggio si gioca un differente grado di volontarietà: nel linguaggio infatti le scelte si ef- fettuano entro una gamma potenziale ma disponibile, nel ri- cordo resta insuperabile la distinzione evidenziata anche da Marcel Proust tra memoria volontaria e involontaria, per cui non possiamo pienamente decidere che cosa ricordare e che cosa non ricordare.

Sentiamo risuonare la sua meravigliosa metafora: “Come un aviatore che fin allora si sia trascinato penosamente a ter- ra, ‘decollando’ d’improvviso, io mi alzai lento verso le si- lenziose altezze della memoria. In Parigi, per me quelle stra- de spiccheranno sempre fra le altre, quasi costituite d’un’al- tra materia. Allorché giunsi all’angolo della rue Royale, dove sostava una volta il venditore ambulante di fotografie… mi parve che la carrozza… non avrebbe potuto che svoltare da sé. Non percorrevo le medesime vie della gente che vi passeggiava quel giorno, ma un passato scorrevole, triste e dolce. Un passato, d’altronde, composto di passati così mol- teplici e così diversi che m’era difficile riconoscere la causa della mia malinconia” (Il tempo ritrovato, trad. it. Einaudi 1978, pp. 187-88). Il tema è ancora quello leopardiano: la rimembranza trasfigura i dati percepiti dell’esperienza in dati del ricordo e l’ontologia si duplica, in una dialettica, tra stati di realtà perfino inconciliabili, pronta a generare una scrittu- ra interiore, in una dissolvenza non pienamente efficace che può anche assumere tratti allucinatori.

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o testi già avvenuti o già acquisiti, la memoria azionata in vari momenti successivi presenta sempre nuovi dettagli oltre a perderne altri ponendo in essere le sue capacità trasforma- tive e rigenerative. La produzione del senso e l’azione della memoria mostrano dunque profonde analogie.

La semiosi, secondo Peirce, si fonda su questi tre princi- pi. E diremo allora che il campo della rappresentazione è il campo delle scelte: nel cinema, ad esempio, l’inquadratura sceglie, enfatizzando un oggetto o l’altro, un’azione o l’al- tra. E anche la commistione è comunque una scelta, come ad esempio nel mescolare “reale” e digitale.

Le interpretazioni dei segni passano attraverso ciò che Peirce chiama le leggi del pensiero. La mente umana intra- prende un percorso che non prende avvio dalla realtà bensì dall’interpretazione: indice, icona e simbolo sono le tre mo- dalità attraverso cui la realtà, trasformandosi in rappresenta- zione, produce senso nell’interprete.

L’indice corrisponde al feeling, è qualcosa che ha carattere immediato, quasi-involontario, che si effettua all’interno di uno spazio cui conferiamo un orientamento, e dove lo spazio è inteso come il luogo in cui il senso trova i suoi percorsi, un luogo mentale ma anche uno spazio ridefinito da un sistema, ad esempio un ambiente “di” 9 pollici che è stato schiacciato in un tablet.

L’estensione del braccio che si prolunga verso l’oggetto che indichiamo: ecco l’operazione di orientamento e anche, ad esempio, di costruzione dello spazio in un’immagine. Tale segno connesso all’orientamento spaziale coinvolge an- che l’attenzione (pensiamo allo spostamento di un cursore), in quanto preleva qualcosa in quel determinato spazio.

Il principio dell’icona si basa invece sulla somiglianza: si verifica quando, attraverso il processo di selezione e combi- nazione, sostituiamo qualcosa con qualcos’altro (la mia fo- tografia sulla carta di identità che sta al mio posto), secondo il principio che è detto anche della equivalenza, simile a ciò che nel linguaggio chiamiamo metafora.

Il simbolo infine prevede l’individuazione: si tratta di un sintomo, di una traccia, la applicazione di regole del pensiero e l’identificazione di classi di oggetti. Nell’uso comune, il segno della parola è governato da una legge che chiamiamo convenzione, ossia il riconoscersi in una lingua che passa at- traverso un principio prestabilito, condiviso. La convenzio- nalità rende i segni di questo tipo relativi e di conseguenza produce possibili fraintendimento dei codici simbolici, al contrario di ciò che accade nella classificazione dell’indice, in quanto i codici simbolici inglobano le variazioni temporali a differenza dei segni orientati nello spazio che sono efficaci soltanto nell’hic et nunc della loro raffigurazione.

Ne deriva, per le analogie indicate prima, che nella me- moria si presentano dati di ordine spaziale e di orientamento (indici), dati dovuti ad analogie e somiglianze (iconicità) e infine dati convenzionali e linguistici (simboli).

