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F T Marinetti, Dopo il tea tro sintetico e il tea tro a sorpresa, noi inventiamo il tea tro antip sicologico astratto di puri elementi e il tea tro tattile , in P Fossati, La realtà attrezzata Scena e

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un’affermazione tesa a dimostrare come il Futurismo abbia fornito una grammatica espressiva a tutto il tea tro italiano moderno, che Futurismo e modernità, in altri termini, coin- cidono, che la cultura italiana moderna è diventata, anche senza raggiungere la purezza del suo movimento, futurista.

È evidente come si tratti di una forzatura che esprime l’aspirazione di Marinetti di fare del Futurismo una sorta di arte di stato; aspirazione bruscamente contraddetta dai fatti perché un’arte di stato fascista ci fu ma, se si esclude l’architettura, non fu certo modernista quanto monumen- tale e celebrativa. La fattispecie dell’esempio pirandellia- no merita, però, una considerazione a parte. Analizzando i meccanismi costruttivi di Questa sera si recita a soggetto – in particolare la relazione palcoscenico-sala e attori-spettatori lì dove si rompe la linea di demarcazione che distingue i due universi – e riferendosi anche alla stesura del 1933 di Ciascuno a suo modo, in cui era indicato che l’azione dovesse iniziare già dalla strada, Claudio Vicentini mette in risalto come essi si comprendano se li leggiamo in relazione alle pratiche decostruttive delle avanguardie e a quelle futu- riste in particolare. Specifica, però, un dato importante: tutto quanto sembra infrangere la cornice preordinata della scrittura drammatica in realtà è fissato nella scrittura stessa. Analogamente in Ciascuno a suo modo, già nella versione ori- ginale del 1924, tutto quanto finge lo spazio reale del tea tro si concentra all’interno del palcoscenico. «Si trattava – ne deduce – di un itinerario esattamente contrario a quello proposto dai futuristi. Un itinerario che, riconducendo l’a- zione dagli spazi del mondo quotidiano al mondo magico della scena, proclamava inequivocabilmente la fine delle possibilità tea trali aperte dall’avanguardia»11. Il riferimento

a pratiche sceniche che venivano dal Futurismo non attesta tanto un’assimilazione passiva degli assunti marinettiani da parte di Pirandello, quanto una metabolizzazione che ne stempera la carica eversiva, al punto che Vicentini intitola il capitolo del suo libro dedicato a questo tema: Eutanasia dell’avanguardia».

Da quanto detto emerge un fattore interessante. L’avan- guardia non è un corpo estraneo nel tea tro italiano ma si 11. C. Vicentini, Pirandello. Il disagio del tea tro, Marsilio, Venezia 1993, p. 151.

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ibrida con pratiche sceniche che le sono concettualmente estranee, determinando un tessuto composito e contrad- dittorio per definire il quale possiamo utilizzare l’aggettivo: moderno. La modernizzazione della scena italiana è il ri- sultato di questa contaminazione i cui termini cronologici, singolarmente, toccano da vicino l’arco temporale su cui stiamo ragionando. Tanto i manifesti di consacrazione del Futurismo, tanto il testo pirandelliano che avvia «l’eutana- sia dell’avanguardia» sono del 1924. In quell’anno sembra chiudersi un ciclo, per quanto in una maniera che dob- biamo assumere secondo una modalità non dogmatica. Le date sono utili se le utilizziamo come strumenti di orienta- mento, diversamente finiscono per trasformarsi in gabbie che deformano l’interpretazione storiografica. Col 1924 non si conclude l’esperienza tea trale futurista, basti pensa- re al Teatro della Pantomima futurista di Prampolini che è del 1927 o al premio che lo stesso autore riceve per il suo progetto di un Teatro Magnetico, un edificio in cui l’atto spettacolare era compiuto in prima persona dallo spettato- re, invitato a percorrere un itinerario in cui avrebbe fatto esperienze sensoriali diverse, ribaltando completamente in una maniera rivoluzionaria la nozione di spettacolo. Rappresenta, però, una linea di cesura sul piano teorico e, soprattutto, su quello di un’estetica condivisa di gruppo legata alla leadership marinettiana. Sempre più si avranno, in quegli anni, esperienze di tea tro futurista legate a scelte e pratiche individuali. Si pensi, ancora, per restare al 1924, ad Aniccham 3000 di Fortunato Depero, una delle punte più alte della spettacolarità e della coreografia legata alla poetica macchinista.

