• Non ci sono risultati.

Il lato performativo del giuramento

Capitolo secondo

3. Habemus papam: la parola efficace ogg

3.3 Il lato performativo del giuramento

Per riassumere la nostra argomentazione ricorreremo ora a uno dei più bei testi della filosofia del linguaggio del ‘900 insieme a quelli di Wittgenstein, Come fare cose

con le parole. È necessario ricorrere innanzitutto ad Austin per capire meglio la

questione:

«In generale, è sempre necessario che le circostanze in cui vengono pronunciate le parole siano in un certo modo, o in più modi, appropriate, ed è generalmente necessario che o il parlante stesso o altre persone eseguano anche certe altre azioni, azioni “fisiche” o “mentali” o anche atti consistenti nel pronunciare altre parole. Così per battezzare la nave, è indispensabile che io sia la persona designata a battezzarla, per sposarsi (nel matrimonio cristiano) è indispensabile che io non sia già sposato con una moglie vivente, sana di mente e non divorziata, e così via: perché sia stata fatta una scommessa, è generalmente necessario che la proposta della scommessa sia stata accettata da chi la riceve (il quale deve aver fatto qualcosa, come dire “ci sto”), e difficilmente è un regalo se io dico “te lo dono” ma non lo consegno mai. Fin qui, d’accordo. L’azione può essere eseguita in modi diversi che con un enunciato performativo, e comunque le circostanze, incluse altre azioni, devono essere appropriate. Ma, nel fare delle obiezioni, possiamo avere in mente qualcosa di totalmente diverso, e questa volta alquanto erroneo, in particolare quando pensiamo a qualcuno dei performativi che più ispirano soggezione, come “prometto di...”. Davvero le parole devono essere dette “sul serio” e in modo da essere prese “sul serio”? Ciò,

167 benché sia impreciso, è abbastanza vero in generale – è un luogo comune importante nella discussione sul valore di qualunque enunciato. Non deve essere uno scherzo, ad esempio, né essere parte di una poesia. Ma noi siamo inclini ad avere la sensazione che la loro serietà consiste nell’essere pronunciati come (puramente) segno esteriore e visibile, per le convenienze o altro tipo di ufficialità, o per informazione, di un atto interiore e spirituale: da qui il passo è breve per arrivare a credere o ad assumere, senza accorgersene, che per molti versi l’enunciazione esteriore sia una descrizione, vera o

falsa, dell’avvenuta esecuzione interiore. L’espressione classica di questa idea si trova

nell’Hippolytus, dove Ippolito dice: “la mia lingua ha giurato, ma il mio cuore [o la mente o un altro attore nel retroscena] no. Perciò “prometto di...” mi obbliga – registra la mia assunzione spirituale di una costrizione spirituale323».

Non si fa nessuna fatica a riconoscere in questo testo la condizione di possibilità della promessa e del matrimonio. La condizione di intenzionalità, comune a entrambi questi tipi di performativi o enunciati esecutivi, sottolinea l’effettuazione: «Non ha valore di descrizione né di prescrizione, ma, ancora una volta, di effettuazione. È questo il motivo per cui è spesso accompagnato da indicazioni di tempo, di luogo, di nomi di persone, testimoni, ecc., in breve, è un evento perché crea l’evento324». Come si è visto nei capitoli precedenti, non mancano le testimonianze testuali a favore di questa ipotesi. Benveniste stesso ripete esattamente quanto affermato da Austin, sottolineando la particolare situazione linguistica di questo tipo di enunciato esecutivo con intenzione

magica, e ricordando i punti più salienti del suo lavoro: «Nel descrivere, qualche anno

fa le forme soggettive dell’enunciazione linguistica, indicavamo sommariamente la differenza tra io giuro, che è un atto, ed egli giura, che è solo un’informazione. Non venivano ancora usati i termini “esecutivo” e “costatativo”, la sostanza della definizione era tuttavia la stessa. Si presenta ora l’occasione di ampliare e precisare il nostro punto di vista, confrontandolo con quello di Austin. Occorre anzitutto delimitare il campo di studio, specificando gli esempi che si giudicano adeguati. [...]. Non siamo per nulla certi che si possano considerare probanti per la nozione di esecutivo le locuzioni prima riportare: Vi auguro il benvenuto. – Chiedo scusa. – Vi consiglio di farlo. O almeno non provano più molto, attualmente, tanto la vita sociale le ha banalizzate. Decadute al

