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Giuramento e moltitudine

Capitolo secondo

3. Habemus papam: la parola efficace ogg

3.7 Giuramento e moltitudine

La nostra indagine sul giuramento ci porta, dunque, ad elaborare alcune ipotesi sulle istituzioni, ponendo al centro dell’attenzione l’idea secondo cui l’unica istituzione possibile a reggere la performatività del nostro linguaggio verbale non sia solo quella liturgica ma anche quella laica.

La constatazione dalla quale la ricerca è partita è che l’istituto del giuramento è stato di fatto interpretato, come in Esiodo, attraverso un rimando alla sfera magico- religiosa, a un potere divino o a delle “forze religiose” che intervengono a garantire l’efficacia punendo lo spergiuro. Agamben ha, invece, costantemente spiegato in modo più o meno esplicito l’istituto del giuramento non attraverso la sfera magico-religiosa piuttosto attraverso il giuramento inteso come «originaria esperienza performativa della parola, che può spiegare la religione (e il diritto che è con questa strettamente connesso)408» in quanto preesisterebbe logicamente ad essa e situandolo

archeologicamente nella sua relazione all’antropogenesi409: «Nel corso della nostra ricerca, abbiamo più volte guardato al giuramento come alla testimonianza storica dell’esperienza di linguaggio in cui l’uomo si è costituito come essere parlante410

».

408 Agamben, 2008, cit. p. 89. 409

Ricordiamo che nei termini di Virno/Agamben l’antropogenesi è un processo non concluso, sempre attuale perché soggetto a regressioni e ricominciamenti che contraddistingue l’homo sapiens. Si tratta cioè di un risultato instabile e reversibile.

197 Il giuramento, così definito, viene a svolgere nel pensiero di Agamben una funzione assolutamente centrale non solo sul piano teologico, in quanto definisce Dio e il suo logos, ma anche su quello antropologico, perché mette in relazione il linguaggio umano col paradigma del linguaggio divino411. Considerata in questa prospettiva, l’argomentazione utilizzata da Agamben per spiegare il potere performativo del giuramento non è semplicemente teologica ma onto-teo-logica, intendendo per ontoteologia «una prestazione performativa del linguaggio [...] solidale con una certa esperienza della lingua (quella che è in questione nel giuramento), nel senso che la sua validità e il suo declino coincidono col valere e col declinare di questa esperienza412». Nel passo successivo Agamben spiega che «se il giuramento declina, se il nome di Dio si ritrae dalla lingua – e questo è ciò che è avvenuto a partire dall’evento che è stato chiamato la “morte di Dio” o, come si dovrebbe dire più esattamente, “del nome di Dio” –, allora anche la metafisica [ossia, la scienza che coincide con l’esperienza dell’evento di linguaggio cui l’uomo si è votato nel giuramento] giunge a compimento413

».

In estrema sintesi, ciò che per Agamben resta dopo l’evento che è stato chiamato la “morte di Dio” è la possibilità dello spergiuro e della bestemmia, in cui il nome di Dio è pronunciato a vuoto. Il passaggio successivo che intendiamo compiere per spiegare il carattere antropologico, anzi antropogenetico, del giuramento, è il suo nesso con la teoria delle istituzioni.

La tesi centrale di questa ricerca è che l’esperienza performativa del linguaggio, implicita in ogni giuramento, ha ancora oggi la forza di realizzare ciò che dice. Si pensi per esempio a tutte le volte che si pronuncia la formula di un atto giuridico verbale, o a quelle volte in cui gli sposi, pronunziando il loro sì davanti all’ufficiale civile, trovandosi effettivamente uniti in matrimonio. E questa efficacia non è dovuta al fatto che la formula pronunciata è una formula magico-sacrale, come si credeva nel mondo classico. Ma ciò non può essere spiegato nemmeno facendo riferimento esclusivamente

411

Cfr. Agamben, 2008, p. 30.

412

Agamben, 2008, cit. p. 76. Questa connessione essenziale fra Dio e giuramento è stata ribadita da Filone nel De sacrificiis, come si è visto nella prima parte della tesi dedicata al rapporto del giuramento con il divino, ed è stata ripresa dallo stesso Agamben per mostrare l’ipotesi secondo cui nel mondo classico la performatività e l’attendibilità della parola erano spiegate facendo ricorso all’identificazione di Dio col giuramento. Ciò che rendeva credibile e affidabile il giuramento era la sua identificazione con

pistos, ciò che nella tradizione classica è l’horkos per eccellenza, così come nella tradizione giudaica è

l’attributo di Dio.

198 al concetto di intenzionalità utilizzato da Austin per spiegare il caso particolare dell’enunciato “prometto di...”414

.

