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2 1 L’immaginario figurativo di Bassan

2.1.2 Gli occhiali d’oro

Il secondo libro che compone il Romanzo di Ferrara viene pubblicato per la prima volta nel 1958. Anche in questo caso la scelta della copertina spetta a Bassani che decide di utilizzare un acquerello di Filippo De Pisis, Nudo di ragazzo disteso, del 1932. L’esempio di questo pittore è facilmente riscontrabile nell’opera bassaniana e, addirittura, nella sua stessa tecnica narrativa; egli diventa «momento significante di una ricerca a cui la sempre ossessiva presenza del diverso si accoppia a quella di una metafisica presenza sotto l’apparente felicità e banalità dei soggetti depisisiani119». Come abbiamo già potuto vedere in precedenza, l’artista ferrarese fa parte del bagaglio culturale dell’autore. De Pisis non solo è conterraneo dello scrittore ed è attivo, all’incirca, nei medesimi anni, ma ha fatto della loro città natale l’oggetto della sua vocazione narrativa. Egli non ha mai ritratto squarci di Ferrara, ma ogni paesaggio, ogni natura morta, ogni ritratto parlano di quella città, sono Ferrara. Non è solamente la città a legare i due, ci sono molte altre tematiche presenti nella produzione artistica depisisiana che vengono riprese da Bassani: è il caso dell’omosessualità che nell’opera narrativa presa in questione (ma anche ne Il

giardino dei Finzi-Contini) viene sviluppata in rapporto all’ebraismo, diventando

entrambi simbolo della differenza e della discriminazione. La copertina con il nudino maschile anticipa proprio questo motivo dominante.

La storia si incentra proprio sull’incontro e sullo sviluppo del rapporto tra il dottore omosessuale Athos Fadigati e il giovane narratore-protagonista ebreo durante gli anni bui del fascismo, entrambi consapevoli di essere diversi e discriminati dalla loro comunità. È anche il racconto in cui finalmente la soggettività autoriale si espone per la prima volta; dopo aver portato sulla scena le innumerevoli voci e punti di vista della società ferrarese e dei personaggi di Dentro le mura e nei primi tre capitoli de

Gli occhiali d’oro, dopo aver trovato in Bruno Lattes e Geo Josz un portavoce,

Bassani sente di aver concluso un ciclo e di conseguenza di dover uscire allo scoperto:

«Comunque, non appena ultimata la stesura di Una notte del ’43, avevo cominciato a sentire di aver esaurito un ciclo. Ormai Ferrara c’era ... Riflettori dunque anche su me, d’ora in poi, scrivente e non

scrivente: su tutto me. A partire da adesso valeva forse la pena che l’autore di Lida Mantovani, della Passeggiata prima di cena, di Una lapide in Via Mazzini, degli Ultimi anni di Clelia Trotti, di Una notte del ’43, nonché dei primi tre capitolo degli Occhiali d’oro, provasse a uscire anche lui dalla sua, di tana, si qualificasse, osasse dire finalmente «io»120.

Così, ripercorrendo quel tragitto che va da una condizione di immersione nel discorso, si arriva al desiderio di guadagnare una propria voce all’interno di questo. Lo scrittore trasforma il proprio repertorio visivo da immaginario a discorso narrativo. Quelle immagini che in Dentro le mura sono legate a dai modelli figurativi particolari diventano in questo racconto delle tessere di una catena simbolica all’interno della quale possiamo notare una serie di figure storico-artistiche che non vengono più rappresentate, ma descritte.

Dunque, se all’inizio della storia troviamo un’atmosfera caotica e confusa, molto simile a quella de La passeggiata prima di cena, in questa occasione la dispersione è affidata all’intrecciarsi delle molteplici voci della comunità cittadina piuttosto che a quello delle immagini e delle focalizzazioni. Anche in questo caso, la costruzione della figura del medico è data da delle tecniche che descrivono quelle strategie e quella necessità di sintesi evocate dal postimpressionismo. Sia Elia Corcos che Athos Fadigati sono definiti dalla sintesi di molteplici punti di vista per poter definire la loro cifra significante. Dopo aver raccontato quegli eventi che hanno portato il dottore a Ferrara, il narratore introduce la figura dell’uomo partendo dalla descrizione del suo aspetto fisico per arrivare alla raffigurazione del suo studio, luogo in cui si originano una serie di collegamenti intertestuali; proprio attraverso la voce di Fadigati si ha il definitivo passaggio dal registro visivo a quello linguistico e metonimico. Troviamo allora una precisa e dettagliata descrizione dell’interno dello studio medico:

