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La nozione di matrimonio nel vocabolario indoeuropeo

Capitolo secondo

3. Habemus papam: la parola efficace ogg

3.2 Matrimonio e divorzio

3.2.2 La nozione di matrimonio nel vocabolario indoeuropeo

Nella maggior parte delle lingue indoeuropee non esiste un termine che indichi il “matrimonio”. Benveniste stesso, organizzando i dati disponibili sul vocabolario indoeuropeo della parentela, mette in luce questa particolare situazione, affermando che «il “matrimonio” non ha un nome indoeuropeo310

». Dell’uomo dice solo che “conduce” (a casa sua) una donna che un altro uomo gli “dà” (lat. uxorem ducere e nuptum dare); della donna, che entra nella “condizione di sposa”, ricevendo così una funzione piuttosto che compiendo un atto (lat. ire in matrimonium).

Per quanto riguarda il primo caso, il fatto che “l’uomo prende moglie”, è espresso da un verbo di radice *wedh- (“condurre”) che fornisce anche un gran numero di corrispondenze nella maggior parte delle lingue: «celtico gall. dy-weddio, sl. vedǫ, lit.

vedù, avest. vādayeiti, con i derivati i.-ἱr. vadhū- “giovane sposa”, gr. héedna “regalo di

nozze”311

». Sembrava non vi fosse alcun dubbio sulla costanza di tale significato nello stadio più antico, finché non si è stabilito che il verbo indoeuropeo *wedh- non significasse “condurre”, bensì “sposare una donna”. Ne derivò una diversità non solo lessicale, che testimonia che si tratta di designazioni indipendenti in ogni lingua, ma anche morfologica. Bisogna, inoltre, considerare che a seconda che si tratti dell’uomo o della donna, i termini sono diversi: «per l’uomo, i termini sono verbali; per la donna,

309 Ibidem.

310 Benveniste, Vocabolario, vol. I, cit. p. 183. 311 Ivi, cit. p. 183-184.

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nominali312». È difficile, comunque, rassegnarsi al fatto che non esista, propriamente parlando, un termine indoeuropeo per “matrimonio”. Ed è per questo che, secondo Benveniste, bisogna ammettere che il senso originario di *wedh- fosse “condurre”, conservatosi fedelmente nell’indiano nay-, “condurre” e anche “sposare”, nel latino

ducere, “condurre”, che anch’esso assume il senso di “sposare” nell’espressione uxorem ducere, e nel greco gameîn. Rimane ora da spiegare come mai da “condurre” sia potuto

venire fuori “dare”: «Accanto a questi verbi, che denotano il ruolo dello sposo, bisogna mettere quelli che indicano la funzione del padre della ragazza nel matrimonio. Il padre, o il fratello in mancanza del padre, ha l’autorità di “dare” la ragazza al suo sposo: [...]. “Dare” è il verbo usato costantemente per questo atto solenne; lo si ritrova da una lingua all’altra, tutt’al più con qualche variazione nel preverbo: gr. doûnai, ekdoûnai, lat. dare, got. fragiban, sl. otŭdati, lit. išduoti, sanscr. pradā-. In avestico si distingue con

paradātā e aparadātā la fanciulla che è stata regolarmente “data” da suo padre e quella

che non lo è313».

Ossia, Benveniste ritiene che “condurre” e “dare” abbiano la stessa struttura familiare, a seconda se la fanciulla veniva data o meno: «Questa costanza nell’espressione indica una permanenza degli usi ereditati da un passato comune e dalla stessa struttura familiare, in cui lo sposo “conduceva” a casa sua la fanciulla che il padre gli aveva “dato”314».

Mentre per quanto riguarda i termini usati per il “matrimonio” dal punto di vista della donna, Benveniste ammette che non esiste un verbo che denoti per lei il fatto di sposarsi, e che sarebbe la contropartita delle espressioni di cui abbiamo parlato. Così il verbo nubere, limitato al latino, indicava solo il fatto di prendere il velo, rito della cerimonia delle nozze, non al matrimonio in sé stesso: «Di fatto il verbo [nubere] è usato solo per circostanze speciali. Tende per esempio a sottolineare una differenza di condizione sociale tra l’uomo e la donna, come in un passo di Plauto (Aulularia 479 sg.) in cui un personaggio propone che “i ricchi sposino senza dote le figlie dei cittadini poveri”, opulentiores pauperiorum filias ut indotatas ducant uxores domum, ma prevede questa obiezione: “Con chi allora si sposeranno le fanciulle ricche e con dote?”

312 Ibidem. 313 Ibidem. 314 Ibidem.

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Quo illae nubent diuites dotatae?”; tra uxores ducere e nubere l’opposizione è voluta.

In altri casi il verbo è soprattutto poetico. Sono usuali solo il participio nupta e la locuzione nuptum dare “dare (la propria figlia) in sposa”, cioè le forme del verbo che pongono la donna come oggetto, non come soggetto. Non si può neanche collegare al ruolo della donna il verbo lat. maritare, neppure alla data tarda in cui appare: maritare come verbo attivo significa “appaiare, unire”, e come verbo intransitivo si dice piuttosto dell’uomo che della donna315

».

