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3.1 Sé privato

3.1.3 Giusta distanza nella relazione di aiuto

"Secondo me l'operatore tipo in questo ambito non esiste, perché le differenze interpersonali sono tantissime. I miei punti di forza sono la capacità relazionale e l'onestà. I punti di debolezza sono che a volte mi faccio prendere troppo dalle storie e quindi alle volte tendi a perdere quello che è la distanza, perché serve la giusta distanza. Vedendo troppo da vicino, è come se tu ti facessi coinvolgere troppo dalle loro storie. Mentre essere troppo distanti vuol dire mancare di empatia e magari non metterti nei panni di ragazzi che si giocano veramente la vita, che hanno compiuti viaggi difficili e situazioni estreme per potersi guadagnare un futuro migliore in questa Eldorado come è ancora considerata l'Europa. E' sempre una questione di giusta distanza e di equilibrio, in cui questa consapevolezza va mantenuta, ma non esasperata..si corre il rischio di privare i ragazzi della propria individualità e considerarli esclusivamente come portatori delle proprie difficoltà. Ovviamente ci sono momenti in cui si risulta più vulnerabili emotivamente. E' per questo che ti parlavo di giusta distanza..io sono arrivata a questo non solo per merito mio, ma perché nei percorsi professionali abbiamo avuto supporto psichiatrico e psicologico che ci hanno aiutato, perché rischi di cadere dall'altra parte, di non vedere più la realtà come è ma travisarla secondo le tue lenti, questo il grosso problema.

Ovviamente si impara strada facendo..altrimenti vai nel burn out, non supporti più i disabili, gli immigrati..se perdi il contatto con te, con la tua realtà (Operatrice Cas)".

Discutendo delle influenze provocate individualmente dal proprio lavoro, la questione della giusta distanza è emersa continuamente. Cosa indica il concetto di giusta distanza, e come altera la quotidianità degli operatori? Il discorso è comune nelle professioni d'aiuto, ove si ha a che fare con le persone. Il lavoro quotidiano con i richiedenti asilo implica un «coinvolgimento emotivo» più o meno marcato.

«Il lavoro sociale deve tenere in considerazione il ruolo delle emozioni, inserendole nel profilo professionale come risorse per l'agire quotidiano. Negare quello che il corpo e le emozioni trasmettono è elemento di stress, che incide tanto sull'equilibrio mentale e fisico, quanto sui comportamenti professionali. La relazione empatica con gli utenti risulta essere cruciale nella loro considerazione (Serrelli 2015, 6-7)». Un eccessivo attaccamento empatico potrebbe portare ad una perdita di controllo della propria professionalità, "considerando le persone esclusivamente per la tragedia che si trovano a portare, tramutandole in soggetti portatori di disgrazia" (Operatrice Cas), viceversa una deficienza empatica rischia di creare un senso d'indifferenza e distacco nella relazione. Lavorare come operatore sociale richiede di «esporsi ai disagi emotivi derivanti dal reiterato e coinvolgente contatto con la sofferenza, dal prolungarsi della tensione emotiva professionale anche nella dimensione personale, dall'incerto confine tra lavoro e vita privata (Iori 2003, 193-194)». Nel momento in cui sorga l'impossibilità di elaborare i sentimenti individualmente e non siano previsti spazi e tempi nelle strutture lavorative per l'espressione dei vissuti ed dei significati degli operatori legati all'assunzione quotidiana di una parte di sofferenza dei soggetti con cui entrano in relazione, si rischia di cadere in quanto viene professionalmente definito burnout. «Emozioni e sentimenti eliminati o soppressi o repressi, che fine fanno?

Questa negazione o rimozione non ammette spazio ai sentimenti, non dà voce alle emozioni, non attribuisce significato a una parte importante dei compiti professionali.

