• Non ci sono risultati.

l’ordinamento comunale

3.5. Gli artefici fiorentini e i loro libri contabil

“Et in detto palazzo297 per ornamento fece fare298 ferri di finestre mirabili a campanelle con bellissimo garbo, e similmente le lumiere su canti che da Niccolò Grosso Caparra299, fabbro fiorentino furono con grandissima diligenza lavorate. (…) Era Niccolò Grosso persona fantastica e di suo capo, ragionevole nelle sue cose e d’altri, né mai voleva di quel d’altrui. Non volse mai far credenza a nessuno de’ suoi lavori, ma sempre voleva l’arra, e per questo Lorenzo de’ Medici lo chiamava il Caparra a da molti altri ancora per tal nome era conosciuto. Egli aveva appiccato alla sua bottega una insegna, nella quale erano alcuni libri ch’ardevano; per il che, quando uno gli chiedeva tempo a pagare, gli diceva: “Io non posso, perché i miei libri abbruciano e non vi si può più scrivere debitori.” ”300

Il passo appena citato, che vede come protagonista l’arguto fabbro fiorentino Niccolò Grosso, è un’efficace testimonianza della pratica diffusa di tenere, presso qualsiasi tipo di attività artigianale, i registri della contabilità. Questa consuetudine amministrativa perdurò fino al XIX secolo: pur non essendo più un obbligo corporativo, la gestione della contabilità di un’impresa artigianale per mezzo dei libri di commercio era diventata una ormai consolidata tradizione gestionale, che veniva tramandata, insieme al sapere pratico, di maestro in allievo.

Questa consuetudine, mantenutasi nel tempo, amplia notevolmente un già vastissimo campo di azione, in cui lo storico dell’arte intenda indagare per ricostruire le complesse dinamiche gestionali di una impresa artigianale, centro di produzione artistica. In particolare, come nel presente studio, essa offre ampie prospettive riguardo l’analisi di una bottega fiorentina di pittura, attiva durante il XV secolo.

Dobbiamo tenere presente che, nella sola Firenze, fra il XIV e XV secolo, furono operanti più di mille botteghe artigiane, inerenti praticamente ogni aspetto dell’attività umana.

Occorre inoltre considerare che accanto alle botteghe di pittura, di oreficeria, di scultura (per quanto riguarda i settori artisticamente più rilevanti), nella Firenze quattrocentesca erano altrettanto attive numerose botteghe artigiane, capaci di

297 N.d.r.: Palazzo Strozzi a Firenze.

298 N.d.r.: Filippo di Matteo Strozzi il Vecchio. Il suo palazzo fu edificato nel 1489.

299 Su Niccolò Grosso, detto ‘il Caparra’ non esistono ulteriori notizie certe: sappiamo soltanto che, il 16

Novembre 1500, stava lavorando ai ferri per Palazzo Strozzi, di cui gran parte esiste tuttora.

300

88

soddisfare la richiesta di qualsiasi merce o manufatto: i tessitori di lana, di seta e di lino, i sarti, i calzolai, i battiloro, i conciatori, i cuoiai, i bicchierai, i merciai, i fabbri, i calderai, i fornaciai, i biadaioli, i vaiai, i funaioli, gli armaioli, i cartolai, i guantai, i lanciai, gli orpellai, i legnaioli, i pellicciai, i ramai, gli scalpellini, i tintori, i velettai, i sellai, i librai, e molti altri ancora301.

Se compiliamo un veloce spoglio delle 135 Vite di artisti compilate da Giorgio Vasari, presenti nell’edizione torrentiniana, ed aggiungiamo ai nomi dei 135 artisti più rinomati quelli degli artisti “minori”, che vengono occasionalmente menzionati, raggiungeremo il cospicuo numero di circa 1500 nominativi di artisti meno noti e di artigiani che intrattennero rapporti commerciali tra di loro per forniture di manufatti semilavorati. Incontriamo, lungo questo cammino storico-artistico che abbraccia due secoli, i nomi di numerosi artigiani specializzati molto attivi a Firenze, come il succitato fabbro ‘Caparra’, ed anche artisti all’epoca rinomati, ma che noi oggi consideriamo come personalità artistiche “minori”: molti sono diventati veri e propri sconosciuti, perché di essi ci restano solamente i nomi, essendosi finora perdute le tracce delle loro opere. Nella prima edizione delle “Vite”, il Vasari spiegò, nel noto preambolo alla vita del Perugino, la grandezza della tradizione artistica della propria città non tanto riferendosi al genio degli artisti che vi operavano, quanto mettendo in risalto la

virtuosità degli artefici fiorentini.

