• Non ci sono risultati.

Il tracollo del paradigma divino nella contemporaneità

Capitolo secondo

3. Habemus papam: la parola efficace ogg

3.4 Il tracollo del paradigma divino nella contemporaneità

Per comprendere il declino del paradigma divino nel nostro tempo, paradigma alla base di molte istituzioni e non solo del giuramento, Agamben piuttosto che ricorrere alle ricerche lessicali di Benveniste, ricorre alla ricerche lessicali di Casel, soffermandosi sull’originario significato dei termini mysterium, sacramentum,

leitourgia: «La centralità del carattere pragmatico del mistero liturgico è affermata con

171 forza in uno dei primi testi pubblicati da Casel nello “Jahrbuch für Liturgiewissenschaft”, “Actio” in liturgischer Verwendung, che è particolarmente importante perché permette di porre il problema del rapporto tra liturgia e diritto. Attraverso l’analisi di una formula contenuta nei più antichi sacramentari e ancora nel messale romano, Casel mostra che il nome della celebrazione eucaristica era originariamente actio, “azione”. Casel menziona a questo punto l’opinione di Baumstark, secondo cui l’uso liturgico del termine deriverebbe dal diritto romano, in cui actio designava quella forma eminente dell’agire, che è la legis actio, cioè il giudizio. Actio significava qui la particolare efficacia performativa della pronuncia di una formula rituale (e del gesto che l’accompagnava), che, nella forma più antica del processo, la legis actio sacramenti, comprendeva anche la prestazione di un giuramento. Benché già Onorio di Autun avesse notato l’analogia fra il processo e la messa, scrivendo che “il canone viene chiamato anche actio, perché in esso ha luogo la causa fra il popolo e Dio, Casel lascia cadere la tesi di Baumstark per suggerire che l’uso liturgico del termine actio sia piuttosto da mettere in relazione con la terminologia scarificale romana, dove agere e facere designavano la prassi sacrificale. “La designazione del canone come actio prova che, al tempo della sua origine, era ancora viva l’antica e schiettamente liturgica concezione dell’eucharistia come offerta sacrificale. Essa fornisce anche un indizio importante per la valutazione dell’antica liturgia cristiana, il cui contenuto non era un silenzioso sprofondare, e il cui oggetto non era un’astratta dottrina teologica, ma un agire, un atto330

».

La situazione linguistica fondamentale è appunto il fatto che nella liturgia cristiana così come nel diritto in assenza del mistero divino e dunque dell’azione di forze divine, la liturgia, così come anche il giuramento classico, non sarebbero più efficaci come prima. Ossia, la desacralizzazione di queste pratiche linguistiche comporterebbe una minore realizzazione performativa, una minore effettualità, contrariamente a quanto avveniva prima, quando “il mondo era il campo d’azione di forze divine”: «L’efficacia ex opere operato che definisce [l’azione liturgica] corrisponde puntualmente all’efficacia performativa della pronuncia della formula dell’actio, che realizzava immediatamente le conseguenza giuridiche contenute nella dichiarazione (uti lingua nuncupassit, ita ius esto). Tanto nel diritto quanto nella

172 liturgia, è in questione il particolare regime performativo dell’efficacia di un’actio, che si tratta appunto di definire331».

Si capisce benissimo perché Agamben vuole ricorrere qui a un vocabolario sacramentale per spiegare la singolare modalità della presenza efficace dell’azione divina, definita da Casel mistero, azione che sarebbe comune tanto al giuramento quanto alla liturgia: «Mistero significa l’azione divina nella Ecclesia. [...]. Questa azione divina è effettualmente presente nell’azione liturgica, che si definisce quindi come “l’esecuzione rituale dell’opera redentrice di Cristo nell’Ecclesia e attraverso di essa, cioè la presenza dell’azione divina di salvezza sotto il velo del simbolo332

». Resta che, per Casel, questa presenza è, tuttavia, effettiva e non semplicemente efficace. Casel cita a questo proposito il passo del De mysteriis di Ambrogio, in cui questa presenza è affermata come tale: «Devi credere che là (nel sacramento) la divinità è presente. Se credi all’operazione, come puoi non credere alla presenza? Da dove verrebbe l’operazione, se non la precedesse la presenza333

».

