4 “Podestà, capibastone e maestri di sgarro” La prima ondata repressiva fascista (1927-32).
4.2. Rivalità politiche e vendette di malavita nel mandamento di Calanna.
L’opera di repressione della criminalità organizzata nel mandamento di Calanna partì, nel 1927, per impulso dell’autorità politica, la quale,
impensierita dalla gravità dei reati in quel mandamento e in altri, volle un’energica opera di persecuzione, e mentre a Gallico fu fatta una vasta retata definita con sentenza di condanna nel 2 aprile 1931288, fu
mandato nel giugno 1927 al Comando della Stazione di Calanna il Maresciallo Pizzoleo289 con incarico di
scoprire gli associati di quella malavita, di cui i suoi predecessori avevano costantemente parlato290.
In relazione a singoli reati specifici, in effetti, i “comandanti delle varie stazioni di quei comuni”, fin dal 1922, “parlavano costantemente di mala vita, indicando persino gli associati, ma intanto nessuno fu capace di portare alla luce l’associazione”. A determinare questa situazione pesava tanto il silenzio della popolazione, “per il timore (…) che hanno i cittadini di
286 Ibid.
287 Matteo di Figlia, Mafia e nuova politica fascista, in «Meridiana», Mafia e fascismo, cit. pp. 15-32. 288 Il riferimento è alla sentenza Sentenza Surace Pasquale + 84, cit.
289 Pizzoleo Raffaele, “maresciallo d’alloggio capo a piedi”, ha condotto le indagini insieme ai marescialli Spinelli
Gerardo e Petrosillo Angelo, coadiuvati dagli appuntati a piedi Trichilo Antonio e Tripodi Francesco e dai carabinieri Romeo Antonio, Pizzo Carmelo e Formica Costanzo. Tutti hanno ricevuto un encomio solenne per le “lunghe e difficili indagini che portarono alla scoperta di una vastissima associazione per delinquere ed all’arresto di 81 associati responsabili di efferati delitti. Calanna, Laganadi, S. Alessio d’Aspromonte (Reggio Calabria), settembre 1927-marzo 1928”. Bollettino ufficiale dei carabinieri reali, a. VII, 4 dicembre 1928, cit. p. 755.
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esporsi ad eventuali rappresaglie”291, tanto, come vedremo, l’opera di protezione esercitata
dalla classe politica locale.
A favorire il successo delle indagini furono una serie di circostanze legate alla rivalità che si era creata all’interno della ‘ndrina di Laganadi. Tale rivalità si sommava a quella per il controllo del comune. In questo contesto alcuni mafiosi si decisero a collaborare con la giustizia per condurre una sorta di vendetta trasversale. La storia di questi procedimenti è incredibilmente piena di “propalatori”.
Un altro elemento evidente, inoltre, è che la collaborazione rappresentava un tentativo estremo di salvarsi dalle maglie della legge. Si trattava, perciò, spesso, di collaborazioni strumentali e incomplete che innescavano un meccanismo di rivelazioni successive, le quali costituivano una preziosa fonte di informazioni per conoscere dall’interno la “Famiglia Montalbano”.