«Era con schietta soddisfazione che il ricco borghese, infagottato nel suo cappottone di pelliccia, prendeva a pretesto il più piccolo mal di gola per imbucare la porticina socchiusa, salire le due rampe di scale, suonare il campanello dell’uscio a vetri. Lassù, oltre quel magico riquadro luminoso, alla cui apertura presiedeva un’infermiera in camice bianco sempre giovane e sempre sorridente, lassù trovava termosifoni che andavano a tutto vapore, come non dico a casa propria, ma nemmeno, quasi, al Circolo dei Negozianti o a quello dell’Unione. Trovava poltrone e divani in abbondanza, tavolinetti

sempre forniti d’aggiornatissima carta stampata, abat-jours da cui si effondeva una luce bianca, forte, generosa121».

Incontrando poi il dottore e oltrepassando quel «di là», il paziente:

«Trovava infine un medico bonario e conversevole, che mentre lo introduceva personalmente «di là» per esaminare la gola, pareva soprattutto ansioso, da quel vero signore che era, di sapere se il suo cliente avesse avuto modo di ascoltare alcune sere prima, al Comunale di Bologna, Aureliano Pertile nel Lohengrin, oppure, che so? Se avesse visto bene, appeso a quella parete di quel salotto, quel tale De Chirico o quel tale «Casoratino», e se gli fosse piaciuto quel talaltro De Pisis; e faceva poi le più alte meraviglie se il cliente, a quest’ultimo proposito, confessava non soltanto di non conoscere De Pisis, ma di non aver mai saputo prima di allora che Filippo de Pisis fosse un giovane, molto promettente pittore ferrarese122».

La lista delle opere e degli artisti mostrano una volontà da parte dell’autore di parlare di quella cultura visiva all’interno della quale si era formato, senza più limitarsi a riprodurla all’interno dei testi. Ritornano quindi i nomi di De Chirico, che ha influenzato tutta la produzione precedente, Casorati, che sarà una figura centrale negli scritti di critica d’arte successivi, e di De Pisis, che possiamo ben dire essere una figura costante all’interno della storia. L’insistenza particolare su questo pittore, da parte del dottore, è indicativa di una affinità che egli sente di avere, affinità non solo estetica, ma anche personale dal momento che entrambi erano omosessuali. È interessante notare che, in questo elenco, venga enumerato per primo il Lohengrin di Richard Wagner. Quest’opera risulta sicuramente interessante agli occhi del dottore per la tematica dell’amore nella diversità e per il languore di questa tragedia a sfondo romantico, in cui egli può essersi facilmente identificato per la sua condizione di omosessuale; tuttavia l’ambiguità del compositore nei confronti della razza ebraica introduce un motivo ancora più interessante e che attraversa il romanzo dall’inizio alla fine: l’odio di sé. Se da una parte Wagner rappresenta l’antisemitismo, questo stesso concetto è visto alla luce della condanna subita dall’artista e da un odio di sé dovuto al sospetto di una sua possibile origine ebraica. La posizione in apertura a questa enumerazione non è quindi casuale, ma anzi, vuole indicare quale direzione prenderà il resto della storia e fornirci una chiave di lettura. Gli occhiali d’oro si configura allora come il racconto di quell’ostilità che alberga in ognuno di noi verso

121 G.B., God’o, p.218. 122 Ibid.

quel diverso che più ci somiglia, di quell’odio per la parte di noi stessi che è maggiormente esposta alla sanzione sociale. È un racconto che brillantemente riesce a sottolineare le contraddizioni di una società ipocrita che discrimina una diversità inesistente, solo per il semplice bisogno di preservare se stessa.

Alla luce di queste osservazioni, il collegamento tra Wagner e De Pisis, passando attraverso la pittura metafisica e del Novecento con De Chirico e Casorati, appare chiaro e lineare.

