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Sul tema vedi A Gibelli, Il popolo bambino Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò,

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come gli Stati Uniti9. Se, da un lato, il conflitto mondiale

è una sciagura per il nostro cinema, dall’altro esso arriva ad aiutare un progetto di conquista del pubblico borghese avviato prima dello scoppio della guerra.

Agli inizi del Novecento, il cinema è un medium popo- lare. I film li vedono quasi solo gli operai e gli impiegati di basso rango. Nel 1905, un avvocato o un medico di buona cultura, abituati a leggere Verga e Tolstoj, e recarsi a tea tro per La figlia di Iorio o il melodramma verdiano, ben difficil- mente avrebbero messo piede in un cinema. Innanzi tutto, perché le sale cinematografiche erano spazi angusti e male- odoranti, spazi malfamati che sorgevano nei quartieri popo- lari. E poi perché lo spettacolo offerto non era abbastanza sofisticato. Andare al cinema, nel 1905, significava vedere un programma di circa mezz’ora, composto da una serie di cortometraggi, in parte dal vero e in parte di finzione: una veduta delle piramidi, l’arrivo del tour de France, un film a trucchi di Méliès, un film comico pieno di gag ginniche, un passion play che sintetizza in pochi minuti la vita di Cristo, ecc. È solo negli anni Dieci, da un lato con l’introduzione del lungometraggio, ossia di una forma capace di offrire una complessità narrativa paragonabile a quella del roman- zo e del tea tro di prosa, e dall’altro con la costruzione di sale cinematografiche lussuose, nel centro città, simili alle sale tea trali, che la borghesia viene conquistata dalla settima arte. E ovviamente il problema non sta solo nel formato del testo o negli spazi della fruizione. È il contenuto dei film che deve accordarsi alla cultura e alla mentalità della borghesia di inizio Novecento. E il nazionalismo è parte essenziale del bagaglio culturale della borghesia italiana ed europea dell’epoca. Non è un caso che uno dei filoni principali del cinema italiano degli anni Dieci sia il peplum. Il nostro ci- nema mette in scena la romanità non solo perché interessa il pubblico, nazionale e straniero (nel 1913, il Quo Vadis? di Enrico Guazzoni negli Stati Uniti riporta un successo strepitoso), ma anche perché in questo modo dimostra di appartenere alla cultura patria.

In tale contesto, Cabiria, da cui siamo partiti, si rivela ancor di più un titolo cruciale, carico di valenze simboliche 9. Cfr. L.Midkiff DeBauche, Reel Patriotism: The Movies and World War I, Madison, The

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che vanno ben al di là delle intenzioni dell’Itala Film e di Pa- strone. A collaborare al film, infatti, viene chiamato niente meno che Gabriele D’Annunzio. È un operazione di marke- ting, un modo per attestare la natura artistica dei film. Nei fatti, l’apporto dello scrittore al prodotto finale fu piuttosto esiguo10, ma questo non importa. Cabiria viene presentato

quasi come se fosse un’opera di D’Annunzio. Nella primave- ra del 1914, il Vate è il geniale creatore di «una spettacolare film» (nell’italiano del tempo, il sostantivo film è femminile, in quanto sinonimo di pellicola); un anno dopo sarà uno dei principali animatori del movimento interventista. E uno dei primi passaggi dell’azione interventista di D’Annunzio è il discorso di Quarto, del 5 maggio 1915, per l’inaugura- zione del monumento a Garibaldi e ai Mille. Secondo una leggenda la cui fondatezza non è stata dimostrata, l’autore della statua, Eugenio Baroni, avrebbe usato come modello del suo Garibaldi – una figura massiccia, dalle mani enor- mi – un camallo di Genova, Bartolomeo Pagano, che era diventato un divo del cinema, perché era stato ingaggia- to dall’Itala Film per interpretare il ruolo di Maciste, lo schiavo dalla forza prodigiosa di Cabiria. Se è certamente improprio vedere in questo film un annuncio dell’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra (come ho detto, il debutto ha luogo nell’aprile del 1914, due mesi prima dell’attentato di Sarajevo), è innegabile che Cabiria, ambientato durante la seconda guerra punica (la guerra che consegna a Roma il controllo del Mediterraneo occidentale, di quella ‘quarta sponda’ che l’Italia era tornata a rivendicare con l’impresa libica), risenta dello spirito del nazionalismo bellicoso tipico della belle époque, uno spirito che aleggia in molto cinema italiano degli anni Dieci11.