Il cerchio della Storia che collega 1914 e 1924 non è peculiare solo del Futurismo. Al suo interno si delineano i percorsi del tea tro italiano anche su altri piani in una dialet- tica che lega innovazione, trasformazione e convenzione. Il primo a esserne coinvolto è proprio Pirandello. Dopo pochi e poco felici tentativi fatti prima della guerra, è tra il 1915 e il 1916 che Pirandello si rivolge in maniera non solo più sistematica ma particolarmente intensa al tea tro. È quasi cinquantenne e il tea tro lo aveva affrontato su di un piano teorico, nel 1908, con Illustratori, attori, traduttori in cui ne negava i presupposti artistici. Che il romanziere di successo si trasformasse in drammaturgo non era, dunque, scontato.

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L’incontro con Angelo Musco fu sicuramente determinante ma altrettanto, se non più, lo fu lo scoppio della guerra. «L’atmosfera traumatica, elettrizzante della guerra scompi- glia i procedimenti consueti dello scrittore e li trasforma» scrive Vicentini12, che specifica come la parola scritta appaia

a Pirandello ingabbiata in un’inerzia che la spinge a forzare la pagina e a tradursi in voce e azione. La dynamis simbolica della guerra interviene, dunque, anche in Pirandello, anche se in termini diversi da come era successo a Marinetti, come spinta verso la dimensione drammatica. Se il 1915-16 sono gli anni del “tea tro sintetico” e della “declamazione sinotti- ca” lo sono anche di Pensaci, Giacuminu! e di ’A birritta cu ’i ciancineddi. Pirandello è, a tutti gli effetti, un autore tea trale e anzi diventa questa la sua attività principale. L’intervallo che lo separa dagli anni venti lo vede maturare una tea- tralità in cui il modello borghese si contamina di elementi illogici, paradossali, contraddittori. Si intreccia, in questa stagione, con gli autori del “grottesco”, Chiarelli e Antonelli in testa, determinando una svolta innovativa nelle pratiche di scrittura del tea tro italiano.

Ma è proprio l’inizio del nuovo decennio a segnare una svolta: nel 1921 la compagnia di Dario Niccodemi mette in scena Sei personaggi in cerca d’autore, che segna una svolta nella parabola artistica pirandelliana facendone l’autore di riferimento per il tea tro europeo. La data è casuale ma, ragionando, come stiamo facendo, in termini di scansione del tempo va a sovrapporsi in una maniera strategica (dal punto di vista storiografico) con quella del Tattilismo e del Te- atro della sorpresa e, ancor di più, col tentativo di trasformare gli esperimenti futuristi in un’attività scenica continua. Se lo interroghiamo, allora, il 1921, ci parla di un nuovo ini- zio all’interno del processo di innovazione e trasformazione del tea tro italiano, ponendosi come fondamentale termine medio tra il 1914 e il 1924.

Chiudiamo il “cerchio del tempo” pirandelliano prima di cercare altrove altre possibili tracce dietro e dentro le date che stiamo investigando. Cosa significa il 1924 per Piran- dello e significa qualcosa? La stesura di Ciascuno a suo modo, con le sue contaminazioni, ben celate, con le avanguardie 12. Ivi, p. 56.