La figura reale del pittore ferrarese e quella narrativa di Fadigati appaiono legate da molte caratteristiche comuni. Se come elemento principale troviamo la dichiarata omosessualità di entrambi, ciò che colpisce maggiormente è il modo in cui entrambi conducono la propria vita in relazione a questa loro diversità: ambedue vivono questa condizione come un qualcosa di sbagliato, non accettabile da parte della società e per questo rifuggono da ogni contatto più intimo e preferiscono una reclusione forzata. Troviamo testimonianza di queste posizioni negli scritti di De Pisis, nel suo romanzo

Il marchesino pittore e nello scritto Il Sig. Luigi B. In quest’ultimo rintracciamo un

passo importante in cui, riferendosi a una certa città dell’Emilia («F.») e all’ostracismo volontario del suo protagonista, egli scrive:

«Gli uomini (pochi: privilegiati e sfortunati) che sentono fino al parossismo e al delirio il Mistero della vita, non possono stare con gli altri. I compagni a lungo andare, si allontanano da essi, li guardano quasi come si guarda un malato contagioso. Perché restare allora fra coloro che vi compatiscono e vi sopportano a fatica, non è meglio volontariamente allontanarsi, godere le proprie gioie e sorbirsi il proprio amaro in disparte123».

Questa descrizione non può che portarci alla memoria il comportamento del dottore e la sua volontaria emarginazione, la sua ricerca del piacere in luoghi isolati e con persone appartenenti a classi sociali inferiori. Si può allora avanzare l’ipotesi che la figura del pittore possa essere stata utilizzata come modello per la creazione del suo personaggio. A conferma di questo si aggiunge anche la descrizione dello studio del medico che riproduce con grande attenzione nell’arredamento l’estetica depisisiana. Sempre in Il Sig. Luigi B. egli scrive:

«Luigi B. pensava che per chi si allontani dal consorzio umano ... grande importanza ha la casa, o le stanze in cui egli dovrà passare quasi tutte le sue ore; ebbe perciò gran cura nell’arredarle e nel rendersele comode124».

Appare chiaro come all’autoesclusione di questi personaggi corrisponda una ricerca di uno spazio confortevole e sicuro nella propria casa. Di De Pisis, e del suo alterego Luigi B., viene ripreso anche quel contraddittorio desiderio di fisicità che viene descritto da Bassani in uno scritto di critica d’arte: «sempre in giro, lui, instancabilmente come una farfalla avida di succhi, di odori e di colori125»

E anche dallo stesso pittore in Il Sig. Luigi B.: «Spesso trovandosi fra la folla provava un turbamento [...] altre volte, invece, specie in una via movimentata di una città nuova, s’impadroniva di lui una strana impressione di forza126».

Di Fadigati, nel racconto, si dice che è un misantropo ma allo stesso tempo amante del popolo basso e infatti «dopo un’intensa giornata di lavoro gli piaceva certo sentirsi tra la folla: la folla allegra, vociante, indifferente127», sottolineando soprattutto come preferisse la componente più sordida e reietta di quella massa. La figura reale di De Pisis e quelle narrative di Fadigati e del pittore stesso in Il

marchesino pittore sono quindi collegate da queste due tensioni opposte: una

sublime, propria dell’arte e della cultura di cui sono grandi estimatori e una bestiale, che non comprende solamente quella moltitudine derelitta, ma anche il mondo animale. Celebre è infatti la scena di identificazione tra Fadigati e la cagna randagia e un episodio analogo possiamo ritrovarlo in Cherubini e Serafini di De Pisis128.

Inoltre, sia il medico che Luigi B. condividono la stessa tendenza al soliloquio culturale, entrambi sembrano parlare ad altri, ma in realtà parlano solo a loro stessi. Ancora, Fadigati e il protagonista de Il marchesino condividono la stessa attrazione verso la bellezza e la gioventù, così che anche il personaggio di Deliliers, un aspirante pugile con cui il dottore bassaniano intraprende una tormentata relazione amorosa e dal quale verrà addirittura truffato, può essere accostato al pugile

124 F.D.P., La città, p.313.

125 G.B., Ddc, p.1235. 126 F.D.P., La città, p.327.

127 G.B., God’o, p.220.

raffigurato ne Il marchesino129. I due pugili si somigliano molto sia nell’aspetto fisico

che caratterialmente: sono nerboruti e spavaldi, hanno un profilo vagamente ariano e sono soprattutto crudeli e spietati nell’illudere ed abbandonare i loro amanti, lasciandoli a languire nel loro disperato desiderio.