Dunque, il cinema italiano si converte alla causa inter- ventista, un po’ per convinzione e un po’ per convenienza. Sotto la voce ‘convenienza’ rientra certo l’ambizione di ac- creditarsi quale medium ‘serio’ agli occhi dei ceti dirigenti, cui ho fatto riferimento, ma c’è anche una convenienza mol- 10. Si veda S. Alovisio, Cabiria cit., pp. 43-46.

11. Per una lettura di Cabiria alla luce del suo contesto storico, si veda G. De Luna, «Odimi, creatore vorace…». “Cabiria” nel secolo degli estremi, in S. Alovisio, A. Barbera (a cura di), Cabiria & Cabiria, Museo Nazionale del Cinema/Il Castoro, Torino – Milano 2006, pp. 70-78.

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to più immediata. Benché in Italia, al contrario di quanto avviene in Francia o in Germania, le classi popolari siano fondamentalmente contrarie alla guerra, tant’è che il Par- tito socialista italiano è l’unico dei grandi partiti operai del continente a mantenersi in buona misura fedele alla linea pacifista e anti-militarista dell’Internazionale, nel nostro pa- ese ci sono comunque milioni di persone favorevoli all’in- tervento, le quali anelano di ‘vedere la guerra’. Appena scoppia il conflitto, e ancora di più quando l’Italia vi entra, le case di produzione fanno a gara per arrivare in sala con delle immagini – di finzione e dal vero – che illustrino la lotta in atto. Che tipo di film sono? La risposta, come sem- pre quando si parla di cinema muto, non può che essere incerta, perché una parte consistente del patrimonio del cinema muto è andato perso (con il passaggio al sonoro, tra la fine degli anni Venti e i primi Trenta, i produttori non avevano più alcun interesse a preservare film ormai non più sfruttabili sul piano commerciale). Molti film non ci sono pervenuti, mentre altri sono sopravvissuti in forma mutila. Ma in ogni caso disponiamo di un certo numero di film e di una quantità notevole di fonti secondarie (gli articoli delle riviste di settore e della stampa quotidiana), e siamo in grado di farci un’idea ragionevolmente precisa.

Un adagio famoso dice che i generali si preparano sem- pre a combattere la guerra precedente. Questo fu certa- mente vero per la Prima guerra mondiale. Quando il con- flitto esplose, gli alti comandi di entrambi gli schieramenti si aspettavano uno scontro rapido, una campagna magari sanguinosa, ma di pochi mesi, se non di poche settimane, una guerra di manovra sul modello della guerra franco- prussiana del 1870, che avrebbe offerto un responso chiaro entro Natale12. Nessuno si aspettava lo stallo della guerra di

trincea. La novità della guerra industriale colse di sorpresa non solo i generali, ma anche i cineasti, i quali, in Italia co- me negli altri paesi, si ostinarono a osservare questa guerra novecentesca attraverso le lenti dell’Ottocento. Nel caso del 12. La bibliografia sulla Grande Guerra è sterminata e non vi è modo di darne conto in

questa sede, neppure in modo parziale. Per quanto riguarda la dimensione strettamente militare, mi limito a indicare un solo testo, un vero e proprio seminal book: J.Keegan,

Il volto della battaglia, trad. it., Mondadori, Milano 1978. Il capitolo dedicato alla batta- glia della Somme (pp. 217-306) offre un’analisi esemplare della natura industriale della Grande Guerra.

