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Gli effetti dell’amnistia del 1932.

4 “Podestà, capibastone e maestri di sgarro” La prima ondata repressiva fascista (1927-32).

5. Tra amnistia e recrudescenza.

5.1 Gli effetti dell’amnistia del 1932.

La prima repressione fascista poteva considerarsi conclusa con l’amnistia del novembre 1932, emanata in occasione del decennale della marcia su Roma. In virtù di questo provvedimento, anche molti picciotti e camorristi delle provincie calabresi si videro prosciogliere dal reato di associazione a delinquere o usufruirono di una riduzione di pena; cosa non priva di conseguenze in un ambiente di malavita, tanto più se si considera la resistenza e la recrudescenza di quest’ultima anche a seguito delle azioni repressive. Alcuni casi sono, a questo proposito, emblematici.

Nel 1933 giunse a sentenza il processo contro la sezione della famiglia Montalbano attiva a San Lorenzo e Condofuri fin dal 1920376. Già a partire dal 1921 i carabinieri avevano denunciato

“parecchi individui per associazione”, ma nel 1925, a conclusione del relativo processo presso la Corte di Assise di Reggio, “i signori giurati dettero verdetto negativo”377. C’è una nota polemica

in queste parole: tra le righe i giudici sembrano sostenere che gran parte della responsabilità della mancata repressione della criminalità fosse da imputare alle giurie popolari che, come già nel 1919 rivelava il procuratore di Catanzaro Loffredo Rodolfo, “si formavano normalmente con persone del luogo, oneste e probe, anche capaci, sia pure”, ma che difficilmente riuscivano “a sottrarsi ai sentimenti di simpatia o antipatia, alle relazioni di amicizia, ai rapporti di clientela”378.È evidente che quest’affermazione, pur non richiamando direttamente la

criminalità organizzata, fosse valida a maggior ragione laddove ad esercitare le pressioni erano uomini della malavita, tanto più che non erano rari i casi in cui giudici, ma anche prefetti e delegati di PS, parlavano di scarsa collaborazione da parte della popolazione del luogo e di diffusa omertà.E infatti, scrivevano i giudici di Reggio a proposito dell’assoluzione del 1925 nei confronti della malavita di San Lorenzo,

376 ASME, CAssRC, Sentenza Abenavoli Giuseppe + 32, 23 febbraio 1933, b. 442. (inedita) 377 Ibid.

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la malavita così tornò a San Lorenzo più tracotante e vi fu un continuo intensificarsi dei delitti di sangue e contro la proprietà, di aggressioni e di intimidazioni, senza che i colpevoli venissero raggiunti e spesso anche non denunziati per timore di maggiori danni379.

La criminalità si sentiva autorizzata, perciò, ad esercitare il proprio potere con una certa durezza, imponendo il proprio dominio nei più svariati ambiti della vita sociale:

la iscrizione era ritenuta necessaria per trovare il mezzo di lavorare, per non essere disturbati nello scegliere la ragazza da impalmare, per avere libertà di contrattare e commerciare. I capi poi si servivano del numero e della forza per comandare, sfogare vendette, sopprimere anche chi attraversava la via. Ma in questo il dibattimento ha mostrato che alla Società, che osavano chiamare “onorata”, aderivano anche benestanti e che era costituita esclusivamente per il furto, la rapina, lo sfregio e poi l’omicidio380.

Con la fase repressiva apertasi nel 1927 l’associazione di San Lorenzo fu condotta nuovamente in tribunale, ma, come per altri procedimenti di questo stesso periodo, il processo si svolse a cavallo dell’amnistia, con il risultato che, nonostante gli accertamenti giudiziari sull’esistenza della malavita e sulle responsabilità dei singoli associati, molti imputati vennero prosciolti o ebbero una notevole riduzione di pena: dei trentatré imputati per associazione a delinquere, infatti, uno fu assolto per insufficienza di prove e undici perché il reato venne considerato estinto per l’amnistia del 5 novembre 1932; dei venti imputati condannati, inoltre, ben nove usufruirono, per il decreto del 1932, del condono di parte della pena che in molti casi si ridusse ad uno o due anni di galera ed in un caso venne azzerata.

Allo stesso modo, nella sentenza contro la malavita di Ortì, Gallico e Laganadi, dei trenta imputati condannati per associazione a delinquere, a ventotto venne concesso il condono: nella maggior parte dei casi condanne di quattro o cinque anni vennero ridotte di tre anni381.

