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L'occhio della pittura: immaginazione e figuratività nell'opera di Giorgio Bassani

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Academic year: 2021

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INDICE

Introduzione p.3

Capitolo 1 – Le modalità dello sguardo nell’opera di Giorgio

Bassani p.5

1.1 Lida Mantovani p.6

1.2 La passeggiata prima di sera p.9

1.3 Una lapide in via Mazzini p.12

1.4 Gli ultimi anni di Clelia Trotti p.14

1.5 Una notte del ‘43 p.17

1.6 Gli occhiali d’oro p.19

1.7 Il giardino dei Finzi-Contini p.23

1.8 Dietro la porta p.28

1.9 L’airone p.30

1.10 Conclusioni p.33

Capitolo 2 – L’influenza delle arti visive nell’opera di Giorgio

Bassani p.35

2.1 L’immaginario figurativo di Giorgio Bassani p.42

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2.1.1 Dentro le mura p.43

2.1.1.1 Lida Mantovani p.50

2.1.1.2 La passeggiata prima di sera p.54

2.1.1.3 Una lapide in via Mazzini p.60

2.1.1.4 Gli ultimi anni di Clelia Trotti p.64

2.1.1.5 Una notte del ‘43 p.67

2.1.2 Gli occhiali d’oro p.71

2.1.3 Il giardino dei Finzi-Contini p.82

2.1.4 Dietro la porta p.95

2.1.5 L’airone p.103

2.2 Gli scritti di critica d’arte di Giorgio Bassani p.114

Conclusioni p.132

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I

NTRODUZIONE

Questo elaborato si appresta ad essere un viaggio all’interno di quell’immaginario figurativo che ha caratterizzato l’intera opera letteraria e poetica di Giorgio Bassani. Arte e letteratura si sono da sempre intrecciate ed influenzate a vicenda e la produzione bassaniana è un ennesimo esempio della comunione di queste due arti. Già incline verso il mondo delle arti figurativa durante la sua adolescenza, è negli anni universitari che viene maggiormente influenzato da questa disciplina per merito di amici e colleghi, in particolar modo Francesco Arcangeli, che lo spronarono a seguire le lezioni di storia dell’arte di Roberto Longhi.

L’influenza del maestro è attestata dallo stesso Bassani in più occasioni, ma ciò che maggiormente è di nostro interesse in questo elaborato è l’assimilazione del metodo longhiano di analisi e critica delle opere d’arte. Per questo motivo prenderemo in esame gli scritti di critica d’arte del nostro autore con lo scopo di mostrare che lo stile bassaniano non è una pedissequa imitazione del ‘metodo Longhi’, bensì una personale applicazione degli insegnamenti del maestro. Anche la grande attenzione che lo scrittore presta alla luce e alle fonti luminose deriva direttamente dagli studi del maestro, ma neppure in questo caso possiamo dire di trovarci di fronte a un caso di imitazione diretta; è naturale che Bassani abbia accolto ed assimilato sollecitazioni di questo tipo. Ancora più interessante sarà notare come queste influenze e il metodo Longhi troveranno posto anche nella produzione narrativa dell’autore, confermando l’assorbimento di questi, fino a farli del tutto suoi. Vi è poi un ulteriore nodo di interesse che andremo ad affrontare e che lega Longhi, Arcangeli e Morandi. L’amore verso il pittore bolognese è trasmesso dal maestro a tutti i suoi allievi e per questo l’Arcangeli decide di comporre una monografia proprio su questo artista. L’interpretazione innovativa che dava del pittore venne totalmente rigettata da Morandi stesso e da Longhi, mentre Bassani accolse positivamente le tesi dell’amico. Vedremo infatti come questa nuova analisi si instauri perfettamente all’interno del percorso letterario e figurativo del nostro scrittore, un percorso che a questa altezza inizia a tingersi di tinte più malinconiche e che si lascia alle spalle tutte quelle influenze della pittura metafisica degli anni Venti e Quaranta. Bassani nei suoi ultimi scritti guarda ad un immaginario tipico del realismo esistenzialista, cogliendo alla

