1.3 Il giuramento e il divino
1.3.2 La relazione del giuramento con il sacro
L’analogia fra il termine giuramento e il termine sacro è stata mostrata, ancora una volta, da Emile Benveniste nel libro secondo de Il vocabolario delle istituzioni
indoeuropee, dedicato allo studio del giuramento in Grecia e a Roma, che, nel nostro
modo di vedere, ha senza dubbio alcuni meriti, primo fra tutti quello di aver messo in luce il legame tra ius – che si traduce con diritto e dal quale viene fatto derivare il verbo
iurare che significa giurare – e sacramentum, indicando bene la natura vincolante del
giuramento alla parola sacra, il suo essere, cioè, impregnato di genuina religiosità. Legame che rivela le origini religiose del giuramento evidente, in particolar modo, nel vocabolario latino.
Prima però di analizzare le caratteristiche del sacro (sacer) che sono proprie anche del termine sacramentum, espressione latina utilizzata per indicare il giuramento, vediamo cosa scrive a questo proposito Benveniste: «Così iurare non designa la stessa cosa che noi indichiamo col verbo “giurare”, cioè il fatto di impegnarsi in modo solenne con l’invocazione di un dio. Il giuramento stesso, l’impegno, è chiamato sacramentum, termine conservato nelle lingue romanze e che ha dato il francese serment. A Roma, il sacramentum è diventato ben presto il giuramento militare. Si dovranno distinguere quindi due nozioni in questo caso, il sacramentum, che è il fatto di consacrarsi agli dei, di attirare su di sé la loro vendetta qualora si venga meno alla parola data; e iurare, che è il fatto di ripetere la formula pronunciata88». Benveniste mostra come oltre all’espressione ius iurandum, alla lettera
formula da formulare, utilizzata in latino per indicare il giuramento, esiste anche un
altro termine. Il termine, come abbiamo visto qui sopra, è quello di sacramentum, dal quale viene fatto derivare il francese serment, termine che a sua volta implica la nozione di rendere sacer. Ossia, il termine sacramentum sarebbe un derivato del verbo denominativo sacrare, letteralmente dichiarare sacer: «Sacramentum è un derivato non di sacer ma del verbo denominativo sacrare “dichiarare sacer”, “gettare l’anatema” su colui che commette un simile delitto. Il sacramentum è proprio il fatto o l’oggetto con il quale si getta l’anatema in anticipo sulla propria persona (sacramentum militare) o ancora il pegno depositato (nel sacramentum giudiziario). Appena la parola è
48 pronunciata secondo la forma, si è potenzialmente nello stato di sacer. Questo stato diventa effettivo e attira la vendetta divina se si trasgredisce all’impegno preso89
».
Seguendo l’intuizione proposta da Benveniste, Agamben, sempre ne Il
sacramento del linguaggio (2008) mette in risalto questa caratteristica essenziale del
giuramento di essere legato oltre che alla fides anche alla sacratio. Peculiarità, questa di rendersi sacer attraverso il giuramento, che emerge anche in Festo e in Pierre Noailles come precisa Agamben: «Si chiama sacramentum (uno dei due termini latini per giuramento) – si legge in Festo (466, 2) – ciò che si compie facendo intervenire la consacrazione del giuramento [iusiurandi sacratione interposita]. “Il giuramento (sacramentum) – scrive Benveniste (Benveniste [2], 2, p. 168) – implica la nozione del rendere sacer. Si associa al giuramento la qualità del sacro, la più terribile fra quelle che un uomo possa ricevere: il giuramento appare come un’operazione che consiste a rendere sacer in modo condizionale”. E del giuramento nel processo Pierre Noailles può scrivere nello stesso senso: “L’attore nel processo ha consacrato se stesso, si è reso
sacer attraverso il giuramento90».
Fedele a questo aspetto del giuramento è anche l’analisi condotta da Prodi ne Il
sacramento del potere (1992), il quale citando l’opera di Salvatore Tondo su Il «sacramentum militiae» nell’ambiente culturale romano-italico (1963) relativa al
giuramento militare nel mondo romano e al suo ancoramento sacrale, afferma: «Non pare esservi dubbio che i primi sviluppi avvengono nella prima direzione, del giuramento di fedeltà, nato sui campi di battaglia come sacramentum militiae nell’ambiente romano-italico: condizione indispensabile per l’assunzione della qualità di miles e quindi per la legittimità dell’azione bellica, esso non è né assertorio né promissorio ma rappresenta in qualche modo un’iniziazione analoga a quella misterica, sacramento dunque come “totalità culturale rivolta ad attribuire ai soggetti un carattere di sacralità”91».
Il giuramento-sacramento si presenta in tal modo come il rendere sacro colui che giura, ovvero nel giuramento l’uomo viene reso sacer, cioè consacrato agli dèi ed escluso dal mondo degli uomini. Bisogna, a questo punto, fare attenzione ad una
89 Ivi, cit. p. 413.
90 Agamben 2008, cit. p. 41. 91 Prodi 1992, cit. p. 35-36.
49 implicazione fondamentale fra il rendere sacro e il verbo sacrificare, che propriamente significa rendere sacro ma che di fatto vuol dire mettere a morte, come mette in evidenza lo stesso Benveniste.
Quest’ultima tesi pone a sua volta il seguente problema: come mai sacrificare comporta necessariamente una condanna a morte? Come mai per rendere sacra la bestia o l’uomo è necessario sacrificarla, ossia, ucciderla, metterla a morte escludendola dal mondo dei vivi?