Infine, Fadigati e De Pisis sono legati a due città molto importanti: Venezia e Ferrara. Il primo, di origine veneziana, si trasferisce a Ferrara per lavoro, il secondo, invece, nato a Ferrara, dopo una serie di lunghe peregrinazioni, finirà a Venezia. Viene così ripreso quel confronto tra le due città tanto caro all’autore in cui Ferrara viene vista come un pozzo di provincia, il luogo della normalizzazione del fascismo, mentre Venezia rappresenta lo spazio dell’evasione, della fuga, nonché luogo dei primi e più sinceri affetti. Per il medico, la città non è la solita meta turistica descritta da Henry James o Thomas Mann, ma è la sua terra natale e quindi è portatore di una visione personale, storica e non letteraria di Venezia. Una prospettiva in linea con l’impegno dello stesso scrittore di liberare la città da quello stereotipo decadente e riscoprire la sua realtà storica nel saggio Le parole preparate130.

Senza alcun dubbio, abbiamo potuto ben vedere come la persona di De Pisis sia stata fondamentale per la creazione del personaggio di Fadigati, tuttavia un’altra figura molto importante ha contribuito alla realizzazione di questo: Roberto Longhi.

Prima di tutto possiamo notare come l’evento reale dell’incontro tra Bassani e il maestro e l’incontro fittizio tra il dottore e il narratore, avvenga nei medesimi anni, ovvero tra il ‘35 ed il ‘36, durante il periodo universitario. Anche la conoscenza con questi personaggi avviene per interposta persona sia nella realtà che nella finzione; l’autore è convinto dall’Arcangeli a frequentare le lezioni del Longhi e il protagonista ci racconta che i primi a cui il dottor Fadigati rivolse la parola furono sicuramente Nino Bottecchiari e Bianca Sgarbi, per poi, piano piano, entrare a far parte del loro gruppo di pendolari. Tuttavia, ciò che colpisce maggiormente la nostra attenzione è il modo in cui vengono descritti entrambi dall’autore, sottolineando quei tratti comuni del loro carattere e in particolar modo del loro relazionarsi con gli altri. Bassani descrive il maestro con precisione e grande affetto in Un vero maestro:

129 F.D.P., Sabato santo in Il marchesino, pp.148-50.

«Difficile immaginare un tipo più diverso dagli altri professori, anche fisicamente. Alto simpatico, elegantissimo, con un viso dai tratti molto asimmetrici, di un’espressività eccezionale: più che a un professore, a uno studioso, Longhi faceva pensare a un pittore, a un attore, a un «virtuoso» d’alta razza e d’alta scuola, insomma a un artista […] nessuna posa erudita, in lui, nessun sussiego di casta, nessuna boria didattica e didascalica, nessuna pretesa che non riguardasse l’intelligenza, la pura volontà di capire e far capire: e per questo, non per altro, ci si sentiva a un certo punto osservati dai suoi occhi nerissimi che lustravano, piccoli e malinconici come per febbre dietro il taglio spiovente del pince-nez e delle grandi palpebre brune […] E se quello stesso sguardo che aveva frugato sardonico e affettuoso in te, ti arrestava, subito dopo, diventando a un tratto freddo, altero, e ristabilendo per così dire le giuste distanze, anche a questa operazione immediatamente successiva di distacco ci si acconciava volentieri, senza soffrire di delusioni di sorta, perché era ancora una volta l’intelligenza, l’oggettiva necessità del comprendere che così volevano131».

La descrizione di Longhi ricorda da molto vicino quella del dottor Fadigati, soprattutto per quanto riguarda la sua « indole magari un po’ «da artista», ma nel complesso così seria e quieta132» e quegli occhi vividi, febbrili che brillavano dietro le lenti dei suoi occhiali d’oro.