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cinema italiano, molti dei film in questione offrono una pro- spettiva ottocentesca anche sul piano del plot. A partire dal redivivo Nozze d’oro, di cui ho detto, e che non a caso viene abbinato a due ‘dal vero’ sulle nostre forze armate (L’esercito e Squadra italiana), le case di produzione sfruttano i temi risorgimentali come veicolo per agganciare la contempora- neità, ma persino un film sull’antichità, Attila (1918) di Febo Mari, viene pubblicizzato con qualche allusione agli «unni di oggi», ossia i tedeschi. Ci sono Il tamburino sardo e Addio, mia bella, addio, distribuiti entrambi, con tempismo perfetto, nel maggio del 1915. E c’è Amore e cospirazione (1912), che ha subito una sorte analoga a quella di Nozze d’oro: è stato bloccato per tre anni dalla censura. Ora che il film può fi- nalmente uscire, la casa di produzione, la torinese Pasquali, nella campagna promozionale si fa vanto del fatto che la pellicola fosse stata fermata per la sua natura anti-asburgica. Oppure si veda Guglielmo Oberdan, il martire di Trieste (1915) di Emilio Ghione, uno dei principali esponenti del cinema muto italiano. Il film, non esattamente un capolavoro, ha al centro un Guglielmo Oberdan invasato, pronto a immo- larsi dal primo minuto di proiezione. Quando il patriota italiano viene arrestato dalle autorità asburgiche e condan- nato all’impiccagione, il governatore di Trieste, interpretato dallo stesso Ghione, si dispiace enormemente per la con- danna, anche se il film non fa nulla per spiegare perché un funzionario austro-ungarico dovrebbe dolersi della morte di un reo confesso che ha complottato per assassinare l’im- peratore Francesco Giuseppe. Evidentemente, per Ghione, e forse anche per gli spettatori del 1915, la fondatezza della causa irredentista era talmente solida da non necessitare giustificazioni drammaturgiche di sorta.

Ma neppure quando affronta direttamente il tema della guerra in corso il cinema di fiction ottiene risultato entu- siasmanti. Film come Alla bajonetta! … (1915) di Eduardo Bencivenga o Vipere d’Austria, a morte! della romana Cines rivelano sin dal titolo la loro natura di opere effimere, re- alizzate in fretta e furia per intercettare la ‘moda’ del mo- mento, e per essere presto dimenticate. E a nulla valgono le ‘recensioni’ entusiastiche che possono apparire sui quo- tidiani. Uso le virgolette perché, all’epoca, i trafiletti che comparivano sulle pagine degli spettacoli dei giornali erano quasi sempre pubblicità camuffata, finanziata dagli esercen-

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ti o dai distributori. Infatti, la stragrande maggioranza di questi articoli ha toni entusiastici. Leggiamo, ad esempio, sulla «Gazzetta del Popolo» a proposito di Il sopravvissuto (1915), diretto da Augusto Genina:

Vi si vede svolgersi una vera, grande battaglia, con mo- vimenti di masse enormi, visioni vaste di trincee, assalti di reggimenti di bersaglieri, fughe di reggimenti di austriaci sotto la mitraglia, mentre un ponte sull’Isonzo salta per una mina, tagliando in due la torma dei fuggenti. Questo spettacolo è meraviglioso e saturo di patriottismo; perciò tutte le famiglie condurranno oggi i ragazzi al Salone Gher- si ad ammirarlo.13

Molto probabilmente il film non presentava scene così spet- tacolari. Non è vero neppure per i coevi kolossal americani, di cui la stampa italiana decuplica il numero delle comparse e ingigantisce l’impatto delle scene di battaglia. Ma il punto è un altro. Questo articolo dà conto in modo molto chiaro del fatto che la cultura dell’epoca – quella cinematografica come quella giornalistica – non sa, o non vuole, raccontare la realtà, stagnante e sanguinosa, della guerra di attrito. In questo articolo si menzionano certo le trincee, ma si parla anche di «assalti di reggimenti di bersaglieri» che mettono in rotta il nemico, come in un quadro a soggetto risorgi- mentale. Quella che si dipinge è una guerra di manovra, in cui le truppe avanzano e retrocedono come in una battaglia campale ottocentesca.

Non è solo il cinema italiano a offrire una rappresenta- zione anacronistica della guerra in corso. Ovunque, in Eu- ropa come in America, per raccontare la prima vera guer- ra industriale della storia, combattuta da eserciti di massa dotati di gas asfissianti e artiglierie dalla potenza devastate, una guerra moderna in cui il singolo – per usare le parole che, alcuni anni prima, Georg Simmel aveva impiegato per descrivere un’altra esperienza tipicamente moderna, la vita metropolitana – è ridotto a «un granello di sabbia di fronte a un’organizzazione immensa di cose e di forze che gli sot- traggono tutti i progressi»14, registi e produttori si affidano

13. «Gazzetta del Popolo», 2 marzo 1916, p. 5.