Nel luglio del 1933, invece, in seguito alle indagini contro l’associazione di Santo Stefano e Podargoni, molti furono gli imputati prosciolti:

Il Giudice Istruttore con sentenza 12 aprile 1932, rinviò al giudizio di questa corte di Assise più di Ottanta individui per rispondere tutti di associazione per delinquere e alcuni per gli altri reati rubricati. In seguito al R.D. di amnistia e condono del 5 novembre scorso, per la quasi totalità, prima ancora di portare il processo ad udienza, fu dichiarato estinto il reato di associazione, e rimasero poi al giudizio gli imputati sopra

379Sentenza Abenavoli Giuseppe + 32, cit. 380 Ibid.

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rubricati, o perché non potevano beneficiare della amnistia per i precedenti penali o perché avevano imputazioni maggiori382.

Interessante anche il caso dell’associazione di Armo di Gallina, il cui procedimento si svolse a cavallo dell’amnistia. Questo caso rivela come, nonostante le molte evidenze emerse nel corso di tutti gli anni ’20 e anche precedentemente, l’associazione avesse goduto di una lunghissima impunità, durata dal 1914 al 1932 (data dei primi arresti). Nel 1934 giunse finalmente un verdetto di condanna a danno di molti affiliati, ma le pene comminate furono fortemente edulcorate dal decretodi condono383. L’associazione aveva, quindi, attraversato indenne tutti gli

anni ’20 e anche la prima ondata repressiva che si era abbattuta su altri paesi dello stesso territorio. Ciò era avvenuto grazie alla diffusa omertà e grazie anche all’inadempienza, forse interessata, di alcuni funzionari dell’arma, che si sommava a quella manifestata, negli anni precedenti, dai giudici istruttori e dai giurati. Tutti questi elementi rivelavano, nonostante la visibilità criminale, la capacità di controllo e condizionamento esercitato dalla malavita.

Scrivevano i giudici che ad Armo era “scopo della malavita di avere il predominio negli affari, nei posti di guardiano e negli appalti, ingerenza nelle locazioni, nei matrimoni, e in ogni ramo di attività dove c’è da carpire denaro”. Una di queste attività riguardava la produzione di bergamotti:

L’impero della malavita si estendeva anche al controllo e dominio dell’amministrazione dei ricchi fondi coltivati a bergamotti, che i proprietari davano in colonia ai contadini di Armo. E così tra gli affiliati dovevano essere scelti i guardiani; i coloni facenti parte dell’organizzazione delittuosa non dovevano essere sottoposti alle giuste sanzioni da parte dei proprietari; non dovevano essere licenziati dalla colonia se immeritevoli, ed i guardiani, persone di fiducia dei padroni, se erano fuori dalla malavita, dovevano chiudere gli occhi e sottostare alle imposizioni, o diversamente venivano soppressi384.

Già nel 1914 l’avvocato Zagari aveva denunciato che nei fondi della donna che aveva da poco sposato “trovò il disordine perché i veri padroni erano i coloni, e denunziava sin da allora che molti di essi erano organizzati nella malavita”. La sua ferma volontà di resistere al prepotere mafioso condusse, in un’escalation di minacce e intimidazioni, all’omicidio dell’ex carabiniere Domenico Zema, che l’avvocato Zagari aveva scelto come fattore perché denunciasse gli abusi dei coloni e lo aiutasse nell’opera di epurazione. Conscio del rischio di essere ucciso, lo Zema

382Sentenza Filastò Francesco + 11, cit.

383ASME, CAssRC, Sentenza Cama Quinto + 23, 27 aprile 1934, b. 443 (Inedita).

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lasciò una lunga memoria, indirizzata “ai Giudici”, contenente circostanziate denunce che investivano persino Nicola Fortugno, capo della malavita di Armo, allora emigrato in America, il quale, proprio dagli Stati Uniti, aveva scritto una lettera con la quale mostrava il suo interessamento perché alcuni coloni non fossero licenziati. A questa memoria si aggiunsero le denunce dell’avv. Zagari e della moglie dell’ucciso raccolte dai carabinieri, i quali così fermarono svariati individui sospettati di appartenere alla malavita. Il pubblico ministero però chiese solo il mandato di cattura per i due coloni accusati di essere gli esecutori materiali del delitto, “gli altri non furono rubricati, né intesi nemmeno come testimoni”385. Inoltre non furono tenute nella

giusta considerazione le denunce racchiuse nella lettera “ai giudici” di Domenico Zema e le testimonianze della moglie di quest’ultimo e quelle dell’avvocato Zagari, proprietario del fondo di bergamotti; gli alibi avanzati dagli imputati non furono adeguatamente verificati ed analizzati come prova del “legame criminoso che li univa ad altri” e nonfurono condotte indagini nemmeno sui nomi segnalati dai carabinieri.