Al giovane Pietro Perugino, desideroso di apprendere il mestiere di pittore, alla richiesta di quale fosse il luogo dove avrebbe trovato un ottimo maestro, fu risposto “sempre di un medesimo tenore, ciò è che in Firenze, più che altrove

venivano gli uomini perfetti in tutte l’arti e specialmente nella pittura. Atteso che in quella città sono spronati gli uomini da tre cose: l’una da ‘l biasimare che fanno molti e molto, per far quell’aria gli ingegni liberi di natura, e non contentarsi universalmente dell’opere pur mediocri, ma sempre più ad onor del buono e del bello, che a rispetto del facitore considerarle; l’altra che a volervi vivere bisogna essere industrioso, il che non vuol dire altro che adoperare continuamente l’ingegno et il giudizio et essere accorto e presto nelle sue cose, e finalmente saper guadagnare, non avendo Firenze paese largo et abbondante, di maniera che e’ possa dar le spese per poco a chi si sta, come dove si truova del buono assai. La terza, che non può forse manco dell’altre, è l’ambizione che genera quell’aria, la quale in tutte le persone che hanno spirito, non pur consente che gli uomini voglino stare al pari, nonché restare in dietro a chi e’ veggono essere uomini come son essi, benchè gli riconoschino per maestri; ma gli sforza bene spesso a desiderar tanto la propria grandezza, che se non son

301 Cfr.: C. Cattaneo Barbieri, Nomi di mestieri a Firenze nel Duecento e nel Trecento, in: “Lingua nostra”, XIII,

89

benigni di natura o savi, riescono mal dicenti, ingrati e sconoscenti de’ benefizii”302.

Quindi, come il Vasari tiene a spiegare, la bravura degli artigiani di Firenze era motivata principalmente dalla forte concorrenza e competizione che esisteva fra di loro sul mercato e si traduceva in una estrema specializzazione da parte di ognuno di essi in ogni campo della produzione, e in special modo in quella artistica303.

Proprio questi innumerevoli artefici, figure oscure nella storia dell’arte, oltremodo affascinanti proprio per la loro presenza evanescente all’interno del panorama storico-artistico, aspettano di essere riportati alla luce e che venga loro riconosciuta l’importanza del ruolo che essi svolsero, sul piano sociale e culturale, durante la loro epoca.

Questa riscoperta può avvenire, nel caso più fortuito ed atteso, grazie al ritrovamento dei loro manufatti, ma deve soprattutto avvenire per mezzo di una nuova generazione di studi, che mostrino la volontà di ricerca in favore di una “storia dell’arte che non c’è”304, mediante un approccio scientifico orientato verso un’attenta analisi dei documenti e delle testimonianze dirette, involontariamente lasciate da quegli stessi artefici: il libro dei conti, dunque, che si dimostra fonte diretta per eccellenza.

La consapevolezza dell’esistenza di questo vasto numero di artefici ci pone di fronte ad un panorama di notevole vastità e complessità, se pensiamo che ognuno di questi artigiani deve aver posseduto, all’interno della propria bottega, un certo numero di libri contabili, tenuti regolarmente lungo il corso della propria attività.

Di questa potenziale “montagna cartacea”, accumulatasi nel corso di alcuni secoli, la città di Firenze conserva un buon patrimonio, calcolabile in diverse centinaia di esemplari di libri contabili appartenuti soprattutto ai piccoli artigiani. Questi manoscritti risultano sparsi tra numerosi archivi, sia pubblici che privati, come ha già riscontrato e dato notizia Alessandro Guidotti305.