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non fa assumere a quella data un significato rilevante nel percorso pirandelliano ma se consideriamo altri aspetti le cose cambiano. Dopo la complessa gestazione di un anno, l’ipotesi originaria della Compagnia dei dodici, lanciata da Stefano Landi (il figlio di Pirandello) e da un gruppo di giovani scrittori, assume nel 1924 una nuova configurazio- ne: diventa il Teatro d’Arte la cui direzione viene proposta a Pirandello. L’offerta della direzione nasceva dall’idea di aumentare la caratura di un progetto che stentava a decol- lare, viceversa Pirandello l’assunse in pieno dedicandovisi a tempo pieno e facendone una vero e proprio laboratorio sulla messa in scena, il luogo dove sperimentare qualcosa che assomigliasse, come ebbe modo di dire ai giornali fran- cesi durante una tournée in quel paese, alla regia europea. Il debutto si ebbe il 2 aprile 1925 con la Sagra del Signore della nave, ma il 1924 è l’anno di gestazione del progetto, a cominciare dal restauro del Teatro Odescalchi ad opera di Virgilio Marchi. Si tratta, dunque, di un momento cruciale nella carriera artistica di Pirandello che, d’altronde, pro- prio nel 1923 e nel 1924 aveva sperimentato cosa la regia potesse su di un testo assistendo a due edizioni europee dei Sei personaggi: quella di Georges Pitöeff a Parigi e quella di Max Reinhardt a Berlino. Farsi regista, anche se a quella data il termine è improprio perché non esisteva ancora in Italia neanche la parola, significava per l’uomo che aveva dichiarato il tea tro un’arte impossibile, cimentarsi con la sua concreta materialità scenica. Fu un progetto su cui Piran- dello investì molto sul piano intellettuale, il cui fallimento, dopo soli tre anni diventati sempre più faticosi e di cui solo il primo corrisponde a quello che aveva in mente, ne segnò profondamente l’attività futura a cominciare dalla “fuga” in Germania.

Ancora una volta la data più “anonima” di questo decen- nio “slittato” ci consente di aprire il nostro sguardo verso aspetti diversi dei processi di trasformazione in corso nel tea tro italiano, che appaiono, a quella data, instabili e fati- cosi. Siamo nel pieno di una fase di transizione in cui novità e convenzione interagiscono, o forse dovremmo dir meglio, interferiscono tra loro.

L’anomalo decennio di cui stiamo trattando riguarda anche il complesso del sistema produttivo italiano. La Pri- ma Guerra Mondiale segna uno spartiacque netto che in-

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cide pesantemente sul capocomicato e sulla centralità della compagnia che, pur restando apparentemente al centro del modello tea trale italiano, si stava trasformando, come indica con puntualità e anche un certo, opportuno, tono drastico Mirella Schino, in «un guscio quasi completamen- te svuotato»13. All’analisi di questa stagione la Schino ha

dedicato, oltre all’importante capitolo all’interno del suo libro sulla Duse, una serie di interventi alla cui base c’è l’intenzione di dimostrare la complessità di una fase storica che fu di passaggio, nel senso che fu caratterizzata dalla crisi di un sistema e dal fermento che ne seguì, in cui si gio- cavano elementi di natura estetico-teorica e altri di natura gestionale produttiva14. «Il tea tro d’attore italiano – scrive

in uno di essi ribadendo e specificando la tesi appena espo- sta – funzionava ancora benissimo come spettacolo», era come sistema, viceversa, che era entrato in crisi15. La crisi

era determinata da fattori diversi. Indiscutibilmente uno di enorme rilevanza fu l’esaurirsi, vorrei dire quasi fisiolo- gico, di una generazione. Un secondo fu la conflittualità di natura economica tra scritturati e capocomici che creò le condizioni per la nascita di associazioni di natura sindacale, dapprima la Lega degli artisti drammatici a cui seguì la Cor- porazione nazionale del tea tro, dall’impronta fascista. Un terzo elemento fu il dibattito sull’intervento dello Stato nella gestione e nel finanziamento del tea tro che recuperava, per molti versi, la questione delle “stabili” che era emersa nei primi anni del secolo non riuscendo a trovare un suo esito compiuto. Un tentativo con cui si era confrontato, in modo fallimentare, Edoardo Boutet che viene ripreso soprattutto dal critico emergente degli anni venti, Silvio d’Amico. Ci fu, infine, quella che potremmo definire la battaglia del reper- torio, nel senso che la neonata Società Italiana degli Autori, guidata da Marco Praga, cercò di contrastare il dominio di Adolfo Re Riccardi, detentore dei diritti sulla drammatur- gia francese che rappresentava il corpus più consistente 13. M. Schino, Il tea tro di Eleonora Duse, Il Mulino, Bologna 1992, p. 326.