Nel ricostruire tutti questi episodi, i giudici descrivevano una certa inadempienza e grossolanità – difficile dire se interessata o meno – nel condurre le indagini contro la presenza della malavita, cosa che permise all’associazione di continuare a gestire le proprie losche trame impunemente, tanto più che il capo Nicola Fortugno si affrettò a tornare dall’America per riprenderne la direzione e rafforzarne le fila.

La stessa dinamica si verificò in occasione della rapina e poi dell’omicidio, nel giugno del 1924, di Salvatore Libri, capo dell’associazione di Musorrofa, con la quale l’associazione di Armo era entrata in conflitto per il controllo del servizio di scarico al porto di Reggio. I giurati condannarono solo l’esecutore materiale del delitto. Registravano i giudici che

… in questo processo i RR.CC. parlavano di malavita, di associati, ma la istruttoria si limitò ai due fatti, quello della rapina e quello dell’omicidio, ma nessuna indagine sull’associazione. Altri delitti furono dopo commessi da diversi degli imputati (…) e sempre i RR.CC. riferivano che si trattava di gente di malavita, ma nessuno pensava di indagare sul serio per stroncare l’associazione386.

Ancora, nel 1930, stavolta in pieno periodo fascista, mentre altrove, nella stessa provincia di Reggio, si stavano svolgendo imponenti indagini e si stavano preparando i primi processi, si verificò un episodio che rivelava sia un aspetto del forte potere mafioso sia, per contro, un ingiustificato ulteriore disinteresse delle forze inquirenti. Ad accendere nuovamente i riflettori

385ASME, CAssRC, Sentenza Cama Quinto + 23, 27 aprile 1934, b. 443 (Inedita). 386 Ibid.

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sulla presenza della malavita ad Armo di Gallina fu, stavolta, Nicola Zema, che fino a quel momento aveva sopportato quanto il potere criminale aveva orchestrato ai suoi danni: Nicola Zema era il fratello di Domenico, il fattore dell’avv. Zagari ucciso oltre quindici anni prima; la malavita, mettendo in moto la propria organizzazione e confidando sulla diffusa omertà, aveva fatto ricadere su di lui i sospetti dell’Arma per l’omicidio del fratello.

Lo Zema Nicola sopportava da anni la cappa di piombo di quel sospetto. Gli fu ritirato il permesso di porto di fucile, fu esonerato dal servizio di guarda campestre privata, si vide respinto la domanda presentata dal figlio per l’arruolamento nell’Arma387.

Decise perciò di denunciare i reali assassini ma, ancora una volta, “il comandante del tempo, un vice brigadiere, non dette peso alla denuncia”.

La svolta arrivò solo nel 1932, quando fu inviato ad Armo il maresciallo Caiazzo che riuscì ad accertare le responsabilità e denunciò l’associazione a delinquere. Appare rilevante il fatto che nel corso delle indagini emerse il nome ‘ndrangheta: si legge, infatti, che “per l’associazione, il Caiazzo denunziava che aveva nome ‘ndrangata, gergo proprio, inintelligibile ai profani”388, il

che lascia sospettare che in relazione alla criminalità organizzata della provincia di Reggio fosse già diffuso prima ancora di diventarne il nome identificativo.

Dopo questo lungo periodo di impunità, delle ventidue persone condannate per associazione a delinquere nel 1934, ben tredici ottennero il condono di tre anni della pena: dieci di loro invece di scontare una pena di cinque anni rimasero in carcere solo due anni, altri due imputati rispettivamente tre e quattro anni, mentre l’associato Del Zaino si vide condonata l’intera pena. Un episodio in tutto simile a questo si è verificato in relazione alle associazioni di Scilla e Solano, sulla costa tirrenica. In ben due occasioni la malavita dei due paesi fu duramente colpita: rispettivamente nel 1931 e nel 1934 furono, infatti, condannati due gruppi di affiliati accusati di avere commesso due omicidi nel 1923 e nel 1926. Le condanne arrivarono dopo lunghe indagini perché la malavita si era dimostrata in grado di depistare le forze inquirenti, complice l’inadempienza e la mancanza di coraggio di alcuni funzionari locali. Non fu, tuttavia, giudicata l’associazione, nonostante la causale di malavita che stava dietro ai due omicidi, fosse fin da subito più che mai evidente. si era resa più che mai evidente389. La criminalità organizzata

