• Non ci sono risultati.

M Schino, Il tea tro di Eleonora Duse cit., p 338.

La grande trasformazione. Il teatro italiano fra il 1914 e il 1924 36

nel 1909 appena cinquantenne, nel 1921 decide il rientro. Le ragioni di tale decisione sono di natura eminentemente pratica. La guerra aveva travolto l’istituto bancario a cui aveva affidato tutti i suoi risparmi e il ritorno al tea tro le sembrò l’unica soluzione possibile ma come farlo? non si trattava certo di un rientro qualsiasi, la Duse era quasi più una leggenda che un’attrice, sia per chi l’aveva vista recitare sia, forse ancor di più, per chi non aveva avuto quell’op- portunità. Ma le leggende smaterializzano la persona che, adesso, doveva dotarsi nuovamente di un corpo e il tempo trascorso non aiutava certo questo delicato passaggio.

Le dinamiche che caratterizzarono il processo di pro- grammazione del ritorno al tea tro della Duse, la scelta che ella fece alla fine, le modalità del suo nuovo debutto e quan- to accadde di seguito fino alla morte nel 1924 fanno di questo episodio una vera cartina di tornasole in grado di evidenziare certo le contraddizioni della Duse come artista e come persona (che era un tratto distintivo del suo carattere) ma anche la contraddittorietà dell’epoca.

Quando, nel 1920, l’esigenza di tornare a farsi attrice diventò più pressante, Eleonora Duse avviò un vero e pro- prio giro di consultazioni. Era preoccupata dall’inevitabile confronto che sarebbe stato fatto con la sua prima sé, per cui era escluso che si potesse riprendere il discorso scenico lì dove lo si era lasciato. Oltretutto l’avanzare degli anni la rendeva poco idonea a riproporre i suoi cavalli di battaglia. Il tea tro che la circondava, inoltre, sia sul piano estetico che organizzativo, era diventato diverso da quello a cui lei era abituata, non ne conosceva bene le dinamiche ma sentiva l’esigenza che il suo rientro vi assumesse un senso che an- dasse al di là delle pure esigenze del mestiere.

La difficile gestazione fino alla data del 5 maggio del 1921, quando debuttò nuovamente, è stato ricostruito ana- liticamente da Mirella Schino, per cui ci si può limitare a sintetizzarne i tratti rimandando a quello studio per un quadro d’insieme più completo20. Quanto ne emerge è un

mix di tensione al nuovo e di timore di affrontarlo di pet- to. Non voleva limitarsi, questo le era chiaro, a tornare a formar compagnia, cercava un progetto che rispondesse, 20. M. Schino, Il tea tro di Eleonora Duse cit., pp. 299-344.

Tra una guerra e

una morte

Lorenzo Mango

37

questo almeno nelle sue aspirazioni, più alle esigenze del tea tro che la circondava che alle sue. “Non penso mica di rimetter su una compagnia raccogliticcia per girar l’Italia e l’estero, come una curiosità a chiamar gente intorno all’eco d’una voce tramontata. Voglio lavorare a un’impresa nuo- va, di questo vostro tempo; portare il mio mattone a un edificio nuovo”, così Silvio d’Amico ricostruisce una delle conversazioni che ebbe con l’attrice quando era un giova- ne funzionario ministeriale21. Si trattava di un’aspirazione

piuttosto vaga e astratta come evidenziato dallo stesso d’A- mico: «voleva costituire un ‘Teatro dei giovani’. Cosa poi questo dovesse essere non l’aveva in mente: spettava ai gio- vani formularlo»22. Marco Praga provò a venire incontro a

questa esigenza proponendole di metterle a disposizione la compagnia di Talli. Era una scommessa audace: la solista per eccellenza, nonostante tutte le sue buone intenzioni, e il più convinto propugnatore di una compagnia di complesso. Non ne fu convinta, così come non la convinse la proposta dello stesso d’Amico di “affidarla” a un giovane direttore, Cesare Dondini, che la liberasse dal peso del capocomicato, rendendola libera di recitare e basta e di farlo a contatto con quei “giovani” a cui voleva dedicarsi. Si trattava, in entram- bi i casi, di soluzioni che avrebbero avuto sicuramente una valenza sperimentale, facendo della Duse il perno attorno a cui rilanciare un’idea di “nuovo”, nella scena nazionale, che rispettasse però i confini istituzionali del sistema tea trale.

Quanto la Duse fosse ondivaga riguardo a questo suo rientro è attestato da un’altra idea, oltre a quella dei “giova- ni”: tornare a Ibsen, che era stato uno dei suoi autori d’ele- zione, ma di farlo in una maniera diversa, che ne esaltasse la poesia a discapito del realismo. Un Ibsen che le ricordava l’indimenticabile, ma unica e burrascosa, collaborazione con Gordon Craig, per il Rosmersholm del 190623. Anche una

simile scelta avrebbe avuto un esito destabilizzante nel siste- ma produttivo e culturale italiano ma se Ibsen fu l’autore 21. S. D’Amico, Tramonto del grande attore, La Casa Usher, Firenze 1985, p. 48 [ed. or.