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perfezione le tensioni sociali e culturali del dopoguerra. Quello che infatti ci preme dimostrare è come il nostro autore sfrutti l’arte e la pittura per descrivere ed interpretare la società e tensioni interne alla comunità ferrarese, partendo dagli anni dell’affermazione del fascismo fino al dopoguerra. Come scrittore ebreo, Bassani non può che offrire al suo pubblico la sua testimonianza e per farlo egli decide di raccontare la storia della sua Ferrara attraverso uno sguardo particolare, un punto di vista che trascende il soggettivismo e che ha come uno scopo quello di riportare la verità reale delle cose. È lo sguardo del pittore che riesce a cogliere e fermare il tempo per un istante, che riesce a riportare in vita la cose morte per poi lasciarle tornare alla morte. È lo sguardo di chi torna dalla morte per testimoniare.

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Capitolo 1 – Le modalità dello sguardo nell’opera di Giorgio Bassani

La capacità di guardare, il vedere vero e proprio, è ciò che maggiormente ha suscitato interesse in Giorgio Bassani. Per questo motivo, lo scrittore, ha creato la realtà del suo Romanzo di Ferrara ponendo al centro di ogni vicenda narrata l’occhio del personaggio e la cosa osservata da questo. È lo sguardo che definisce l’oggetto, basandosi su una prospettiva ben precisa che può essere filosofica, psicologica ma anche emotiva, ed instaura con esso una sorta di dialogo silenzioso in cui il soggetto lo investe col suo stesso sguardo, dandogli una nuova forma. A sua volta, l’oggetto ritorna verso il soggetto e lo abbraccia con la sua nuova luce. L’occhio del narratore si nasconde dietro gli sguardi di tutti i suoi personaggi; i loro sono sguardi soggettivi che riportano una realtà da loro osservata in maniera personale e per questo anche alterata, focalizzandosi spesso su particolari quasi inutili. Il narratore registra tutto questo per poi tentare di risalire alla verità per mezzo di un processo di lento avvicinamento. Si può parlare di anamorfosi in scrittura, ovvero l’impiego di una serie di deformazioni di prospettiva che dà all’autore il compito di collocarsi in un punto di vista vantaggioso e che possa assicurare una visione significativa delle cose. Il concetto di anamorfosi, inteso come punto di vista laterale, è descritto da Jacques Lacan rifacendosi a Sartre in L’être e le néant. Il filosofo pone l’attenzione sulla differenza tra «voir» e «être-vu-par-autrui1», tra l’occhio che guarda e l’idea dello

sguardo, che si esplica nel momento in cui l’osservatore non è più solamente il soggetto che produce l’azione, ma anche l’oggetto che subisce una medesima azione: l’osservatore è a sua volta osservato.

Non solo la capacità visiva è estremamente importante, ma anche il suo contrario, ovvero la cecità. Quest’ultima, nella maggior parte dei casi, è volontaria. Sono gli stessi personaggi che fingono di non vedere (emblematico è il caso di Pino Barilari che tratteremo in seguito), indugiano in una serie di illusioni su se stessi e verso il proprio futuro che, tuttavia, vengono smentite drasticamente dagli eventi. Infine, presentiamo un ulteriore elemento fondamentale della narrativa di Bassani: il diaframma. Questo filtro è rappresentato da una qualsiasi superficie di vetro o dalla

1 JEAN-PAUL SARTRE, L'Être et le néant: Essai d'ontologie phénoménologique, Parigi, Gallimard,

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nebbia che impediscono di vedere chiaramente e soprattutto precludono il riconoscimento della rovina futura che si identifica nella shoah. Il narratore, che scrive dopo la catastrofe, è ben consapevole che l’uomo ricorrerà sempre alle sue illusioni per dimenticare gli eventi tragici del passato. Ogni individuo oscura la propria vista ignorando ed addirittura negando quel che resta del passato. Per questo motivo diventa importante il ruolo di testimone che sceglie di intraprendere.