Ritengo sia utile anche richiamare il pensiero di Jorge L. Prieto che sviluppa il concetto di pertinenza come attività di produzione del senso. L’approdo concettuale di Pertinenza

e Pratica (1975) deriva dal pensiero strutturalista-funziona-

tappe: esperienza (il fluire degli eventi e delle relazioni speri- mentate), rappresentazione (che necessita evidentemente di un know how specifico, di capacità e competenze finalizzate al far comprendere) e socializzazione (ossia la messa in cir- colazione di informazioni, sulla base di uno o più sistemi espressivi e con l’ausilio di supporti che veicolino la comu- nicazione e lo scambio).

Le correlazioni tra i tre stadi creano dei quadri di riferi- mento, nuovi mondi possibili. Non si tratta di domini stret- tamente interdipendenti: ad esempio l’esperienza può sussi- stere senza alcun tipo di rappresentazione offerta a terzi. Più precisamente, l’esperienza non è soltanto l’insieme degli eventi che viviamo ma è costituita da quelli che siamo in grado di ricordare, e quindi di mettere in gioco, grazie a una qualsiasi emergenza sensoriale.

Quando parliamo di memoria siamo in effetti già in pre- senza di una rappresentazione, anche soltanto potenziale. La socializzazione invece consiste invece nel rendere pubblica, far partecipare qualcuno a un’esperienza vissuta da altri: è ciò che sostanzialmente accade al cinema purché si accetti il contratto spettatoriale e non si pensi di far parte di ciò che si osserva.

E’ noto che Charles S. Peirce, fondatore del pragmatismo, basa le sue teorie su tre diversi piani, per cui la rappresenta- zione si fonda su firstness, secondness, thirdness, ossia og- getto, segno, interpretante. Immaginiamo una serie di dati, di entità “gettate” in un mondo (come i viaggiatori in una me- tropolitana), che non hanno ancora stabilito relazioni tra loro, ma dove il mondo è inteso come uno spazio dotato di confini. Legato alla primità individuiamo in Peirce il concetto di

feeling: si tratta dell’immediatezza della percezione, che ha

una risposta puramente sensoriale e che si lega alla categoria della quantità di tali oggetti del mondo. La secondità è ciò su cui si fonda la rappresentazione, legata al principio della qualità relazionale che attribuiamo al pensiero. Il segno è una scelta che noi operiamo su una base già esistente, è relativo e la sua è una verità sempre relazionale poiché ci troviamo nell’universo rappresentativo. Il segno non è dunque un’en- tità assoluta bensì produce altri segni nella mente delle per- sone e tale produzione determina l’interpretante, la terzità.

Il cinema aderisce perfettamente alla definizione di se- gno di Peirce, ossia qualcosa che sta per qualcos’altro sotto certi aspetti e possibilità: dopo aver individuato oggetti nel mondo, dopo averli posti in relazione, ecco che secondo il principio della terzità questi oggetti sono proiettati verso la socializzazione, ossia rappresentano qualcosa che è sottopo- sto a qualcun altro (sotto certi aspetti e possibilità), anche in base a un determinato ordine assegnato agli oggetti stessi.

Aggiungiamo che l’interpretante non è calcolabile, come non è calcolabile il senso della rappresentazione: c’è infat- ti una quota di senso che permane non prevedibile, poiché il senso è ciò che sfugge alla determinazione, e dunque la libertà che giunge dal senso è che le interpretazioni siano potenzialmente illimitate.

Qualcosa del genere accade alla memoria; sappiamo infatti dopo le ormai lontane ricerche di Bartlett che, a fronte di fatti

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minata pertinenza, cioè possono venir raccontati, le immagi- ni di realtà inventate vanno considerate “oggetti”, specie se convochiamo i media attuali che rendono spesso complessa la distinzione tra realtà e immaginazione. Le immagini in ef- fetti sono segni speciali, cioè anche di qualcosa che non rap- presentano, anche di qualcosa che non fanno espressamente vedere, in base all’intrinseca proprietà evocativa delle im- magini. La differenza tra la parola e l’immagine è in questo modo esplicitata: la parola ha infatti il suo referente, è stata costituita per rapportarsi direttamente a un oggetto del mon- do, anche se vagamente evocato, l’immagine invece porta con sé anche oggetti che non rappresenta direttamente.

Per di più, il senso delle immagini è determinato da tre elementi: biosfera, semiosfera, atmosfera. La biosfera di Vernadskij (1934) individua l’universo vivente e la sua interdipendenza;la semiosfera di Jurij M. Lotman (1982), raggruppa invece l’universo di tutto ciò che dà senso: i se- gnali dei satelliti, i versi dei poeti e le grida degli animali, diceva dunque il principio di unità dentro la varietà. L’atmo- sfera di Balàsz (1924) e Cohen Séat (1957), è il luogo della partecipazione emotiva (il feeling di Peirce), un luogo indefi- nibile che indica la percezione di uno stato d’animo, dunque lista per cui il linguaggio agisce non

tanto come prerogativa umana ma come meccanismo che, mediante se- gnali, genera significato secondo due distinte funzioni, espressiva e comu- nicativa.

