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37giosa nell’affermare una politica di sviluppo e non di soli vincoli Si pre-

sentarono in molti e fecero quasi il loro debutto europeo giovani esor- dienti come Kazuyo Sejima (appena associata nel 1996 nello studio SA- NAA) o giovani ancora poco conosciuti come l’inglese David Chipper- field. Furono premiati i progetti di Sejima, Las Casa e Monestiroli: ma il programma risultava ancora troppo vago e prematuro perché ci fosse qualche effettiva possibilità di realizzazione. Fu tuttavia utile per creare intorno alla città campana e al suo insolito sindaco, Vincenzo De Luca, un’aura d’attenzione : e per la prima vota nella sua storia postunitaria, Sa- lerno bucò le pagine delle riviste d’architettura più titolate, da “Casabel- la” a “Domus”, suscitando anche l’interesse e le speranze di quanti co- minciavano a credere che anche in Italia si potesse varare una politica dei concorsi capace di aprire opportunità a nuove leve di progettisti. Spe- ranze subito rinfocolate dal secondo concorso del 1998 per la costru- zione della nuova Cittadella della Giustizia nella seconda area strategi- ca indicata da Boghigas; la dorsale interna del Lungo Irno, sull’asse nord- sud che collega la città moderna con il suo entroterra agricolo. Lungo quest’asse infatti il piano precedeva la realizzazione di un parco lineare nel tentativo (che sembrava allora disperato) di ristabilire il contatto con il fiume Irno, presenza storica di Salerno ridotto al rango di una discari- ca sul retro dell’urbanizzazione senza qualità. Così un caso apparente- mente disperato, come quello del tunnel viario lungo l’alveo del fiume Ir- no, poteva trovare un principio di riscatto nella previsione di una sua tra- sformazione in boulevard, attrezzato al traffico pedonale e valorizzato da un’importante opera, il nuovo Palazzo di Giustizia in sostituzione della mo- numentale ma inadeguata struttura nel centro storico. Il concorso - come si diceva - seguiva a ruota quello del 1998 per il riuso dei cosiddetti “edi- fici-mondo”, cioè i grandi contenitori storici abbandonati, vinto a sorpre- sa da una quasi debuttante Sejima. Diversamente da questo però, il concorso per la sede del Tribunale partiva da un programma più chiaro ed urgente, che avrebbe dovuto garantirne la realizzazione con fondi in- teramente pubblici. Ma soprattutto c’era una grande aspettativa davanti alla risposta dei dieci architetti selezionati dalla giuria del concorso: qua- le visione sarebbe uscita fuori dai loro progetti? Nel 1999 lo spettro di Tangentopoli condizionava ancora con il suo lugubre sapore di catene la rappresentazione collettiva dell’immagine della Legge. L’arcigna mole di pietra del Palazzo di Piacentini a Milano - scenario fisso dei telegiornali della sera - era diventata per molti l’essenza stessa di un Potere che sor- reggeva la bilancia del Giudizio sul palco di una ghigliottina più che in un’agorà dei cittadini: terribile e temibile, il Tribunale sanava antichi torti e placava sopiti rancori, ma suscitava anche l’oscuro timore del singolo sottoposto all’implacabilità della legge. questa concezione onnipotente della Legge come occhio che scruta l’interiorità del singolo alla ricerca del crimine era ancora proponibile o doveva essere sostituita da una pro- spettiva di riconciliazione che insistesse soprattutto sul valore civico (quin- di urbano e civile) del Tribunale? Dominique Perrault aveva provato ad aggirare il quesito proponendo una torre a gradoni interamente ricoper- ta da un’elegante pelle di vetro serigrafato: l’effetto vagamente optical

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conferiva una seducente allure a una sagoma che invitava a riflettere sulla metafora del palazzo trasparente, ma non rinunciava a una monu- mentalità non certo a proprio agio nel contesto dello skyline salernitano. Con brillante invenzione Enric Miralles aveva ribaltato la questione: per- ché il Palazzo non poteva essere il nido della democrazia? Un groviglio di fasci filiformi componeva un luogo, che quasi si scioglieva al suolo di- ventandone parte integrante. Aveva però bisogno di essere costruito in- tegralmente in una sola fase per funzionare e questo era un ostacolo non da poco alla sua praticabilità. Terzo progetto a imporsi all’attenzio- ne, quello del giovane David Chipperfield offriva la quadratura del cerchio con uno schema tanto apparentemente semplice quanto indubitabilmente efficace: coniugando l’etimologia inglese del termine “low courts” con la tradizione mediterranea del patio e della corte, la sua proposta offriva un’interpretazione letterale del concetto di “cittadella giudiziaria” come rappresentazione di una città in muratura. Se il fianco lungo il fiume da- va forza all’asse del previsto boulevard, l’angolo d’ingresso potenziava la sinergia delle vicine arterie stradali nel nodo di una piazza accessibile da una breve scalinata. Con lo scopo di rinforzare l’idea di una struttura aperta in termini sia fisici che sociali, il progetto concretizzava uno spa- zio pubblico rispondente al clima del luogo, collegando ognuno dei diversi edifici con una serie di giardini e di colonnati e ricorrendo un rivestimen- to di pannelli, originariamente previsti in cotto , improntati a una delicata palette di colori che conferiva energia al ritmo dei blocchi di diversa al- tezza e lunghezza e scomponeva lo skyline nello schermo di un delica- to mix di pixel cromatici. Dal 1999 purtroppo il progetto si è protratto nel- le lungaggini di un cantiere ostacolato - come sovente in Italia - da una gestione politica assai travagliata: nondimeno il suo valore seminale è di- mostrato dalla gemmazione di numerose varianti e soprattutto nell’ana- logo Palazzo di Barcellona (2002-2009). La semplicità dello schema, che giustappone volumi isolati in una maglia fatta di corti e piazze inter- ne, è il segreto della sua efficace chiarezza: una maniera di ripensare il concetto di monumento alla luce della cultura contemporanea e di riaf- fermare il valore civico delle opere d’interesse collettivo. A Barcellona la diversità del sito - un’area al confine tra Barcellona e hospitalet occupa- ta precedentemente da capannoni dell’esercito - paradossalmente ve- rifica la giustezza del metodo con la diversità della sua applicazione. No- ve blocchi edilizi sono progettati come semplici blocchi prismatici con facciate in calcestruzzo colorato di differenti tonalità: quattro sono colle- gati tra loro da un corpo continuo di quattro piani e si aprono a ventaglio su una piazza pubblica orientata lungo l’asse della Gran Via, la principale arteria d’accesso alla città. A Salerno la composizione lineare assecon- da la lettura del tessuto urbano lungo il fiume e l’asse di scorrimento; a Barcellona l’area vagamente triangolare pone in primo piano lo spazio pubblico d’accesso, offrendo una pausa pedonale rispetto al traffico del- la Gran Via, e arretra gli edifici sul fondo in una disposizione che non for- ma un fronte unico, ma amplia le prospettive per dissimulare l’intensità del programma edilizio. Anche non-finito, l’intervento di Chipperfield rivela appieno tutte le sue potenzialità: l’apertura dell’ultima barriera del nuovo

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