«Recuperare il passato dunque è possibile. Bisogna, tuttavia, se proprio si ha voglia di recuperarlo, percorrere una specie di corridoio ad ogni istante più lungo. Laggiù, in fondo al remoto, soleggiato punto di convergenza delle nere pareti del corridoio, sta la vita, vivida e palpitante come una volta, quando primamente si produsse. Eterna, allora? Eterna. E nondimeno sempre più lontana, sempre più sfuggente, sempre più restia a lasciarsi di nuovo possedere2».

Per fare ciò, lo scrittore, è costretto ad andare oltre quel vetro che impedisce la visuale, deve compiere una vera e propria ‘discesa negli inferi’, come gli era stato indicato da Micòl, ed infine, dopo l’esperienza del suicidio di Edgardo Limentani, risalire verso la luce. Ciò che testimonia il suo sguardo è, allora, il punto di vista di chi è morto ma è riuscito a tornare ‘di qua’ e può restituire la verità che si trova al di là del vetro.

«E i poeti, loro, che cosa fanno se non morire, e tornare di qua per parlare?3».

Procederemo ora ad un’analisi più approfondita del Romanzo di Ferrara per indagare meglio questi aspetti.

1.1 Lida Mantovani

Il primo libro che compone il Romanzo di Ferrara, Dentro le mura (prima dell’edizione definitiva del 1980 era conosciuto col nome di Cinque storie ferraresi), è costituito da cinque storie e Lida Mantovani è la prima di queste.

Il racconto si apre con Lida in ospedale durante il suo ultimo mese di gravidanza. Un complesso gioco di sguardi che si incrociano colloca la condizione della donna come

2 G. B., Lfc, in Opere, 1980, in Opere, 1980, p. 939. 3 G. B., Un’intervista inedita (1991), p.1344.

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se fosse al di fuori della vita. In un primo momento è Lida che, volgendo il suo sguardo oltre la finestra, scorge una grande magnolia e quindi vede un oggetto: « Per oltre un mese era vissuta stesa su un letto, in fondo a un corridoio, e per tutto quel tempo non aveva fatto altro che fissare attraverso la finestra di contro, in genere spalancata, le foglie della grande magnolia secolare che sorgeva giusto nel mezzo del giardino sottostante4».

Successivamente, quando il parto è imminente, lei stessa diventa oggetto della sua stessa visione:

«Una cosa, ecco quella che si era ridotta a essere: una specie di cosa molto gonfia e insensibile (sebbene fosse soltanto Aprile, faceva già caldo), abbandonata laggiù al termine di una corsia d’ospedale5»

Sono proprio le finestre un elemento costante e significativo nella sua vita. Con la madre, infatti, è solita sedere a ridosso della finestra, conducendo la sua vita noiosa e monotona. Questo diaframma divide l’interno, in cui si trova la nostra protagonista, dall’esterno, luogo che lei stessa vagheggia poiché identifica con una felicità irraggiungibile. Ella non è in grado di superare questa parete di vetro, ma non può neppure rinunciare all’illusione di evasione. Il suo oggetto del desiderio, quel ‘fuori’ così lontano, è idealmente raggiunto attraverso lo sguardo, rendendo quindi sopportabile quella vita insoddisfacente. Questa situazione perdurerà fino alla fine dei suoi giorni.

Il rapporto con la madre è uno dei più importanti all’interno del racconto. Le due donne sono state entrambe abbandonate dopo essere rimaste incinte e questa condizione permette a Maria di affermare con certezza che «lei sola poteva specchiarsi nella figlia, comprendere per tutte e due6». Le loro vite erano speculari, tutto si era ripetuto dal principio fino alla fine e per entrambe la ferita dolorosa dell’abbandono era ancora viva e pulsante. Basandosi su questa convinzione, la donna trascina la figlia davanti allo specchio:

«Una sera scoppiò improvvisamente a ridere. Afferrò Lida per la mano e la trascinò davanti allo specchio dell’armadio. ‘Guarda là come anche noialtre siamo diventate eguali’, disse con voce soffocata. E mentre nella stanza non si udiva che il soffio della lampada a carburo, rimasero a fissare abbastanza a lungo i loro visi accostati, appena distinguibili attraverso la nebbia della lastra7».