La paradossalità di questa situazione è evidente soprattutto se si pensa alla specificità dell’homo sacer inteso come colui che può essere ucciso da chiunque senza commettere omicidio – parricidi non damnatur come si evince dal passo latino ripreso da Benveniste – e allo stesso tempo come colui che è insacrificabile. La fonte latina da cui Benveniste riprende il termine homo sacer è il trattato di Festo intitolato Sul
significato delle parole: «homo sacer is est quem populus iudicavit ob meleficium;
neque fas est eum immolari, sed qui occidit parricidi non damnatur» (Benveniste 1966, trad. it. 2001, vol. II, cit. p. 427). Questa stessa citazione è stata a sua volta ripresa e tradotta da Agamben per definire il carattere tipico della vita dell’homo sacer in una nuova luce: «Uomo sacro è, però, colui che il popolo ha giudicato per un delitto; e non è lecito sacrificarlo, ma chi lo uccide non sarà condannato per omicidio92».
È chiaro, dunque, che il termine sacrificare intrattiene a sua volta uno stretto rapporto con il sacro, con il divino, con tutto ciò che è escluso dal mondo dei vivi. A questo punto, come annunciato all’inizio di questo discorso, è necessaria un’indagine sul sacro.
Nel libro terzo de Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Benveniste dedica un’intera sessione allo studio del vocabolario religioso dell’indoeuropeo, soffermandosi nello specifico sull’analisi del latino sacer. Secondo il linguista francese è soprattutto in
92
Agamben, Homo sacer, 1995, cit. p. 79. Secondo l’ipotesi di Agamben la sacertà dell’uomo sacro che si situa all’incrocio di una uccidibilità e di una insacrificabilità, al di fuori tanto del diritto umano che di quello divino, consiste in una «forma originaria dell’implicazione della nuda vita nell’ordine giuridico- politico e il sintagma homo sacer nomina qualcosa come la relazione “politica” originaria, cioè la vita in quanto, nell’esclusione inlcusiva, fa da referente alla decisione sovrana92
». Ossia, essa è considerata da Agamben come una “struttura politica originaria” che ha il suo luogo in una zona che precede la distinzione fra sacro e profano, fra religioso e giuridico. Noi proveremo invece a interpretare la sacertà ricorrendo all’ambiguità originaria del sacro così come ha mostrato Benveniste nel Vocabolario.
50 latino che si manifesta meglio l’ambiguità tipica del sacro. Il latino sacer ammette di fatto ben due condizioni, che non sono invece recuperabili oggi, sotto la loro forma moderna, nell’italiano sacro, rivelando il carattere ambiguo di questo termine: una è quella di essere consacrato agli dei, di essere augusto o degno di venerazione; l’altra condizione è quella di essere carico di una colpa incancellabile, di essere maledetto o suscitare orrore. Quest’ultima caratteristica che equivale ad una macchia, questa ambiguità, questa strana oscurità che persiste nel termine latino sacer il quale racchiude in sé due aspetti diversi di una stessa nozione, il volto gioioso del sacro, quello che suggerisce una qualità augusta ma anche il volto maligno che si basa su una qualità nefasta di origine divina, tipica della tradizione latina, e che separa da ogni relazione umana tramite l’atto di sacrificio inteso come ciò che sancisce il passaggio dal mondo umano al mondo divino, come ciò che stabilisce la comunicazione tra questi due mondi, questo duplice aspetto sembra, invece, essere assente nel valore del sacro in greco: «Possiamo fin d’ora vedere nel valore del “sacro” in greco qualche cosa di particolare che non coincide con quello che il latino intende con sacer. In sacer, vi è esclusivamente la nozione di un’area distinta che è attribuita al divino. Il senso di sacer si chiarisce per opposizione a profanus “al di fuori del fanum”. L’area del sacer è un’area separata dalla disposizione stessa dei luoghi. Rendere sacer consiste in una specie di separazione, di esclusione dall’area dell’umano a causa di una dedica al divino93. Al contrario, in hierós, secondo gli esempi omerici analizzati prima, vediamo una proprietà ora permanente, ora incidentale, che può risultare da un’influenza divina, da una circostanza o da un intervento divino. Non si osserva in greco questa contaminazione del “sacro” che equivale a una macchia e può esporre l’uomo sacer alla morte94».
Ora, la nostra idea è che questa indagine sul sacro e, di conseguenza, sulla religione debba essere liberata dai limiti a cui è stata esposta nell’interpretazione benvenistiana, che definisce questo termine secondo il vocabolario indoeuropeo, per guardare al sacro e, in generale, al fenomeno religione in una nuova luce e da una prospettiva diversa. A nostro avviso, lo studio sul sacro come fenomeno ambiguo che segna irrevocabilmente l’esperienza e la vita dell’uomo sacer, se è vero che da una parte
93 Il sacro è il delimitato, il separato (lat. sanctus). 94 Benveniste 1966, tra. it 2001, vol. II, cit. p. 434.
51 racchiude una profonda verità, al tempo stesso, segna la possibilità di un grave equivoco: quello di risolvere la specificità dell’esperienza del sacro nella sua ambiguità originaria piuttosto che considerare questa esperienza come un fenomeno genuinamente performativo in grado di esibire, mostrare, mettere in luce quel tratto peculiare dell’esperienza performativa della parola sacra, che è quello di essere, prima di tutto, una parola efficace, un dire che non è semplicemente un dire qualcosa ma farlo e che come vedremo più avanti ha il suo fondamento nella presa di parola. È in questa luce che, a nostro parere, bisogna guardare alla parola sacra. Centralità di questa caratteristica della parola che è stata confermata dalla stessa teoria agambeniana del giuramento-sacramento.