Anche l’atteggiamento benevolo che il dottore ha verso il protagonista ricalca quello del maestro verso l’autore; se infatti Fadigati si mostra quasi ansioso di far parte del gruppo dei giovani studenti e ascolta con grande entusiasmo anche i discorsi frivoli della comitiva nei loro lunghi viaggi in treno, allo stesso modo viene visto il Longhi in Un vero maestro. Bassani, infatti, ricorda di un viaggio in treno, una gita col maestro in cui l’uomo mostra un’approvazione bonaria e un po’ maliziosa nei confronti delle prime avventure sessuali dell’autore:

«Nello scompartimento di terza classe che ci riportava a tarda notte a Bologna, Longhi osservava me e la ragazza seduta di fronte a lui, e sorrideva sardonico [...]. Dunque mi interessava cospirare, eh? Benissimo. Anche ciò era comprensibile, anche ciò era umano: come tutto il resto. E in ogni caso non avessi fretta, non fossi impaziente. Nessun rimorso, o rimpianto, o paura. Ero un bel confusionario, niente da dire. Però presto o tardi, antifascismo attivo o no, ragazze o no. Storia dell’arte o no, leggi razziali o no, anch’io avrei trovato la mia strada133».

Come possiamo facilmente intuire, non solo la figura di Fadigati è stata influenzata da questi ricordi giovanili, ma anche tutti quegli spostamenti in treno che occupano gran parte del racconto. Del resto, negli anni universitari, i viaggi in treno sono stati

131 G.B., Ddc, p.1074-75. 132 G.B., God’o, p.222. 133 G.B., Ddc, p.1077.

fondamentali per lo scrittore; egli sperimenta proprio durante quelle ore il completarsi della percezione della realtà. Il viaggio diventa occasione di trasfigurazione del reale per mezzo di quelle immagini che popolano la sua memoria visiva, ovvero quei dipinti dei pittori della cerchia bolognese-ferrarese che in quel periodo stava studiando. A conferma di questa forte influenza vi è quanto scritto da Bassani in Poscritto:

«Nella primavera del ‘42, il primo impulso a scrivere versi mi venne, più che dalla vita e dalla realtà, dalla cultura […] Seguivo oltre a ciò i miei amici storici dell’arte […] sulle tracce dei pittori ferraresi e bolognesi del Cinque e Seicento: cosicché la campagna tra Ferrara e Bologna, che il mio treno percorreva quasi quotidianamente, mi si mostrava attraverso i colori, intrisi d’una luce come velata, di quelle antiche pitture […] Una delle prime poesie che scrissi riguarda quel treno serale. Ebbene, quella che si scorge attraverso i finestrini dello scompartimento di terza classe è la mia terra, sì, ma resa con la mente alle tele che gli amici proprio in quei mesi mi venivano mostrando134».

Grazie a questa dichiarazione abbiamo un’importante testimonianza riguardo i primi elaborati dell’autore e dell’influenza longhiana nella loro realizzazione, soprattutto per quanto riguarda l’evocazione lirica del paesaggio padano, rielaborato poi attraverso il filtro della cultura figurativa locale.

I componimenti poetici nati tra il ‘37 e il ‘43 sono proprio influenzati da quelle ricerche in campo artistico che i suoi compagni di viaggio, nonché amici, stavano conducendo sotto il magistero del Longhi. Le sue poesie volevano restituire uno sguardo assorto e quelle atmosfere crepuscolari tipiche dei pittori della scuola bolognese-ferrarese, quali il Garofalo, il Dosso e i Carracci, assumendo in maniera quasi mimetica le tonalità bruno-rossastre, i bagliori improvvisi o le dissolvenze lattiginose tipiche della produzione di questi artisti. Troviamo in questi versi una forte presenza di elementi di tipo visivo, in particolare paesaggistico, che generano un’impressione di forte omogeneità tematica e stilistica. In particolar modo vi è in Bassani una preoccupazione nel rappresentare le immagini ancor più che per tocchi e colori, per spazialità; è questa una caratteristica di chi ha frequentato a lungo la pittura. Ecco che, allora, ciò che è raffigurato nei suoi versi non sono altro che quegli scenari e quelle sensazioni auditive, olfattive e soprattutto visive che aveva vissuto e veduto ogni giorno: il passaggio dei treni serali, i borghi al crepuscolo,

l’ambientazione notturna, il profumo delle risaie che pervade lo scompartimento del treno, la distesa dei campi. Proprio come un pittore intento a riprodurre un paesaggio, Bassani riesce a rintracciare un’immagine principale, la fissa e la blocca nella sua memoria come se fosse una fotografia ed infine viene continuamente trasfigurata nel corso della raccolta, come a ricercare un un modo per rendere sempre più precisa

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