Nel corso delle indagini, il maresciallo Pizzoleo “prese a trattare confidenzialmente” gli indiziati “per attirarsene la fiducia e avere notizie (…) senza però far trapelare il suo intento”. Il successo di questa strategia suggerisce che la presenza delle forze dell’ordine non doveva, in condizioni normali, destare eccessiva preoccupazione al potere mafioso, perché evidentemente essa non era automaticamente sinonimo di una volontà repressiva: non dovevano mancare, anzi, funzionari compiacenti, se lo stesso Pizzoleo carpì informazioni sulla “Montalbano” promettendo “il permesso di porto d’armi” ad Amato Zappia, uno dei capi della malavita, e facendo ottenere all’affiliato Salvatore Misiano la nomina di “accenditore dei lumi pubblici”. Il maresciallo Pizzoleo entrò in relazione, tra gli altri, con Antonio D’Agostino, commerciante ed ex sindaco di Laganadi fino al 1921, oltre che ex capo della malavita locale, il quale era caduto in disgrazia presso l’associazione perché aveva permesso il matrimonio della figlia con un brigadiere dei carabinieri. Che fosse o meno questa la motivazione reale, resta il fatto che alla testa dell’associazione fu sostituito daCostantino Surace, “mentre al potere del comune fu scalzato dall’altro fratello Surace Bruno”. La volontà di vendetta e la promessa da parte del
291 Ibid. Dalle molteplici sentenze dei primi anni ’20 e da quelle precedenti emerge che la paura è l’elemento
dominante delle relazioni tra l’élite criminale violenta e l’ambiente popolare circostante. In una sentenza i giudici di Palmi parlano chiaramente di “sfruttamento su larga scala delle classi meno elevate” (Sentenza Deni Giuseppe + 73, cit.). Alla luce di ciò mi sembra applicabile alla picciotteria la riflessione sulla legittimazione sociale avanzata da Marcella Marmo in relazione alla Camorra. La legittimazione sociale non si fonderebbe su identità valoriali tra criminalità e mondo popolare, essa sarebbe piuttosto conseguenza necessaria del forte potere violento della criminalità capace di monopolizzare le dinamiche sociali. Si tratterebbe dunque, come già detto di una legittimazione oggettiva ma non formale. Marcella Marmo, Convivere con la camorra. La paura come idioma di legittimazione, in Id., Il coltello e il mercato. La camorra prima e dopo l’unità d’Italia, cit., pp. 189-205.
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Pizzoleo di non essere denunciato spinsero il D’Agostino a collaborare con le indagini: egli, infatti, senza esporsi pubblicamente, fece ritrovare alla polizia un quaderno su cui, con caratteri di gomma (perché non si riconoscesse la sua scrittura), era
stampigliata la dicitura: Società Monte Albano, con la regola a pena di morte di non baccagliare con estranei, specie con zaffi (carabinieri), consegnare al Capo qualunque vagno (prodotto del delitto), ubbidirgli in tutto292.
Seguivano i nomi di 151 associati e le deliberazioni di molti reati specifici a partire dal 1922. Oltre a questo prezioso quaderno, si aggiungeva un ulteriore importante elemento di prova a carico dei primi associati arrestati, che, se rappresentava un successo della repressione, nello stesso tempo evidenziava la visibilità cui la criminalità si esponeva (nonostante le proprie regole interne) e la sua intenzione di penetrare i vari ambiti della vita sociale: fu determinante, infatti, la testimonianza del capo squadra della MVSN, Angelo Delfino, il quale aveva ricevuto confidenze dal cugino Pietro Catalano sull’associazione criminale e che, in virtù dei contatti che aveva con la malavita, ebbe l’incarico di convocare “quanti più poteva degli individuati … con la scusa di iscriverli al fascio”. In questa occasione, “mentre erano tutti riuniti, la sera del 10 marzo 1928, sopravvennero in camions il Commissario Capo cav. Cavatore, il commissario Palmisano, il tenente D’Asdià (?), marescialli e carabinieri, e procedettero agli arresti”293.
Come si vede la malavita non recideva i contatti con le organizzazioni del regime e anzi si mostrava disposta ad accettare l’invito a farne parte. E d’altro canto, a quella data, molti degli affiliati alla criminalità avevano già dimostrato la propria strumentale adesione al regime. I giudici, infatti, parlando di Alessio Calabrò, che aveva “prodotto la tessera d’iscrizione al fascio con la data 1923”, annotavano la seguente “osservazione comune a molti imputati”:
Altri hanno dimostrato di essere stati iscritti nella milizia; altri di aver avuto il permesso di porto d’armi e altri ancora di avere esercitato funzioni pubbliche. L’apparenza ha ingannato i gerarchi e le autorità. La Corte, nome per nome, dà la prova certa, sicura, matematica della appartenenza alla malavita. All’udienza di questa causa un milite fascista, prese gli ordini dal temibile Zappia, che pur era nella gabbia, osò affrontare nella stessa sala d’udienza il Focà Domenico che aveva osato rivelare cose contro lo Zappia e intimidirlo con le parole di gergo: «Hai cantato galletto? Hai da fare i conti con me». Questo milite ha tradito la camicia nera quando si iscrisse nella milizia, perché, se non fu un associato, si è mostrato