1929].

22. Ibid.

23. «Lasciando intendere fin dai primi giorni, il suo desiderio di tornare al tea tro con

un dramma di Ibsen, pareva preoccupata del suo apparato scenico; e parlava di Gordon Craig», ivi, p. 44.

La grande trasformazione. Il teatro italiano fra il 1914 e il 1924 38

del rientro, le ascendenze craighiane restarono nel mondo privato dei suoi pensieri.

C’erano, insomma, attorno alla Duse un gran fermento e una grande fibrillazione. L’esito fu imprevisto, considerate le premesse, ma, conoscendo la Duse, anche altamente pre- vedibile. Tra i dialoghi che aveva intessuto ve n’era anche uno con un suo antico compagno di tea tro, Ermete Zacconi. C’entrava ben poco con tutti i suoi sogni e i suoi discorsi, ma la possibile collaborazione con Zacconi aveva i tratti di una solida impresa tea trale e la garanzia rassicurante di avere a che fare con un mondo che conosceva bene. Fu la scelta che fece, lasciando molti probabilmente delusi e il suo finì con l’essere il rientro della Duse, non un evento che poteva avere un carattere sperimentale e, forse, destabilizzante. Il 5 maggio 1921 debuttò a Torino con La donna del mare di Ibsen, il testo con cui aveva salutato il suo pubblico più di dieci anni prima e che avrebbe tanto voluto, ai tempi di Ro- smersholm, realizzare con Craig. Pur senza essere per niente rivoluzionario, in quel debutto la Duse introdusse quel tan- to di irrituale che, in forma e modi diversi a seconda delle sue diverse stagioni, aveva sempre manifestato. Comparve in scena, infatti, nei panni della giovane Ellida, senza trucco e coi suoi capelli bianchi. La verosimiglianza lasciava il cam- po alla tensione lirica del personaggio che era vero perché l’attrice ne incarnava quella che lei stessa definiva la poesia. Ricordando quel momento d’Amico, con una certa enfasi retorica e l’intenzione di rimarcare la spiritualità, in un’ac- cezione cristiana, dell’attrice, scrive: «Ci fu più che agevole, naturale, accettare invece della giovane ondina dai capelli fragranti di salsedine un Donna del mare dai capelli bianchi: perché in lei non s’avvertì che quella voce, e il suo dramma tutto spirituale»24.

Per quella strana alchimia delle date che stiamo inse- guendo fin dall’inizio del nostro discorso, il 1921 si presenta come l’anno in cui si incrociano tanti destini diversi del tea- tro italiano, ponendosi come una sorta di soglia tra il dopo- guerra e gli anni venti. Nel caso della Duse esso evidenzia con particolare efficacia la contraddizione del momento: apertura al nuovo e ritrosia, inventare un diverso modello 24. Ivi, p. 40.

Tra una guerra e

una morte

Lorenzo Mango

39

produttivo e adagiarsi nelle abitudini consolidate. Subito dopo il debutto con Zacconi, la Duse mise su compagnia da sola e tornò a farsi capocomica. Si ritrovò così, per ragioni economiche ma forse perché non sapeva fare altrimenti, a vivere la vita errabonda delle compagnie di giro. I capelli bianchi di Ellida rimasero un’eccezione dentro una regola che riproduceva antichi modelli. La Duse muore nel 1924 a Pittsburgh, durante l’acclamata tournée americana in cui aveva rappresentato, al di là delle sue stesse intenzioni, so- prattutto se stessa. Il mestiere aveva avuto la meglio su ogni possibile prospettiva d’innovazione. Morire in tournée as- sume una valenza simbolica, per la vicenda personale della Duse certo, ma per l’intero tea tro italiano, il cui sistema pro- duttivo e artistico non riuscì a compiere quel salto di qualità di cui si sentiva l’esigenza ma che rimase, come avrebbe confermato di lì a poco il Teatro d’Arte, inespresso.

Così, mentre il 1921 era stato, per la Duse e per il tea- tro italiano in generale, l’anno che sembrava schiudere le porte di un nuovo mondo, il 1924, al contrario, fu un mi- sto di tramonto e transizione. D’altronde il 1924 è anno di chiusura e di transizione anche sul piano politico. Mussolini vince le elezioni, Matteotti denuncia brogli e soprusi e il 10 giugno viene rapito e ucciso da una squadra fascista. Dopo qualche mese di esitazione, in cui aveva finto di voler ve- nire a capo di un delitto di cui era, viceversa, il mandante (perlomeno morale) il 3 gennaio del 1925 Mussolini se ne assunse a pieno titolo la responsabilità. È l’anno della svolta da un sistema ancora parlamentare a uno dichiaratamente autoritario e dittatoriale. Il decennio post-bellico si conclu- de così. L’Italia della politica e del tea tro era destinata ne- gli anni successivi a diventare un’altra e l’intreccio stretto tra innovazione e conservazione lasciò spazio soprattutto a quest’ultima.