4 G. B., LM, p.9. 5 Ibid.

6 G. B., LM (versione del 1956), p.1587. 7 G. B., LM, p.13.

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Nella prospettiva di Maria, le due donne sono l’una la proiezione dell’altra, due figure simmetriche ed immobili, troppo ossessionate da quel loro passato che le ha offese per poter guardare in avanti, verso il futuro. Questo, però, è solamente il punto di vista della vecchia madre che, forse troppo presuntuosamente, ha creduto di poter comprendere le inquietudini della figlia, sovrapponendole alle proprie. Lida non guarda di certo all’indietro per ritrovare David, il suo giovane amante; lei lo cerca ‘fuori’.

Diversamente da Lida, Oreste, l’altro protagonista del racconto, rivolge il suo sguardo verso il ‘dentro’, verso l’interno della casa delle due donne, dove si trova il suo oggetto del desiderio: l’amore di Lida.

La sera in cui il legatore deciderà di chiedere la giovane in sposa, sarà l’unico momento il cui lei riuscirà a «vederlo per la prima volta8», generando in lei un

disperato desiderio di fuga. È l’autore a ricondurre i due personaggi alla realtà del loro rapporto speculare. Oreste, infatti, non solo ama Lida, ma si specchia in lei. Proprio per questa sua condizione, anche all’uomo è negato il possesso dell’oggetto desiderato, egli continuerà a guardare verso la ragazza attraverso un metaforico vetro che lo separa da lei. I due, come del resto tutti gli altri personaggi del racconto, sono condannati ad un’esistenza di solitudine dal momento che, ciò che emerge da questa storia, è la totale incomprensione tra gli esseri umani. Ogni persona (soprattutto David) appare agli occhi di Lida come sfuggente e incomprensibile, forse proprio a causa del suo non riuscire a vedere ciò che le sta davanti, perché troppo attratta da quel ‘fuori’.

La complessità della struttura del racconto è dovuta al continuo intrecciarsi di punti di vista, di sguardi deformanti che modificano le prospettive e filtrano la realtà sotto la forte spinta dei sentimenti, dei sogni e dei desideri. Nessuno dei personaggi ha la chiara percezione della realtà e questo è il motivo per cui nessuno riesce a comprendere veramente gli altri. L’unico in possesso della realtà storica è l’autore. Egli interviene direttamente per riportare il racconto all’oggettività degli eventi.

Il narratore dà spiegazioni, fa precisazioni e si infiltra nei ricordi dei personaggi. Il lettore non riesce a capire se la voce narrante nei discorsi liberi indiretti sia quella

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dell’autore o quella interiore del personaggio; si crea così un legame tra visione oggettiva e soggettiva. Queste continue intrusioni servono a presentare gli aspetti storici, sociali, politici e culturali della Ferrara fascista in cui è ambientata la storia. Si tratta ancora di un incrociarsi di sguardi, quello del narratore e quello dei suoi personaggi; il primo intento a ricercare le testimonianze che ricostruiscano i fatti in modo obiettivo, storicizzando e delineando la società ferrarese e un mondo, i secondi dando, invece, una visione completamente soggettiva basata sui propri sentimenti.