292 Sentenza Attinà Giuseppe + 129, cit. 293 Ibid.
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appaltatore di ordini di un capo dell’associazione. La stessa cosa hanno fatto gli imputati iscritti al fascio o alla milizia, ma contro i quali le prove dell’associazione sono certe294.
Tra i primi ad aderire al fascismo vi erano gli amministratori locali che si erano mantenuti al potere o che continuavano ad avere una certa influenza nella vita politica locale. Tra questi figurava sicuramenteBruno Surace, sindaco di Laganadi (contro il quale si erano appuntate le ire del D’Agostino), il quale, tra i quattro fratelli, tutti di agiate condizioni295, era “l’esponente
politico della famiglia, il consigliere comunale, l’assessore, il componente di varie commissioni amministrative”, oltre che “l’ex giurato” e “il consigliere del podestà Gentile296 nei problemi del
Comune di Laganadi, dopo che l’amministrazione di quel paese, nel 1926, venne accorpata al vicino comune di S. Alessio d’Aspromonte. La picciotteria, dunque, vantava a Laganadi una lunga occupazione del potere amministrativo che coincideva con il potere all’interno dell’associazione. Lo stesso avveniva negli altri paese della stessa fascia aspromontana.
Alessio Calabrò, per esempio, era stato sindaco di S. Alessio nei primi del ‘900, e sfruttava la sua posizione per proteggere gli affiliati. Al suo mandato, durato fino al 1904, seguirono una sfilza di commissari prefettizi fino alla nomina del podestà Gentile nel 1926. Tuttavia, il Calabró, in tutto quel tempo, non doveva avere cessato di essere attivo nella contesa politicase, oltre venticinque anni dopo aver ricoperto la carica di sindaco, la sua difesa, nel corso del dibattimento, introduceva una formula ricorrente per tutti gli imputati eccellenti e con funzioni politiche: sosteneva, cioè, che le accuse a suo carico fossero frutto di lotte di partito. Egli si era iscritto al fascio nel 1923, così come il suo antagonista ed accusatore Antonio Surace, all’epoca delle indagini segretario politico di S. Alessio, il quale in più occasioni aveva dimostrato – annotavano i giudici – la sua “avversione amministrativa” nei confronti del Calabrò. Non deve sorprendere il fatto che due individui che si definivano fascisti si attestassero nello scenario della politica locale su posizioni avverse.
L’adesione al fascismo, come abbiamo chiaramente riscontrato nelle parole del prefetto Bodo, era decisamente strumentale. Come si può facilmente immaginare per questo caso, e come vedremo più chiaramente per altri, l’ingresso nella scena di un nuovo soggetto politico e soprattutto il cambio di regime aprirono immediatamente nuovi canali per la conquista del potere locale: a partire dal 1922-23 i vecchi gruppi politico clientelari con chiare connivenze
294 Ibid.
295 Purtroppo la sentenza non specifica meglio la loro posizione sociale, né è stato possibile rinvenire informazioni
presso la Dgac del MI, nell’ACS.
296 Si tratta di Achille Gentile, primo podestà di Sant’Alessio d’Aspromonte. ACS, MI, DGAC, Pcm, Reggio C.,
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mafiose non esitarono a definirsi fascisti e scontrarsi con i propri rivali sulla base della maggiore o minore adesione all’ideologia ed ai programmi del nuovo regime. Tra 1923 e 1924, infatti, la linea fascista in Calabria, se ad un livello più alto si era tradotta, per l’intervento di Bianchi, nella ricerca di adesioni individuali dei vecchi esponenti liberali297, a livello delle sezioni fasciste locali
si era concretizzata nell’accettazione di quanti, presentandosi come fascisti, portavano con sé anche una discreta base di massa, non importa di quale natura, e, in alcuni casi, in una lotta furibonda tra gruppi clientelari per il controllo del PNF locale e, dunque, del comune. Su queste basi molti podestà fondavano il proprio potere.