323 Austin, Come fare cose con le parole, cit. p. 12-13. 324 Benveniste, Problemi I, cit. p. 327.

168 rango di semplici formule, occorre riportarle al loro senso originario per ritrovarne la funzione esecutiva. Per esempio, quando presento le mie scuse è un pubblico riconoscimento di torto, un atto che assopisce un litigio. Si potrebbero scoprire, in formule ancor più banali, dei residui di enunciati esecutivi: buongiorno, nella sua forma completa: Vi auguro il buongiorno, è un esecutivo con intenzione magica che ha perduto la sua solennità e la sua virtù primitive. Ma [...] ci interessa di più scegliere degli esecutivi in funzione che si prestino direttamente all’analisi. Se ne può proporre una prima definizione, dicendo che gli enunciati esecutivi sono enunciati in cui un verbo dichiarativo-ingiuntivo alla prima persona del presente è costruito con un dictum. [...]. Un’altra varietà di questi enunciati è data dalla costruzione del verbo con un complemento diretto e un termine predicativo325».

Benveniste sembra dunque concordare in ogni punto con quanto affermato da Austin. Eppure, secondo Benveniste, mancano in Austin le parole e le categorie per ampliare il quadro formale assegnato finora all’enunciato esecutivo: «Austin classifica come esecutivi gli enunciati formulati all’imperativo: “Dire chiudete la porta, è evidente, è tanto esecutivo quanto dire vi ordino di chiuderla”. Sembrerebbe andare da sé, poiché l’imperativo è la forma per eccellenza dell’ “ordine”. In realtà è un’illusione, che rischia di creare il più grave malinteso sulla natura dell’enunciato esecutivo326

». Bisogna, dunque guardarsi dal definire un imperativo l’equivalente di un enunciato esecutivo, cosa che invece accetta di fare Austin. Inoltre, questa caratteristica dell’enunciato esecutivo di nominare la dichiarazione esecutiva e il suo esecutore suggerisce che si ha a che fare con un enunciato che denomina l’atto eseguito, per il fatto che l’Ego pronuncia una formula contenente il verbo alla prima persona del presente, come nel caso: “giuro di dire la verità”, “dichiaro marito e moglie” e così via. Per riconoscere dunque a colpo sicuro un enunciato del genere, si deve riconoscere innanzitutto che nel caso dell’enunciato esecutivo si ha a che fare con una specifica modalità del discorso, che è ciò che qui è in gioco: «In ogni caso, un enunciato esecutivo non ha realtà se non quando sia autenticato come atto. Al di fuori delle circostanze che lo rendono esecutivo, un enunciato del genere non è più niente. Chiunque può gridare in piazza: “io decreto al mobilitazione generale”. Non potendo

325 Ivi, cit. p. 324-325. 326 Ivi, cit. p. 327-328.

169 essere atto in mancanza dell’autorità richiesta, l’argomento resta solo parola; si riduce a un vano clamore, bambinata o demenza. Un enunciato esecutivo che non sia atto non esiste. Non ha esistenza che come atto di autorità. Ma gli atti d’autorità sono in primo luogo e sempre enunciazioni proferite da chi ha il diritto di enunciarle. Quando si tratta dell’esecutivo, si deve sempre supporre soddisfatta tale condizione di validità, relativa alla persona enunciante e alla circostanza dell’enunciazione. Il criterio sta in ciò e non nella scelta dei verbi327».