Questo vocabolario sacramentale lascia intravedere un fatto essenziale ai fini di ciò che qui importa distinguere. Soprattutto nel caso del giuramento, fa passare in primo piano il potere coercitivo dell’istituzione, potere simboleggiato dalla potenza, dall’azione divina, l’operatoria virtus Dei, considerata una caratteristica essenziale per la sua effettualità e operatività. È proprio grazie al potere coercitivo dell’istituzione incarnata dai sacramenti nei quali è presente l’azione divina che giuramento e liturgia divengono efficaci. Nel momento in cui il potere obbligante dell’istituzione che si manifesta tramite l’azione divina viene meno, viene meno anche l’efficacia e l’effettualità propria del giuramento, così come della liturgia. Esempi utili ai fini del nostro discorso in quanto mettono, dunque, in primo piano ciò che in questo lavoro conta di più, ossia che il giuramento è innanzitutto un’esperienza performativa del linguaggio, in cui l’efficacia o meno di ciò che si dice è dovuta anche ad una certa

intenzione, come ricorda Austin, da parte di colui che pronuncia una formula a

realizzare ciò che dice. La centralità di questa nostra prospettiva è confermata, come abbiamo visto poc’anzi, da alcune testimonianze che sembrano essere a favore di questa

331 Ibidem. 332 Ivi, cit. p. 48. 333 Ivi, cit. p. 50.

173 ipotesi. Ciò ci permetterebbe di considerare il giuramento innanzitutto come uno specifico fenomeno linguistico, sulla scia degli autori esaminati qui sopra. Si possono per cui distinguere una serie di esempi molto diversi tra di loro, ma sempre identici per l’orientamento generale e per la forma che assumono, sempre quella, naturalmente, dell’intenzione a mantenere un impegno, un obbligo, per mezzo della formula “io prometto/giuro di...” che porta, ogni volta, a fare riferimento anche all’istituzione. Il passaggio successivo sarà dunque quello di porre l’accento sul concetto di istituzione.

Se la nostra ipotesi è esatta, il giuramento non designerebbe più l’eclissi del carattere performativo della parola nella contemporaneità. La vera vittima del tracollo del paradigma divino non sarebbe, il giuramento, in ultima analisi, ma l’istituzione a cui fa capo.

Agamben, alla fine del “sacramento del linguaggio”, svolge le sue riflessioni sull’eclissi del giuramento nella contemporaneità, mettendo in discussione il prestigio che il linguaggio ha goduto e gode nella nostra cultura, in quanto strumento di potenza, efficacia e bellezza incomparabile: «È forse tempo di mettere in questione il prestigio di cui il linguaggio ha goduto e gode nella nostra cultura, in quanto strumento di potenza, efficacia e bellezza incomparabile. Eppure, considerato in se stesso, esso non è più bello del canto degli uccelli, non è più efficace dei segnali che si scambiano gli insetti, non più potente del ruggito con cui il leone afferma la sua signoria334».

Ossia, l’elemento decisivo che permette all’animale umano di accedere alla sfera performativa del linguaggio non è nello strumento in se stesso che, come ribadisce Agamben, «non è più bello del canto degli uccelli, non è più efficace dei segnali che si scambiano gli insetti, non è più potente del ruggito con cui il leone afferma la sua signoria335», piuttosto è «nel posto che esso lascia al parlante, nel suo predisporre dentro di sé una forma in cavo che il locutore deve ogni volta assumere per parlare336», nella messa in gioco del parlante nella sua parola, in ciò che Benveniste, citato dallo stesso Agamben, aveva definito come la funzione enunciativa per cui giurare significa fondamentalmente dire “io giuro”: «L’uomo è quel vivente che, per parlare, deve dire

334 Ivi, cit. p- 97. 335 Ibidem. 336Ibidem.

174 “io”, deve, cioè, “prendere la parola”, assumerla e farla propria337

». Ciò che Paolo Virno in Quando il verbo si fa carne definisce come il performativo assoluto. Assoluto perché l’azione realizzata consiste unicamente nel parlare: «Tutti i singoli atti rituali [...] sono effettivamente tali proprio e soltanto perché si prende la parola. [...] – il prendere la parola costituisce il presupposto celato di tutti i consueti enunciati performativi338». Ciò che qui davvero importa è mettere in risalto come il giuramento sia solo una forma di

presa di parola. Esperienza dell’atto di parola che non ha luogo esclusivamente nel

giuramento ma in tutti gli enunciati performativi, mostrando l’incompletezza della tesi di Agamben.