La grande trasformazione. Il teatro italiano fra il 1914 e il 1924 40 Il cinema italiano e la Grande Guerra Giaime Alonge

Il 18 aprile del 1914, in un’Europa ancora in pace, si svolge la prima proiezione pubblica di Cabiria, con una doppia première al Teatro Vittorio Emanuele di Torino e al Tea- tro Lirico di Milano. Il film, prodotto dalla torinese Itala Film e diretto da Giovanni Pastrone, è un grande successo di pubblico, in patria come all’estero. Per molti versi, Ca- biria rappresenta il vertice di quel processo di ascesa sul mercato internazionale da parte delle case di produzione italiane – torinesi e romane innanzi tutto, ma anche mila- nesi e napoletane – che aveva segnato gli anni precedenti. Eppure, nonostante il buon esito al botteghino, i costi di realizzazione di Cabiria sono troppo elevati, e da lì in avanti Pastrone e l’Italia Film dovranno accontentarsi di proget- ti più modesti1. È il segno di una più generale debolezza

dell’industria cinematografica italiana, e in particolare di quella torinese, di fronte ai concorrenti stranieri. Nel giro di un lustro, quella che fino al 1914 era stata una delle ci- nematografie più forti e innovative del panorama mondiale 1. Cfr. S. Alovisio, Cabiria (Giovanni Pastrone, 1914). Lo spettacolo della storia, Mimesis,

Il cinema italiano e la

Grande Guerra

Giaime Alonge

41

diviene totalmente marginale, e il nostro mercato finisce colonizzato dai film stranieri2.

In questa crisi, che alla fine degli anni Venti vedrà la quasi estinzione della nostra industria cinematografica, con appena nove lungometraggi prodotti nel 1929 (contro i 196 americani distribuiti nelle nostre sale), la guerra che scoppia nell’estate del 1914 gioca un ruolo di primissimo piano. Il nostro cinema, infatti, dipendeva in modo signi- ficativo delle esportazioni. Nel momento in cui deflagra il conflitto e il sistema di scambi commerciali internazionali collassa, gli effetti negativi sul nostro cinema si manifestano quasi subito. Basti pensare che le case italiane non pro- ducevano la pellicola con cui realizzavano i loro film, ma la compravano in Germania. Dopo il maggio del 1915, le nostre società sono costrette a rivolgersi agli americani (per quanto, tecnicamente, il Regno d’Italia consegni formale dichiarazione di guerra all’Impero tedesco solo nell’ago- sto del 1916), e le compagnie statunitensi, spietatamente, chiedono un prezzo molto più alto di quello che si pagava fino all’avvio delle ostilità. Non per niente, nei primi mesi del conflitto, quando l’Italia ancora non è coinvolta, l’indu- stria del cinema, almeno a giudicare dal tenore degli articoli ‘politici’ che escono sulle riviste di settore, si colloca su po- sizioni neutraliste. Queste testate sono fondamentalmente filo-governative: hanno salutato con entusiasmo l’impresa libica e, come vedremo tra breve, nel corso del ‘maggio ra- dioso’ si convertiranno rapidamente all’interventismo. Però la stampa cinematografica italiana sulle prime è pacifista anche perché teme, giustamente, la nefasta ricaduta econo- mica delle ostilità. Nell’agosto del 1914, sulle colonne di «La vita cinematografica», compare un ampio articolo del prof. Arnaldo Monti, il quale analizza dettagliatamente le cause della lotta in corso tra le potenze europee. Monti giustifica la spedizione in Libia del 1911, perché volta a «soggiogare un popolo di civiltà disuguale», ma condanna il presente conflitto in quanto privo di «ogni motivo di carattere essen- zialmente ideale, come, ad esempio, l’amore alla libertà, la viva aspirazione alla indipendenza, il nobile fine di scuotere 2. Sul cinema muto italiano vedi S. Alovisio, G. Carluccio (a cura di), Introduzione al cinema muto italiano, Utet Libreria, Torino 2014.

La grande trasformazione. Il teatro italiano fra il 1914 e il 1924 42

un dominio di barbari»3. Secondo Monti, il risultato finale

sarà un grave danno all’economia del Vecchio Continente, compreso il settore cinematografico: «La guerra – bisogna confessarlo ed ammetterlo – anche per i cinematografi si risolve in un vero e proprio disastro»4.