Può essere molto pericoloso, per il lavoro di cura, essere investiti da sentimenti soffocati o ignorati o mal governati, piuttosto che assumerne consapevolezza e utilizzarli come elementi costitutivi della professionalità stessa. Non riconoscerli e non nominarli può far credere di tenerli sotto controllo, ma porta certamente a manifestarli in forme non sempre corrette o compatibili con le funzioni professionali e, soprattutto, con le proprie risorse emotive. Il rischio di un “analfabetismo emozionale”, negato o rimosso con più o meno arroganza, impone i suoi limiti e le sue gravi insufficienze proprio in quei contesti in cui sarebbe necessario comprendere le emozioni dell’altro e saper esprimere le proprie, per non restare paralizzati da incomprensibili problemi di comunicazione, o per non liquidarli ai danni dell'interlocutore (ibidem)». Il coinvolgimento personale riguardo il disagio passato degli utenti, ed i riflessi psicologici sul presente, può essere un fattore di rischio personale per gli operatori, e può sfociare in perdita del controllo dell'interazione in caso di relazioni ingestibili (Dubois, 2018).

Va posta la premessa che l'operatore sociale non è tenuto a conoscere le storie personali degli utenti, in quanto è compito degli operatori legali ricostruire il percorso dei richiedenti asilo in vista del colloquio in commissione, tuttavia accade spesso che, sia per la vicinanza agli operatori, sia per confessioni degli utenti durante i rapporti relazionali, i trascorsi personali degli utenti siano noti.

"Alcuni mi raccontano le storie, o prima o dopo, magari non di tutti..dove c'è la relazione significativa è il ragazzo che mi racconta, a parte se uno viene poi nel servizio psichiatrico, guarda caso le storie che non conosco non sono le relazioni significative, ma non certo e non solo per responsabilità dell'altro ma anche mie, o perché non ho avuto tempo, o non riesco ad essere empatico, o la persona non riesce ad essere empatica con me, o non si ha voglia di venirsi incontro (Operatore Cas)".

La non conoscenza dei trascorsi di vita precedenti, da un lato allevia la sofferenza per contagio degli operatori, dall'altro risulta essere condizione insufficiente alla comprensione dei riflessi psicologici e degli atteggiamenti sociali degli utenti. Una operatrice Cas esplicita tale contraddizione, che potrebbe alterare le possibilità di intervento:

Operatrice Cas: "Io il passato non lo posso cambiare, quello che posso fare è guardare al futuro con loro, una ragione per cui ero stufa di fare il legale, perché è traumatizzante e traumatico, la cosa bella dell'operatore sociale è guardiamo insieme al futuro, perché il passato non lo passiamo cambiare, perché come legale, vere o non vere, ascolti comunque storie massacranti..che poi una base di verità c'è sempre, chi è passato in Libia è stato torturato punto, e quando uomini piangono raccontandolo davanti a te che sei una donna..io ero stanca di tutto ciò, volevo guardare al futuro con i ragazzi, ed io questo futuro lo vedo positivo, non per tutti, ma lo penso, me lo immagino positivo, e cerco di trasmettere in loro questa cosa, anche a chi ha il diniego, chi non ha più speranza in termini di documenti, per ricordare che la loro vita continua. E questo mi aiuta, non a tenere la distanza, ma a trattarli come ragazzi quali sono, che sono in Italia, vanno a scuola e alcuni lavorano. Quello che è passato certo che è duro, non ho la bacchetta magica per cambiarlo, se vorranno un giorno lo affronteranno..dopo si sbaglia,

premesso che quando si lavora con le persone e tenti di essere uguale con tutti, si sbaglia, però la tendenza è quella, di tentare di dare una possibilità a tutti, un sorriso a tutti, un ascolto a tutti e ognuno poi ha un percorso diverso che è quello che scelgono loro..anche questa cosa qui spesso si da per scontata..anche loro, se tu hai scelto di essere qui in qualche modo l'hai scelto, che si prendano le loro responsabilità, non riesco a vederle come vittime".

NM: "Conoscere il percorso individuale aiuta?"

Operatrice Cas: "Sì, non perché cambi il comportamento però almeno sai che certi argomenti non li puoi trattare, o puoi farlo in maniera ragionata..tipo questo qua: non sai se la figlia è la sua..noi continuavamo a insistere sul perché non prendesse in braccio sua figlia..poi se l'avessi saputo non gli avrei fatto una testa così sul fatto che lui non fosse un buon padre..oppure quando loro ti spiattellano alcune cose in faccia, magari non sei preparato neanche a riceverle..uno di loro, eravamo in bicicletta e mi raccontava degli stupri a sua moglie in carcere.. "rape you rape you" mi ripeteva..resti li così dici cazzo..cioè io le vedo tutti i giorni per carità, però secondo me aiuterebbe si".