Un enunciato esecutivo ci è presentato, dunque, come tale in quanto è di per sé un atto, ed è questa, naturalmente, la condizione che si impone affinché si possa parlare di atto individuale e storico, compiuto da chi ne ha facoltà. Tutto ciò porta a riconoscere all’esecutivo una proprietà peculiare, quella di essere sui-referenziale, di riferirsi a una realtà che costituisce esso stesso, per il fatto di essere effettivamente enunciato in condizioni che lo fanno atto: «Ne deriva che è contemporaneamente manifestazione linguistica, in quanto deve essere pronunciato, e fatto di realtà, in quanto effettuazione di atto. L’atto si identifica quindi con l’enunciato dell’atto. Il significato è identico al referente. E ne fa fede la clausola “con la presente”. L’enunciato che prende se stesso come referenza è appunto sui-referenziale328».

Questo riferimento suggerisce, per quanto grande sia il testo di Austin, che non si può tuttavia prescindere da questo criterio che permette di distinguere l’imperativo dall’enunciato esecutivo, cosa che Benveniste renderà completamente esplicito nelle sue conclusioni sulla delimitazione di questo particolare fenomeno linguistico: «Niente di simile nell’imperativo. Non bisogna farsi ingannare dal fatto che l’imperativo produce un risultato, che Vieni! fa effettivamente venire colui al quale ci si rivolge. Non è questo risultato empirico che conta. Un enunciato esecutivo non è tale in quanto può modificare la situazione di un individuo, ma in quanto è di per sé un atto. L’enunciato è l’atto; chi lo pronuncia compie l’atto con il menzionarlo. In questo enunciato, la forma linguistica è soggetta a un modello preciso, quello del verbo al presente e alla prima persona. Il caso dell’imperativo è completamente diverso. Qui abbiamo a che fare con una specifica modalità del discorso; l’imperativo non è denotativo e non mira a comunicare un contenuto, ma si caratterizza come pragmatico e mira ad agire

327 Ivi, cit. p. 326-327. 328 Ivi, cit. p. 327.

170 sull’ascoltatore, a intimargli un comportamento. L’imperativo non è un tempo verbale; non ha né demarcatore temporale né referenza personale. È il semantema puro e semplice usato come forma ingiuntiva con un’intonazione specifica. È evidente allora che un imperativo non equivale a un enunciato esecutivo, per il motivo che non è né enunciato né esecutivo. Non è un enunciato, poiché non serve per costruire una proposizione con verbo personale; e non è esecutivo, per il fatto che non denomina l’atto dichiarativo da eseguire. Venez! è sì un ordine, ma linguisticamente è una cosa completamente diversa dal dire: Ordino che voi veniate. Non vi è enunciato esecutivo se non contiene la menzione dell’atto, vale a dire ordino, mentre l’imperativo potrebbe essere sostituito da qualsiasi procedimento che produca il medesimo risultato, un gesto per esempio, e non avere più alcuna realtà linguistica329».

È nella prospettiva di questo ampliamento che ci si deve interrogare sui motivi della maggiore o minore efficacia di questi enunciati nella contemporaneità. È possibile notare innanzitutto che, nel suo ultimo lavoro dal titolo Opus dei. Archeologia

dell’ufficio, il filosofo italiano Giorgio Agamben piuttosto che riflettere sulla teoria

generale degli atti linguistici proposta da Austin e Benveniste, si interroga sul crollo del paradigma divino nel nostro tempo, ossia, sul crollo di quella operatività ed effettualità che ha caratterizzato tanto l’ufficio, ossia la liturgia, la funzione sacerdotale, quanto il giuramento classico, dal quale, come si è visto nei capitoli precedenti, deriva a sua volta il termine latino sacramentum, a partire dagli studi del monaco benedettino Odo Casel (1886-1948).