Il problema che qui è coinvolto non è solo il problema dell’intenzionalità del parlante: la performatività del giuramento come frutto di credenze o stati mentali? Tale sembra essere la questione aperta che accompagna la nostra ipotesi e che ci riporta al problema delle istituzioni. Ciò che è opportuno chiarire subito è che se il giuramento appare oggi in corso di totale sparizione nella sfera pubblica, è perché ciò è dovuto ad una crisi delle istituzioni tradizionali che si sono basate sul potere divino e sulla relazione con la realtà teologica. Se questa ipotesi ha un minimo di legittimità, l’intenzionalità dovrebbe apparire solo come un punto di passaggio al problema.

Cercheremo quindi di cogliere il fondamento e la performatività del giuramento non nella credenza, convinzione o intenzione del parlante ad esempio nel momento in cui pronuncia il suo sì davanti al prete o all’ufficiale civile, piuttosto nel potere e nella presa che l’istituzione ha sull’individuo, sul suo desiderio rendendo quell’atto efficace.

Questa particolare interazione tra il piano antropologico e quello delle istituzioni è stata formulata con grande schiettezza da Paolo Virno in un articolo pubblicato in

Forme di vita (2005) dal titolo Il cosiddetto male e la critica dello Stato. È necessario,

cioè, mettere in chiaro come esista un tipo di antropologia, quella che va da Hobbes a Schmitt, passando per Freud, nella quale è presente l’idea secondo cui è necessario mettere sotto scacco la rischiosa instabilità dell’animale umano, la pericolosa instabilità dei suoi desideri, il cosiddetto male insomma, per evitare un ritorno allo stato di natura. È in queste circostanze che si sviluppano vere e proprie istituzioni politiche le cui regole funzionino come una coazione a ripetere. Virno osserva in più occasioni come, secondo questo tipo di antropologia, il rispetto dei patti, la fedeltà ai giuramenti necessitano di una forza coercitiva che imponga il loro adempimento in tutti i casi particolari; necessitano cioè di regole che abbiano un’applicazione certa: «se l’uomo fosse un’animale mite, votato all’intesa e al reciproco riconoscimento, non vi sarebbe necessità alcuna di istituzioni disciplinanti e coercitive415».

414 Cfr. il paragrafo 3.3 Una nuova lettura del giuramento: l’analisi linguistica.

199 Virno mette in chiaro questa particolare funzione delle istituzioni facendo riferimento alle analisi essenziali di Freud e Hobbes: «L’ordine [istituzionale] è una sorta di coazione a ripetere, che decide, mediante una norma stabilita una volta per tutte, quando, dove e come, una cosa debba essere fatta, in modo da evitare esitazioni e indugio in tutti i casi simili tra loro416». O ancora, come osserva in Hobbes a proposito del rapporto tra vita naturale pregiuridica e sfera pubblica statuale: «Secondo Hobbes, con l’istituzione del “corpo politico” ci obblighiamo a obbedire prima ancora di sapere che cosa ci sarà ordinato: “L’obbligo di obbedienza, in forza del quale le leggi civili sono valide, precede ogni legge civile417».

La ricerca intende quindi situarsi su un difficile crinale tra la pericolosa instabilità dei desideri dell’animale umano, come ad esempio la sua incapacità di mantenere la parola data, e la nascita di nuove forme di istituzioni capaci di tenere a bada il cosiddetto male e di rendere i nostri atti, come ad esempio rispettare dei patti, rimanere fedeli ad un giuramento, efficaci. La crisi che le istituzioni oggi stanno attraversando sembra inevitabile e soprattutto sembra non siano più capaci di tenere a freno la pericolosità e l’instabilità tipica dell’animale umano: «Se però, come tutto lascia credere, l’Homo sapiens è un animale pericoloso, instabile e (auto)distruttivo, sembra inevitabile, per tenerlo a freno, la formazione di un “corpo politico unitario” che eserciti, parole di Schmitt, un incondizionato “monopolio della decisione politica418

». Crisi che, diversamente da quanto sostenuto da Hobbes, Virno attribuisce all’impossibilità di uscire dallo stato di natura, all’«impossibilità di ritagliare

pseudoambienti più o meno circoscritti, all’interno dei quali la prassi dell’animale

linguistico sia esentata da quella potenzialità indifferenziata che l’ “apertura al mondo” reca sempre con sé419». In proposito Virno si sforza di mettere in evidenza come l’interrogazione hobbesiana centrata sulla dialettica fra paura e ricerca di sicurezza sia venuta meno all’interno della sfera pubblica contemporanea e come prevalga invece una dialettica timore-riparo affatto diversa, incentrata sull’idea di una forza che trattiene il cosiddetto “male”, senza però mai poterlo espugnare, «giacché la sua espunzione corrisponderebbe alla fine del mondo, o meglio, all’atrofia della “apertura al 416 Ivi, cit. p. 11. 417 Ivi, cit. p. 17. 418 Ibidem. 419 Ivi, p. 21.