Per quanto riguarda gli Archivi pubblici di Firenze, esistono straordinarie concentrazioni di libri contabili originali soprattutto in tre luoghi: L’Archivio di

302

Cfr.: G. Vasari, op. cit., I, p. 529.

303 Sulla libertà e versatilità del mercato artigiano fiorentino, cfr.: R. Goldthwaite, La cultura economica

dell’artigiano, in: La grande storia dell’artigianato. Vol. I, il Medioevo, a cura di G. Fossi, F. Cardini, P.

Galluzzi, Firenze, 1998, pp. 57-73.

304 Questa definizione è stata usata per la prima volta da Bruno Toscano in: Vademecum per una storia dell’arte

che non c’è , in: Roma moderna e contemporanea, n° 1-2, Roma, 1998, pp. 14-33.

305 Cfr.: A. Guidotti, Per una definizione (ed un censimento) di una tipologia di fonte archivistica: il “libro di

bottega”, in: Studi in onore di Arnaldo d’Addario, a cura di L. Borgia, F. de Luca, P. Viti, R. M. Zaccaria,

Lecce, 1995, I, pp. 145-164. Il prof. Guidotti si dedica ormai da decenni all’indagine approfondita dei libri di bottega fiorentini, attinenti tutti i mestieri connessi alle arti, cronologicamente redatti entro il XVI secolo.

90

Stato, l’Archivio dello Spedale degli Innocenti e la Biblioteca Nazionale Centrale.

Il primo per importanza é l’Archivio di Stato, presso cui si trovano tre fondi notevolmente ricchi di questo tipo di documenti: il celebre fondo delle “Carte

Strozziane”306, dal nome del loro proprietario, l’erudito Carlo di Tommaso Strozzi, che possono essere di fatto considerate una vera e propria circoscritta collezione, in cui sono confluiti numerosi pezzi provenienti dagli archivi di famiglie private e di confraternite religiose soppresse; vi è poi il fondo specifico n° 370 “Libri di commercio”, che possiede quasi millenovecento pezzi, risalenti ad un periodo storico compreso tra il 1413 e la metà del Settecento; ed infine il notevole fondo dei “Pupilli avanti il Principato”, ai nostri giorni ancora in gran parte inesplorato.

Quella dei ‘pupilli’ fu una magistratura pubblica fiorentina, sorta intorno alla seconda metà del Trecento, che nello specifico si occupava dell’amministrazione dei beni, mobili ed immobili, che appartenevano alle vedove e soprattutto agli orfani ancora minorenni, detti appunto pupilli nel fiorentino dell’epoca307.

Il secondo luogo è l’Archivio dello Spedale degli Innocenti che, nel “Fondo

estranei”, raccoglie una notevole quantità di scritture memorialistico-contabili di

numerosi privati cittadini, confluitevi nel corso dei secoli in seguito ai lasciti testamentari che costoro facevano all’Ospedale. Nel suo complesso questo fondo, scoperto dagli studiosi italiani e stranieri a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso, consiste quasi esclusivamente dei documenti contabili che erano appartenuti ai donatori per la gestione delle loro attività imprenditoriali, oppure per l’amministrazione di beni patrimoniali, ma anche per la gestione delle spese domestiche. I donatori appartenevano alle più diverse estrazioni sociali: dagli esponenti di spicco della politica e dell’economia cittadina dei secoli passati, ai semplici artigiani e bottegai. Grazie all’abbondanza di questo materiale, l’Archivio degli Innocenti è una vera e propria miniera, nella quale gli storici possono indagare su tutti gli aspetti del mondo privato a Firenze durante il Rinascimento: da quelli inerenti la storia economica a quelli inerenti la ricerca storico-artistica308.