Con l’ingresso in guerra dell’Italia, l’atteggiamento delle riviste, così come quello delle case di produzione e degli esercenti, muta in maniera rapidissima, e il conflitto, da pericoloso disastro diviene una sacra missione. Su un nu- mero di «La vita cinematografica» del luglio 1915 trovia- mo, a distanza di poche pagine, le pubblicità di due film interpretati dalla stessa attrice, Francesca Bertini, una delle maggiori star dell’epoca. L’accostamento delle due imma- gini offre in modo perfetto il senso della subitaneità dello scatto patriottico dell’industria cinematografica italiana. A pagina 4 la Bertini, star di Ivonne, «la bella della “danse brutale”», è ancora la diva torbida e seducente dell’epoca prebellica, ma a pagina 6 ecco che compare in divisa da bersagliere, con in pugno il tricolore, in Viva l’Italia5. Ma

già prima della dichiarazione di guerra, durante il ‘maggio radioso’, e nei mesi che lo precedono, settori dell’industria cinematografica partecipano alla mobilitazione interven- tista, per certi versi con l’incoraggiamento dalle autorità. Un passaggio sintomatico, nel gennaio del 1915, è l’uscita di Nozze d’oro, film a soggetto risorgimentale che era stato diretto nel 1911 da Luigi Maggi, e presentato con grande successo all’Esposizione di Torino, ma che successivamente la censura aveva bloccato perché all’epoca l’Italia era alleata dell’Austria, di cui non si voleva urtare la sensibilità6. In un

contesto politico completamente mutato, in cui l’Italia ha abbandonato la Triplice alleanza, la pellicola risulta utile e viene fatta uscire in sala. «Il Giornale», quotidiano torinese, sottolinea che il film mostra italiani e francesi battersi fianco a fianco (una sequenza mette in scena la battaglia di Palestro 3. A. Monti, La guerra e il cinematografo, «La vita cinematografica», nn. 30-31, 15-22

agosto 1914, p. 35.

4. Ivi, p. 39.

5. Cfr. «La vita cinematografica», nn. 26-27, 22-31 luglio 1915, pp. 4, 6.

6. Sulla censura di Nozze d’oro e altri casi analoghi, cfr. S. Raffaelli, Pellicole censurate per rispetto della Triplice Alleanza, «Storia e problemi contemporanei», n. 23, a. XII, 1999, pp. 53-66.

Il cinema italiano e la

Grande Guerra

Giaime Alonge

43

del 1859, dove le forze piemontesi furono affiancate dagli zuavi di Napoleone III)7. Al cinema Ambrosio di Torino,

Nozze d’oro viene inserito in un programma schiettamen- te interventista. Apre un film ‘dal vero’ (è il modo in cui, all’epoca, si definiscono quelli che oggi chiamiamo i film di non fiction) sulle esequie di un giornalista repubblicano, vo- lontario nella Legione garibaldina, caduto sul fronte delle Argonne: I funerali del tenente garibaldino Lamberto Duranti ad Ancona. Segue il lungometraggio francese La Marsigliese. Al termine della proiezione, a tutti i bambini viene fatto dono di una trombetta con i nastrini italiano e francese. Il paese è ancora in pace, ma la militarizzazione dell’infanzia, tipica della ‘guerra totale’, è già partita8. A fine marzo, in un altro

cinema di Torino, il Borsa, si abbinano Il tamburino sardo e il ‘dal vero’ La flotta anglo-francese all’assalto dei Dardanelli, una produzione presumibilmente francese o britannica. Due mesi dopo – siamo già nel ‘maggio radioso’ – all’Am- brosio parla un deputato belga, in tour nelle città italiane per promuovere la causa interventista.

Perché questo cambio di rotta? Le ragioni sono molte- plici. Innanzi tutto, si può supporre che i produttori ci- nematografici, così come i politici interventisti e i generali italiani, si aspettassero una guerra relativamente breve e vittoriosa (tutti, in Europa, si aspettavano una guerra bre- ve e vittoriosa). In secondo luogo, i dirigenti delle case di produzione, così come i proprietari delle sale, i direttori e i giornalisti delle riviste, erano buoni borghesi per i quali l’amor di patria rappresentava un principio di vita. Anche coloro che nelle settimane precedenti il 24 maggio 1915 avevano avversato l’intervento, in privato se non addirit- tura in pubblico, nel momento in cui la nazione entra in guerra ritengono loro dovere aderire alla causa. Inoltre, sostenere la nazione in armi per l’industria cinematografica rappresenta anche una preziosa occasione per accreditarsi quale forma di intrattenimento ‘elevata’ di fronte all’esta- blishment politico-culturale, fino a quel momento in buona parte sospettoso verso la novità rappresentata dal cinema- tografo. È un fenomeno che si verifica anche in altri paesi, 7. Cfr. «Il Giornale – Gazzetta di Torino», 14 gennaio 1915, p. 1.