Tornando all’intreccio politico-mafioso del paese aspromontano di Sant’Alessio, da molto tempo governato da personaggi oscuri, vediamo, per esempio, che nel 1928 venne nominato podestà del comune il maestro elementare Antonio Surace, il quale manterrà la carica, a fasi alterne, fino al 1943298. Precedentemente era stato podestà di Podàrgoni: con l’annessione di
quest’ultimo paese alla “Grande Reggio” nel 1927, le sue ambizioni di potere si affermarono nella vicina Sant’Alessio, non senza qualche ambiguità. Egli non figurava come imputato nella sentenza Attinà, pur tuttavia non gli mancavano contatti con importanti personaggi della malavita, anche in questo caso emersi nella scena giudiziaria per via di odi politici. Tali contatti risalivano al periodo della conquista del potere locale a Podàrgoni, dove capobastone della ‘ndrina locale risultava essere AntonioSaccà il quale, “esaminata la sua posizione come associato a delinquere, sin dal 1924” veniva dipinto dai carabinieri “come libertino, prepotente, capo della malavita di quel paese.” La difesa, nel tentativo di discolparlo, chiariva la sua posizione sociale di “ricco possidente” e i suoi contatti elevati; la sua era una ricchezza accumulata durante l’emigrazione e capitalizzata nella terra:
Saccà aveva tale età, tale patrimonio, tali rapporti in alto che non aveva ragione o interesse di occuparsi di certe miserie materiali e morali. Il suo patrimonio, radunato faticosamente in un ventennio di sudato lavoro in America lo poneva al di sopra e al di fuori di qualsiasi schiera di malviventi, mossi nella loro associazione, prevalentemente, da speranze di vantaggi d’indole economica299. Lo poneva poi lungi il suo patrimonio
297 Vittorio Capelli, Potere politico e società locale, cit., p. 85.
298 ACS, MI, Dgac, Pecm, Reggio C., S. Alessio d’Aspromonte (Laganadi), b. 244.
299 Dietro quest’affermazione si trova la volontà, comune a molte strategie difensive spesso accolte dai giudici, di
dipingere la malavita calabrese come un fenomeno esclusivamente popolare frutto della povertà, senza coglierne invece la collocazione sociale trasversale e interclassista. Una interpretazione che ha avuto lunga durata e notevole eco nell’opinione pubblica: ancora negli anni ’70 uno scrittore importante come Saverio Strati, che ha narrato nelle sue opere la Calabria popolare, ha definito la ‘ndrangheta una reazione popolare al sottosviluppo, spiegando in termini di distinzione tra vecchia a nuova mafia le manifestazioni criminali più recenti. Vincenzo Pitaro, Interviste sulla ‘ndrangheta, L’altra Calabria, 1981, p. 26. Quest’interpretazione ha trovato riscontri anche nel mondo
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morale, al quale tanto era devoto, fatto di carità di generosità, di patriottismo che lo rendeva apprezzabile e apprezzato non solo dall’Autorità di Pubblica Sicurezza, che ininterrottamente gli rilasciò il permesso di porto d’armi, ma dai migliori uomini del circondario e della città di Reggio, quali il comm. Vilardi, l’on. Trapani300, il comm. Cipriani, l’on. Valentino301, l’ammiraglio Genoese Zerbi302 che ebbe ad affidargli
incarichi delicati ed importanti ed ebbe a rilevarne le manifestazioni di notevole generosità in occasione delle sottoscrizioni patriottiche promosse dal governo303.