Il terzo luogo è la Biblioteca Nazionale Centrale, in cui si trovano, oltre ai numerosi archivi di famiglie private e di confraternite religiose soppresse, che hanno costituito il veicolo, nel tempo, della preziosa documentazione che aveva

306 Cfr.: C. Guasti, Le carte strozziane nel R. Archivio di Stato in Firenze. Inventario, Firenze, 1884. 307

Cfr.: A. Guidotti, Gli inventari del magistrato fiorentino dei Pupilli come fonte lessicale, in: Convegno

nazionale sui lessici delle arti e dei mestieri. Contributi, Firenze, 1979, pp. 233-285.

308 Un esempio notevole di approccio pluridisciplinare allo studio dei libri contabili, conservati presso l’Archivio

dello Spedale degli Innocenti di Firenze, è costituito dai contributi presenti in: Gli Innocenti e Firenze nei secoli:

91

accompagnato la ricchezza nell’atto di donazione, anche le numerose serie di libri contabili appartenuti alle società commerciali dei Capponi e dei Ginori. I libri dei conti, così rari nel caso di quelli appartenuti ad artisti, sono invece sopravvissuti in quantità impressionante per quanto riguarda il ceto artigiano fiorentino, e costituiscono un patrimonio archivistico documentario che é unico in tutta Europa, poiché forniscono una vasta documentazione della vita economica, in epoca medioevale e rinascimentale di questo ampio strato sociale della popolazione urbana.

Firenze non è la sola città della Toscana a possedere numerosi esemplari di libri contabili appartenuti al ceto artigiano: anche gli Archivi di Siena, Prato, Perugia309 ed Arezzo310 ne possiedono un notevole patrimonio documentario. La motivazione per questa abbondanza documentaria concentrata in area toscana è stata così spiegata dal Doren: “Conviene osservare come l’amministrazione

statale fiorentina, ed in particolare quella delle arti, avessero una predilezione per le scritturazioni e quasi potremmo dire che rivaleggiassero con la burocrazia moderna, e di ciò sta ad attestare la ricchezza straordinaria dell’Archivio di Stato di Firenze, in cui si trova una vera miniera di atti amministrativi del Trecento e sovratutto del Quattrocento, sino ad oggi in gran parte inesplorata.”311

Federigo Melis tornò su questo aspetto nel 1972: “Questa incalcolabile

ampiezza e consistenza (…) di scritti del genere è dovuta, in primo luogo, ad una circostanza propria delle città dell’entroterra e precipuamente di quelle toscane: le grandi dimensioni delle aziende di tali città; grandi non soltanto per la ricchezza investita, ma pure per il numero delle persone impiegatevi da proprietarie e da dipendenti (…). Si aggiunga –dato che questi documenti diventano più cospicui a partire dalla seconda metà del XIV secolo- che siamo nell’atmosfera umanistica, alla quale non rimangono estranei l’ambiente ed i soggetti della vita economica. (…) La condizione di aziende ‘grandi’ (quelle dei Salviati, Medici, Borromei e Cambi) ha agito a nostro favore, oltre che per la vastità della informazione, per la maggiore ‘resistenza’ che i loro complessi documentari hanno avuto nel cammino dei secoli: erano aziende o sistemi di aziende che annoveravano quasi tutti gli esponenti del casato, con prosecuzione dei loro interessi patrimoniali di generazione in generazione, traendo seco la relativa documentazione alla quale si ambì riservare spazio apposito nei ricchi

309 Cfr.: G. Cecchini, Archivio di Stato di Perugia, Archivio Storico del Comune di Perugia. Inventario, Roma,

1956; in questa sede, cap. I, par. II, nota 33.

310 Cfr.: A. Antoniella, L’Archivio della Fraternita dei Laici di Arezzo, Milano, 1989.

311

92

palazzi di Famiglia, intanto eretti, provvedendo così ad una accurata e sicura archiviazione.”312

La permanenza negli archivi toscani di un abbondante numero di libri contabili appartenuti al ceto medio artigiano può essere spiegata con le medesime ragioni, poiché anche i loro documenti, come quelli delle grandi famiglie, confluivano nei lasciti e nelle donazioni alle istituzioni religiose, dove hanno potuto superare le ingiurie del tempo, preservandosi fino ad oggi.

312

93

Capitolo 4. Vita in bottega