È per questo che l’assenza di un verbo proprio, indica che la donna non si sposa, ma è sposata. Non compie un atto, cambia solo condizione mentre nel caso dell’uomo la presenza di un verbo proprio indica un atto a tutti gli effetti che consisteva nel “condurre”, “sposare” la propria fanciulla, prendendola per mano secondo il gesto rituale, come dimostrano i termini che denotano lo stato della donna sposata in indoiranico e in latino: «Troviamo in vedico due astratti molto vicini per la forma,

janitva- e janitvaná- “condizione della donna sposata (jani-)”, tutti e due in un contesto

formulare: hastagrābhásya didhisós távedám pátyus janitvám abhí sám babhūtha “sei entrata nella condizione di donna sposata (janit-vám) con un marito che ti prende per mano e ti desidera” (alla vedova, Rig Veda X I8.8); janitvanằya māmahe “ha offerto (due giovani donne) per il matrimonio” (VIII 2.42). Nel primo passo è evidente il rapporto tra i termini consacrati da una parte janitvam, dall’altra hastagrābhásya patyus, il marito che, secondo il gesto rituale, prende la fanciulla per mano; nel secondo, che

janitvaná indica la destinazione della donna data a suo marito secondo le forme

richieste, “perché diventi sposa”. Un equivalente di janitvá- è il termine simmetrico

patitvá-, patitvaná- “condizione di sposo” (X 40.9) quando questo designa il potere al

quale la donna è sottomessa, così patitvám... jagmúsī “(la fanciulla) che è in potere dello sposo” (I 119.5)316

». Resta qualche traccia di questa locuzione che annuncia che la donna entra nella “condizione di sposa” anche nell’iranico antico, in cui “prendere in matrimonio (una fanciulla)” appare come un’espressione legale. Insomma in indoiranico, il termine “matrimonio” vale solo per la donna e significa “l’accesso della fanciulla alla condizione di sposa legale”.

315 Ivi, cit. p. 184-185. 316 Ivi, cit. p. 185.

163 Sembra quindi che il termine più antico per “matrimonio”, legato alla grande struttura della famiglia indoeuropea, mostrasse una “condizione legale”, una valenza giuridica, che è possibile ritrovare anche nella società romana, la stessa presente nel termine latino matrimonium: «Il termine lat. matrimonium è molto significativo al proposito. Preso alla lettera, matrimonium significa “condizione legale di mater”, conformemente al valore dei derivati in –monium, che sono tutti termini giuridici (testimonium, vadimonium, mercimonium, e naturalmente patrimonium). La ragione che ha portato a creare matrimonium non è l’analogia con patrimonium, nozione del tutto diversa. La si scopre in alcune espressioni consacrate in cui matrimonium assume il suo senso pieno, e cioè per il padre: dare filiam in matrimonium; per il marito: alicuius

filiam ducere in matrimonium; infine per la fanciulla in questione: ire in matrimonium317».

Sembra quindi che il termine matrimonium definisca la condizione alla quale accede la fanciulla: quella di mater (familias): «Questo è quanto il “matrimonio” significa per lei, non un atto, ma un destino; ella è data e condotta “in vista del

matrimonium”, in matrimonium318».

Le testimonianze latine aiutano, dunque, a ricostruire la storia di matrimonium a Roma. La parola designa lo stato al quale la sposa è promessa, riferendosi a una istituzione giuridica, come provano alcuni degli esempi riportati che confermano in effetti una serie di prove che matrimonium significava appunto una “condizione di sposa legale”.

Nelle forme moderne, invece, ci si allontana da questo antico significato, ed il matrimonio diviene semplicemente l’ “atto di sposarsi”, come avviene nelle forme moderne di matrimonium nelle lingue romanze, spagnolo e italiano matrimonio: «Le forme nominali che sono giunte alla nozione di “matrimonio” hanno tutte denotato in un primo tempo la condizione della donna che diventa sposa. Si è dovuto aspettare che questa specificità si cancellasse perché il concetto astratto di “matrimonio” potesse

317 Ivi, cit. p. 186 318 Ibidem.

164 prendere consistenza e designare finalmente l’unione legale dell’uomo e della donna319».

Attraverso matrimonium e i termini imparentati in latino antico si può, dunque, cogliere un certo numero di termini giuridici che sono alla base della nozione di

matrimonio intesa come istituzione giuridica oltre che religiosa.

Per chiarire quest’ultimo aspetto del matrimonio, inteso come l’unione legale dell’uomo e della donna, bisogna ricorrere al significato che questa parola assume nelle analisi di Rosier-Catach, la quale mette in luce la complessa questione del matrimonio religioso e, in particolare, il suo carattere di impegno, di obbligo reciproco supportato da un atto linguistico, ricorrendo alle Sentenze di Lombardo.