Sussidiava, inoltre, l’impresa di autobus che svolgeva il trasporto Reggio Calabria-Santo Stefano, diretta da Suraci Vincenzo, presso la quale avrebbe fatto assumere un sicario assoldato per l’omicidio di Domenico Musorrofiti, marito della propria amante Marianna Caracciolo. Del Saccà si sospettava, infine, l’affiliazione alla Mano Nera negli Stati Uniti304: in tal senso
andavano le dichiarazioni di Antonio Musolino, “fratello del brigante Musolino Giuseppe, capo anche lui di malavita”305, che, sia in questo che in un altro procedimento306, testimoniava
contro il Saccà. L’omicidio Musorrofiti fu consumato nel corso del 1924, ma secondo i giudici Saccà sarebbe riuscito a fugare i sospetti su di lui, sia per la paura che la sua persona incuteva sulla popolazione e sui testimoni, sia perché “era intimo del sindaco del tempo Cav. Morisani”: i due “si chiamavano compari” e, scrivevano i giudici, “anche quest’altra forza agiva in suo favore”307. L’idillio però si sarebbe rotto quando, nel 1926, l’ex segretario comunale Antonio
Surace, a noi già noto, schieratosi con il fascismo locale fin dal 1923 e raggiunta una propria
accademico: di una dimensione popolare, sociale e prepolitca ha parlato Eric J. Hobsbawm, I Ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Einaudi, Torino 1966, pp. 77-82; Pino Arlacchi, parlando di “società in transizione permanente” ha identificato la criminalità nella resistenza dei valori tradizionali in un mondo in trasformazione e successivamente è ricorso alla dicotomia vecchia/nuova mafia. Cfr. Pino Arlacchi, Mafia, contadini e latifondo nella Calabria tradizionale, Il Mulino, Bologna 1980, e id., La mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, Il Saggiatore, Milano 1983.
300 Si tratta di Antonio Trapani Lombardo, avvocato di Gallico (Reggio Calabria), eletto alla Camera dei deputati nel
1929. Cfr. la scheda personale sul sito del senato:
http://notes9.senato.it/Web/senregno.NSF/a0cb28c16d0da661c1257134004754fc/cbc2b2523abd89954125646f0 0612f9b?OpenDocument
301 Si è accennato Giuseppe Valentino, sindaco di Reggio Calabria nel periodo della ricostruzione dopo il terremoto
1908 e fino all’avvento del fascismo. Gaetano Cingari, Reggio Calabria, cit. pp. 261-271.
302 Commissario prefettizio e primo podestà di Reggio Calabria. Cfr. Italo Falcomatà, L’ammiraglio Genoese Zerbi,
cit.
303 La memoria difensiva di Saccà Antonino si trova in ACS, MI, Dgac, Pecm, Reggio C., S. Alessio d’Aspromonte
(Laganadi), b. 244, citazioni pp. 17-18. D’ora in poi Saccà Antonio.
304 Sul sito di Ellis Island risulta l’arrivo in America di un Saccà Antonio di Podargoni, di 25 anni, nel 1899 e diretto a
New York (www.ellisisland.org.) Ricerca senza l’accento del nome: Antonio Sacca). Sull’emigrazione in America di criminali calabresi, nell’ambito della più consistente espansione criminale della mafia siciliana, cfr. Salvatore Lupo, Quando la mafia trovò l’America. Storia di un intreccio intercontinentale, 1888-2008, Einaudi, Torino 2008.
305 Sentenza Attinà Giuseppe + 129, cit.
306 Sentenza Filastò Francesco + 11, cit.
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autonomia ed importanza politica, ottenne la carica di Podestà di Podargoni308. Nel 1926,
dunque, “il Morisani fu sbalzato da Sindaco, e il Compare Saccà” che, come rivendicava la difesa, aveva già “salde e autorevoli amicizie nel campo fascista”,309 “accolse giulivo il nuovo
podestà Antonio Surace”310.
