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l’ordinamento comunale

3.3. L’alfabetizzazione di mercanti e artigian

Alla luce di quanto visto finora, possiamo con certezza affermare che in ogni esercizio commerciale attivo nella città di Firenze285, almeno uno dei soci o degli impiegati possedeva un grado di alfabetizzazione che, oltre a permettergli di sapere leggere e scrivere, lo rendeva in grado di tenere la contabilità dell’azienda secondo dei criteri di ordine prestabiliti. Come ha sottolineato il Doren, dobbiamo riflettere sul fatto che questo avveniva: “in un’epoca in cui in

Germania solo pochi emergevano tra la massa per essere a mala pena forniti di istruzione elementare.”286

La crescente alfabetizzazione a Firenze a partire dalla prima metà del Trecento287 fu un fenomeno storico di entità rilevante sul piano sociale, soprattutto se pensiamo che si estese fino allo strato medio della popolazione, cioè quel ceto di piccoli artigiani e bottegai che fu in grado di compilare autonomamente i propri libri contabili, le proprie denunce catastali288, ed i propri libri di memorie.

284

Cfr.: La prima pubblicazione dell’Inventario dei beni di Cellini si deve a: E. Plon, Benvenuto Cellini. Orfévre,

médailleur, sculpeteur, Paris, 1883, pp. 383-384.

285 Dobbiamo precisare che questo tipo di scritture era comunque in uso e prevedeva lo stesso obbligo legale in

molte altre città mercantili italiane, quali Venezia, Siena, Pisa, Lucca e Genova.

286 A. Doren, op. cit., I, p. 169.

287

Sull’argomento si vedano: A. Petrucci e L. Miglio, Alfabetizzazione e organizzazione scolastica nella

Toscana del XIV secolo, in: La Toscana nel secolo XIV: caratteri di una civiltà regionale, Pisa, 1988, pp. 465-

484; C. Klapisch-Zuber, Le chiavi fiorentine di Barbablù: l’apprendimento della lettura a Firenze nel XV secolo, in: “Quaderni storici”, LVII, 1984, pp. 765-792.

288 Si vedano: E. Conti, I catasti agrari della Repubblica fiorentina e il catasto particellare toscano, Roma, 1966, p. 35, che specifica: “la maggior parte delle denunce dei proprietari cittadini sono autografe”; C.Klapisch-Zuber e D. Herlihy, I toscani e le loro famiglie. Uno studio sul catasto fiorentino del 1427, Bologna, 1988, p. 107 e sgg.

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L’apprendimento dell’aritmetica nelle sue quattro funzioni basilari era già nel Medioevo uno degli elementi di base della formazione scolastica; questa avveniva presso la Scuola d’abbaco289, a cui si accedeva in un momento successivo alla formazione elementare, che i bambini fiorentini affrontavano all’incirca fra il quinto ed il settimo anno di età, come testimoniato nelle

Ricordanze del calderaio fiorentino Bartolomeo Masi290, oppure in quelle del pittore Neri di Bicci, che nel proprio registro contabile, fra le altre cose, annota: “A dì 22 d’otobre 1455 posi al’abacho Lorenzo mio primo figliuolo cho maestro

Mariano che sta lungharno tra ‘l Ponte Vechio e ‘l Ponte a Santa Trinita di là d’Arno: era d’anni otto.”291

Poiché l’aritmetica era, secondo la distinzione del sapere medioevale, una delle sette arti liberali, occupava una posizione di rilievo nel sistema d’istruzione già durante il XIII secolo, e veniva insegnata non solo come strumento tecnico per una specifica utilizzazione in campo pratico, ma anche con intenti di carattere formativo. Verso la metà del Trecento, il mercante e cronista Giovanni Villani, che fu prima operatore bancario per conto dei Peruzzi in Francia e nelle Fiandre, e poi mercante in proprio a Firenze, scriveva nell’undicesimo libro della sua

Cronica292 che nella propria città, durante l’anno 1338, si insegnava l’aritmetica

ad un grado più avanzato in sei scuole pubbliche, le cosiddette botteghe

d’abbaco, numerose anche a Lucca e Venezia, ad un numero complessivo di

alunni compreso fra i 1000 ed i 1200; questo avveniva in anni in cui la popolazione complessiva della città di Firenze ammontava a circa 90.000 abitanti. E’ molto probabile che la cifra sia stata gonfiata dal Villani, che la riporta nel capitolo sulla grandezza e magnificenza del comune di Firenze, includendo anche i ragazzi provenienti dai centri vicini; seppure con le dovute riserve riguardo alla veridicità statistica di queste notizie, è un dato di fatto che una vasta fascia della popolazione fiorentina, soprattutto maschile, beneficiasse, oltre che di un primo ciclo di istruzione scolastica in cui si imparava a leggere e scrivere, paragonabile all’odierna scuola elementare, anche di una istruzione di grado secondario che prevedeva una sorta di “specializzazione” per quanto riguardava l’approfondimento dell’aritmetica applicata alla contabilità.

Il tipo di insegnamento che veniva impartito nelle Scuole d’abbaco era per la massima parte affidato alla dimostrazione orale, ma tra i sussidi di base di questa formazione troviamo anche i cosiddetti Libri d’abbaco, manuali dalla struttura

289 Col termine abbaco si indicò in tutta Italia, a partire dal Medioevo, l’arte di fare i conti, intesa cioè come aritmetica applicata alla pratica della mercatura.

290 Cfr.: G. O. Corazzini, Ricordanze di Bartolomeo Masi…(op. cit.), p. 89.

291 Cfr.: N. di Bicci, Le Ricordanze…, (op. cit.), ricordo 74, p. 38.

292 Cfr.: G. Villani, Cronica, con la continuazione di Matteo e Filippo, a cura di G. Aquilecchia, Torino, 1980, p.

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sostanzialmente uniforme, senza pretesa di originalità o ricerca, che vennero redatti da maestri di scuola dalla modesta preparazione letteraria, di cui ci è pervenuto un buon numero di esemplari manoscritti e di edizioni a stampa. Questi testi trattano un’aritmetica sostanzialmente pratica, basata sul sistema monetario fiorentino, con qualche concessione a semplici regole mnemoniche, e si affidano soprattutto ad esempi e problemi strettamente legati al mondo mercantile: l’unico mondo possibile con cui il giovane fiorentino medio si sarebbe dovuto rapportare nel corso della propria vita.

L’affidamento dei figli ad un maestro d’abbaco era un evento meritevole di registrazione nei libri di memorie familiari del ceto medio artigiano: il calderaio Bartolomeo Masi annota con un moto d’orgoglio nelle proprie Ricordanze che egli, insieme al fratello, entrò a frequentare la Scuola d’abbaco nel 1489 all’età di nove anni e che vi uscì dopo un anno, per entrare a lavorare nella bottega del padre, che esercitava a sua volta la professione di calderaio. Il piccolo Bartolomeo, alla tenera età di undici anni, era già in grado di tenere i conti dell’attività paterna in un Libro di entrate e uscite.

L’obbligo di tenuta dei libri di commercio fu un mezzo di controllo diretto e capillare delle Arti, per mezzo degli ufficiali preposti a questo compito, per verificare l’applicazione delle leggi da loro emanate sulla compra-vendita, nel rispetto della guarentigia293 da parte di ogni singolo mercante o bottegaio

fiorentino.