387 Ibid.

388 Ibid. (Le parti in corsivo sono sottolineate nella sentenza).

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di Solano, inoltre, doveva essere cosa ben nota390: Il brigadiere Ciappina, infatti, nel 1927, si

limitò semplicemente a rivolgersi al delegato podestarile Giovanni Bueti “perché con apposite riservate indagini” riferisse “in linea del tutto confidenziale intorno agli appartenenti alla malavita e ai reati da essa commessi”. Nel giro di pochi mesi il delegato podestarile consegnò al

maresciallo una “riservatissima” nella quale si “narrava la storia criminale

dell’associazione”391.Le preziose informazioni contenute nella lettera non condussero, però, a

nessun risultato. Il brigadiere, infatti, scrivevano i giudici, “tenne con sé quella riservata per ben tre anni senza procedere a nessun verbale” finché le indagini non furono affidate al maresciallo Petrosillo392. Questi, stilò un verbale di denuncia nel luglio del 1932. Gli associati si

presentarono con estrema disinvoltura di fronte al giudizio della corte di Assise che riuscì a formulare una sentenza solo nel 1938: gli avvocati difensori, infatti, dichiaravano l’innocenza degli imputati e in ogni caso ripetevano “che l’accusa sarebbe stata stroncata con l’amnistia del decennale”393.

Avevano ragione. Gli imputati furono giudicati colpevoli del reato di associazione a delinquere, ma per tutti gli affiliati, tranne uno, la pena fu condonata di quattro anni, in virtù del regio decreto del 1932, cui si aggiunse quello del 1937. Ciò permise a molti di evitare il carcere. Suona quasi sarcastica la fiducia dei giudici di Reggio Calabria che “la libertà vigilata, che deve necessariamente aggiungersi, possa servire d’ammonimento e di mezzo di redenzione”394.

Alla luce di questi episodi, bisogna osservare che, se è vero che le assoluzioni volute dalle giurie popolari, o peggio, le inadempienze di carabinieri, polizia e giudici istruttori, avevano reso la malavita ancora più tracotante (e per giunta non solo nel corso del “passato regime”, come si ripeteva con più veemenza), è altrettanto vero che l’applicazione dell’amnistia del 1932 in favore degli associati a delinquere doveva apparire in forte contraddizione rispetto alla volontà repressiva dispiegata nel 1927 e, quindi, contribuiva, insieme ad altri fattori, al risorgere della malavita stessa, perché assicurava la libertà a molti affiliati. Inoltre, il condono andava a rendere ancora più blande e insignificanti pene che, per molti degli imputati, se non legate ad altri reati specifici, erano già di per sé esigue e gli imputati stessi, una volta rimessi in libertà,

390 Nella sentenza citata viene giudicata la sola associazione di Solano. L’associazione di Scilla è stata giudicata dal

Tribunale di Reggio e non dalla Corte di Assise e non è stato possibile rintracciare la relativa sentenza.

391 Ibid. 392 Ibid. 393 Ibid. 394 Ibid.

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andavano nuovamente a ingrossare le fila di quanti erano sfuggiti alla prima ondata repressiva e si erano rapidamente riorganizzati.

5.2 “… la malavita perdurava”. Le associazioni si riorganizzano.

All’inizio degli anni ‘30, i paesi già battuti dalla prima ondata repressiva erano teatro di nuove associazioni a delinquere. I casi di immediata ricomparsa del fenomeno mafioso mettono in evidenza le insufficienze della repressione fascista e le caratteristiche del potere criminale sul territorio. Si evince, per esempio, che alcuni mancati arresti furono dovuti a protezioni eccellenti, ma anche, come abbiamo già visto, ad inadempienze degli uffici istruttori ed alla capacità della malavita di sviare le indagini e procurarsi testimoni compiacenti. È possibile riscontrare, inoltre, che laddove si registrava il riemergere del potere mafioso, questo dimostrava di riavere immediatamente una forte presa sul territorio, mentre, al contrario, la repressione sembrava perdere la spinta propulsiva dei primi anni. Non mancavano, infatti, casi in cui, nonostante le immediate denunce del riapparire delle classiche manifestazioni mafiose, si registrava un certo disinteressamento dei carabinieri o, comunque, una bassa capacità di reazione, lasciata allo zelo isolato di pochi coraggiosi funzionari, almeno fino a quando non si fossero verificati eclatanti episodi, tali da attivare nuovamente l’attenzione della PS e spingere verso un maggiore dispiegamento di forze. Sembrerebbe quasi che, dopo la prima ondatarepressiva, nonostante denunce e segnalazioni, una malavita silenziosa potesse anche sopravvivere e godere di agganci e protezioni; al contrario, le manifestazioni violente, ridestando l’allarme sociale, in forte contraddizione con la sbandierata vittoria sulla mafia, mettevano nuovamente in moto la macchina inquirente. Tali manifestazioni violente erano spesso legate al fatto che i primi numerosi arresti avevano, comunque, scompaginato le gerarchie e le strutture criminali, creando delle incertezze e dei conflitti interni tra i vecchi capi rimessi in libertà e i nuovi gruppi criminali che con la repressione si erano avvantaggiati per emergere. Inoltre, non tutti i funzionari di PS si mostravano disinteressati o collusi: alcuni, per quanto isolati, continuarono a perseguire la malavita, creando le condizioni di una risposta violenta della criminalità contro i tentativi di arginarla e tenerla sotto stretta sorveglianza. Insomma, in questo periodo, per quanto attraversate da timori, incertezze e passi falsi, le associazioni a delinquere mostravano la ferma volontà di riemergere e riconquistare il proprio