Saccà non doveva farsi questioni di pregiudiziale ideologica, ma era interessato a tenersi in stretto contatto con gli amministratori comunali. Solo in seguito alla perdita del potere amministrativo il Morisani, caduto in disgrazia per non aver aderito prontamente al fascismo, in occasione delle indagini, prestò il suo contributo alle autorità inquirenti testimoniando contro Saccà, con l’obiettivo di colpire anche il suo ex segretario comunale, il quale, in virtù di tale posizione, non rispondeva propriamente alla figura dell’ “uomo nuovo” fascista. Ancora una volta collaboravano con la giustizia coloro che avevano perduto una posizione di prestigio nella amministrazione e l’appoggio della malavita, ma che non potevano certo vantare una purezza etica e morale. Come già segnalato, non emersero responsabilità dirette a carico di Antonio Surace che, infatti, mantenne la carica di podestà di S. Alessio per molto tempo; pur tuttavia, nello stralcio di istruttoria inviata dal prefetto di Reggio C. alla Direzione Generale dell’Amministrazione civile comparivano alcuni appunti di un certo interesse: innanzitutto, veniva evidenziata l’amicizia col Saccà, latitante in seguito al mandato di arresto e alla condanna all’ergastolo riportata nel processo contro l’associazione a delinquere del circondario di Calanna311; si faceva poi riferimento alla concessione del porto d’armi all’imputato Giuseppe
Romeo e al fatto che l’associato Enrico Priolofosse “nominato, con deliberazione del podestà Surace, assistente ai lavori per l’acquedotto”312.
Si evince, da questa rapida annotazione, lo sfruttamento dei canali politici da parte della criminalità organizzata per imporre la propria presenza nelle varie attività economiche al fine di assicurarsi il controllo delle risorse e, conseguentemente, quello delle dinamiche sociali: una di queste, come si è già sinteticamente rilevato, era il condizionamento dell’accesso al lavoro. A questo proposito vale la pena richiamare un episodio esemplificativo. L’episodio riguarda Carmelo Pellicano, indicato come capo della sezione di Mulini di Calanna:
308 Nel 1927 Podargoni fu annessa alla Grande Reggio (Italo Falcomatà, La " Grande Reggio " di Genoese-Zerbi, in
"Historica", n. 1, 1993, cit.) e Antonio Suraci ottenne, come si è già detto, la carica di podestà nel 1928 a Sant’Alessio d’Aspromonte: ACS, MI, Dgac, Pcm, Reggio Calabria, Sant’Alessio, cit.
309 Saccà Antonio, cit. p. 8.
310 Sentenza Attinà Giuseppe + 129, cit. 311 Ibid.
312 Copia della sentenza con le annotazioni del prefetto si trova in ACS, MI, DGAC, Pcm, Reggio Calabria,
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L’appaltatore Tedesco, ora morto, avanti il G. I. depose che il Pellicano Carmelo gli aveva chiesto nel 1925 di essere nominato assistente dei lavori stradali. E per avere nominato invece tal Domenico Calarco, gli operai “come un sol uomo abbandonarono il lavoro” perché minacciati col fucile dal detto Carmelo e dall’altro affiliato Princi Domenico, poi morto a Genova. E vi fu sciopero per alcuni giorni, e per amor di paese, il Tedesco licenziò il Calarco, chiamò il Pellicano e il lavoro fu ripreso e continuato313.
4.3. “Un piede nella caserma e l’altro nella maffia”.
Altri due casi di intreccio politico-mafioso in atto negli anni’20 nel vivace circondario di Calanna coinvolgevano le figure dei già citati favoreggiatori Domenico Bello e Antonino Landi. In un caso si assiste alla penetrazione nel fascismo locale da parte del vecchio gruppo politico clientelare con base mafiosa, nell’altro invece ad un’iniziale opposizione alla linea del fascismo provinciale guidato dal commissario Minniti. In entrambi i casi, i gruppi politico-mafiosi ebbero facile gioco nell’affermarsi al potere anche sotto il regime fascista e non vennero intaccati fino