Il linguaggio dunque è funzionale non soltanto alla produzione pensieri ma specialmente alla loro trasmissio- ne.

Il principio di pertinenza elaborato da Luis J. Prieto prosegue in qualche modo la riflessione di Peirce secondo cui il segno ha valore relativo poiché sta per qualcos’altro secondo certi aspetti e possibilità. Qualsiasi oggetto può diventare segno di qualcos’altro se obbedisce ai termini di pertinenza, e tale caratteristica è dovuta a due re- gole: 1) essere segno di qualcosa sot- to certi aspetti o possibilità 2) essere segno per qualcuno. La pertinenza è dunque il punto di vista da cui un sog- getto considera l’oggetto. E’ evidente che nelle arti visive il principio di per- tinenza si traduce con il punto di vista, mentre gli aspetti o possibilità rappre- sentano il modo in cui tale punto di vi- sta viene messo in atto e si manifesta. In generale, ogni medium trasforma gli oggetti del mondo in qualcosa che ha pertinenza per qualcuno, ogni me- dium ha di conseguenza una potenza generativa: la realtà viene manipolata

al punto che gli oggetti del mondo sono trasformati attraver- so la rappresentazione in un modo generativo, tanto che in un certo senso il senso della realtà si costruisce attraverso le sue stesse immagini.

In ambito cinematografico diremo che guardando un film noi “denaturalizziamo” ciò che vediamo, proprio in ragione delle pertinenze che poniamo in essere. In un certo senso la pertinenza può essere associata all’enunciazione: un mon- do di segni si organizza attraverso determinati percorsi, da qualcuno verso qualcun altro, e si tratta di un processo che ordina i segnali che vanno dall’enunciatario all’enunciatore, la trama che la voce e/o lo sguardo determinano all’interno di uno spazio reale o rappresentato. The conversation di Francis F. Coppola manifesta efficacemente l’idea che la pertinenza sia in sostanza il punto di vista di qualcuno e che la verità si costituisca quasi a posteriori come se fosse l’effetto di una ricerca investigativa.

4. IL SENSO DELLE IMMAGINI

Dobbiamo considerare le immagini come segni,oggetti e interpretanti. Così come gli oggetti onirici hanno una deter-

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Se, in conclusione, ‘memoria’ ha l’etimo di ‘mente’ e ‘ri- cordo’ invece l’etimo di ‘cuore’ i due livelli della memo- ria che ne derivano non possono che porsi in alternanza o convergere per dimostrare che ragione e affetto, logica e sogno, agiscono nella memoria per produrre ricordi puntuali ma nello stesso tempo aperti narrativamente a una incessante ricostruzione.

Ecco ancora, a proposito, Proust nella “Matinée” dai

principi di Guermantes (in Il tempo ritrovato, trad.it Einau-

di, Torino 1978, p. 213): “La realtà da esprimere risiede, ora lo capivo, non nell’apparenza del soggetto, ma a una pro- fondità in cui tale apparenza conta ben poco, come lo sim- boleggiavano quel rumore di un cucchiaio contro il piatto, quella ruvidezza inamidata del tovagliolo, che mi erano stati più preziosi, ai fini del mio rinnovamento spirituale, di tante conversazioni umanitarie, patriottiche, internazionalistiche e metafisiche”.

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Sacks, O., Allucinazioni, trad.it. Adelphi, Milano 2013. tutto ciò che è piuttosto immateriale perché non interpreati-

vo. È ciò che in psicologia corrisponderebbe all’affettività. Quasi una magia non intenzionale.

5. UN ESEMPIO, PER FINIRE

Leonilda Prato (1875-1958), fotografa ambulante origina- ria di Pamparato, in provincia di Cuneo, si muove con il suo carro nella realtà contadina piemontese. Si tratta il più delle volte non di immagini “rubate” ma commissionate. Come un carrello cinematografico che si muove sulla scena, o come le foto diffuse sui social network, nello stesso modo viene catturata la realtà in base all’interesse di chi la cerca.

Prendiamo due fotografie. La prima è di interesse per la re- altà sociale, si tratta in effetti di una fotografia di backstage, che rivela il fondale utilizzato e una ragazzina (la figlioletta della fotografa?) che “spia” la scena. C’è un tavolino da posa su cui la donna soggetto della foto appoggia la mano destra, oggetto che richiama un’evocazione anche privata del pas- sato. Si intravede un muro sverniciato: se ricostruissimo la storia di tale fotografia potremmo ipotizzare, come cornice sociale, l’abitudine ormai radicata dell’italiano che preferi- sce apparire elegante, ma dietro il backstage, in sostanza, la sua casa crolla (è il caso di Reality di Matteo Garrone).

Se analizziamo le relazioni che il mondo della rappresen- tazione mette a nostra disposizione, possiamo interpretare anche una (microscopica) attitudine al divismo: la ragazzi- na, che si affaccia come in un quadro rinascimentale, guarda

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