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potere locale, rivelando contestualmente le insufficienze della repressione che nel frattempo, come vedremo, stava spostando il proprio zelo a Reggio città.

Due sentenze del 1934 e del 1935 sono emblematiche del concorso di fattori che, nonostante l’azione repressiva, ha permesso ad associazioni o a fette di associazioni di resistere e riemergere: esse hanno confidato, infatti, tanto sul proprio potere sociale, in virtù del quale gli affiliati riuscivano a sviare le indagini nel silenzio generale, quanto sul sistema delle protezioni eccellenti; ed, a volte, anche su giudici e forze dell’ordine (anche in pieno periodo fascista ed in concomitanza col periodo repressivo), chiaramente e forse interessatamente, inadempienti.

A Rosalì, per esempio, in seguito alla retata del 1928, che si concluse con la Sentenza del 2 aprile 1931, con la quale furono condannati 63 associati a delinquere395, alcuni affiliati alla

malavita rimasero a piede libero perché furono favoriti da protezioni politiche:

Nel 1928 fu fatta larga retata di malviventi, associati a delinquere nei comuni di Gallico, Catona, Villa S. Giuseppe, Rosalì. Quel processo, definito in questa Assise il 2 aprile 1931, e oggi richiamato, dimostrava che l’organizzazione più sanguinaria era quella di Rosalì, paesello remoto, tagliato fuori da ogni importante comunicazione stradale, sottratto alla vigilanza diretta dei RR.CC. (...) È risultato che uno dei non perseguiti fu Nunnari Pancrazio, affiliato sin dal 1925 per sua stessa confessione. E non poteva essere molestato perché cugino e protetto del segretario politico prof Foti Gaetano. Costui ha dovuto riconoscere che il cugino Nunnari era uno di quelli, ha affermato che si sapeva che negli ultimi tempi era capo Vizzari Vincenzo; ebbene, lo stesso prof. Foti ha riconosciuto, che egli soleva giuocare col cugino Nunnari, ed ha ammesso che dieci giorni prima che il capo Vizzari fosse stato ucciso da un gruppo ribelle, come vedremo, egli si recava presso il collega segretario politico di un paese vicino, e dava buone informazioni sul conto del Vizzari, che aveva chiesto la mano di una ragazza. In quell’ambiente l’opera epuratrice dell’Arma benemerita (…) non poteva dare buon esito, ed, arrestati i più in vista, il Nunnari Pancrazio riannodava le fila disperse, si ricostituiva la associazione, si faceva nuove reclute. (...). La nuova associazione, come si rileva dalle stesse confessioni, era continuazione della precedente, aveva la stessa denominazione “La Montalbano”, e si chiamavano nientemeno “Famiglia Onorata”. Aveva le stesse gerarchie, capo, sottocapo o contabile, camorristi, picciotti; lo stesso statuto che imponeva l’obbedienza assoluta ai capi, omertà, e dava in compenso rispetto tra di loro e di fonte agli estranei, donde l’esercizio della vendetta396.

L’associazione riuscì a ricostituirsi indisturbata fino a che non si consumò un importante fatto di sangue. Fu, infatti, l’accennato omicidio del capo Vincenzo Vizzari, commesso il 20

395Sentenza Surace Pasquale + 84, cit.

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settembre del 1930, in seguito ad una disputa su alcuni furti compiuti da altri affiliati, a fornire l’occasione per le nuove indagini. Ma, come sottolineavano i giudici, nonostante le molte