1.2 La passeggiata prima di sera

Il secondo racconto di Dentro le mura, si apre con lo sguardo del narratore che coglie in un’immagine ben precisa la città di Ferrara, descrivendo, dapprima, molto dettagliatamente Corso Giovecca, quasi fosse una fotografia, per poi focalizzarsi sulla figura di una giovane infermiera, Gemma Brondi, che dall’ospedale si dirige verso casa. Passiamo quindi dall’occhio attento ed oggettivo dell’autore ai molteplici sguardi dei vari personaggi che si alternano e si intrecciano uno dopo l’altro. Ci imbattiamo sin da subito nello sguardo attento e scrutatore di Ausilia, la sorella di Gemma, che spia dalla finestra i suoi incontri amorosi con Elia Corcos, un dottore ebreo. Troviamo anche in questo racconto il diaframma della finestra, che permette ad Ausilia di immaginare di cogliere segreti, ammiccamenti, persino odori e sensazioni particolari. La posizione di marginalità ed estraneità alla vita in cui è stata rilegata dal destino, ma forse anche per propria volontà, viene compensata dall’attività dello sguardo che le permette di accettare il suo ruolo di esclusa. I suoi occhi, proprio come quelli di Lida, alterano la realtà adattandola ai suoi stessi sentimenti. Anche Ausilia ha un proprio oggetto del desiderio irraggiungibile: l’amore del cognato o forse, più in generale, l’amore in sé e per sé. La ragazza filtra la realtà attraverso questo suo desiderio impotente che modifica ciò che vede e, di conseguenza, la vincola maggiormente alla sua solitudine e impedisce ogni contatto con gli altri. Ella accetta passivamente la sua condizione di emarginata, ma, grazie a questo, si crede in grado di riuscire a scorgere la verità e, soprattutto, a differenza di

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Gemma, è convinta di essere l’unica a poter penetrare nell’animo di Elia e di poter dare una definizione all’unico sentimento possibile della vicenda:

« L’amore è un’altra cosa – pensava Ausilia –: nessuno meglio di lei poteva saperlo. Era qualcosa di crudele, di atroce, da spiare di lontano; o da sognarne con le palpebre abbassate. E infatti il sentimento segreto che fin da principio l’aveva tenuta legata ad Elia, tanto da costringerla per tutta la vita a una presenza continua, fatale, indispensabile, quel sentimento non era certo mai stato fonte della minima gioia, no davvero, se ogni volta, entrando nella grande cucina della casa di via della Ghiara, dove lui, presso la finestra, si attardava a studiare fino all’ora di cena […], lei sentiva il bisogno di evitare il calmo sguardo che per un attimo, al suo ingresso, si era distolto da un libro […]9 »

Proprio in questa scena viene colto lo sguardo del dottore :

«Nulla in verità poteva sfuggirgli. Eppure, insieme, sembrava quasi che non vedesse...10».

Lo sguardo di Elia è distaccato dalla realtà, è del tutto estraneo a ciò che accade intorno a lui. Egli è da sempre convinto di essere superiore e si illude di trovare la giustificazione del suo insuccesso professionale nel matrimonio sbagliato. Questa alta opinione che ha di sé è anche il motivo della sua estraneità dal mondo; egli guarda «cose e persone […] dall’alto, e in qualche modo da fuori del tempo11», è

lontano da tutto, altera la realtà, si isola in una dimensione astratta, quella della Scienza, che lo porta, di fatto, ad una vera e propria auto-esclusione.

«Ma la vedeva, in realtà? La vedeva veramente?12» si chiede Ausilia alla fine del

racconto, rendendosi conto dell’assenza dell’uomo.

Tuttavia, si può notare molto facilmente che lo sguardo di Elia è in totale accordo con lo sguardo della comunità ebraica ferrarese. È questa stessa che, per prima, ha nutrito la grande considerazione che ha di se stesso il dottore. Elia era visto come un uomo talentuosissimo, destinato ai più grandi successi. Quando però l’uomo non riesce a raggiungere le sue aspettative (che sono anche quelle degli altri), trova nella moglie il suo capro espiatorio, proprio come gli era stato indicato dal suo gruppo di appartenenza («E il suo matrimonio, a trent’anni, con una ragazza del popolo senza

9 G. B., Ppc, p.82. 10 Ibid.

11 G. B., Ppc, p.83. 12 Ibid.

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dubbio dotata di molte belle qualità, ma che chissà se aveva finito la quarta elementare, ne aveva suggellato la sconfitta e il sacrificio13»).

Il loro risentimento verso Gemma si fa ancora più esplicito quando viene detto che la giovane non era stata in grado di capire (alludendo anche alle sue scarse capacità intellettive), di non essere stata all’altezza dell’illustre dottore e di non averlo aiutato ad esprimere al meglio le sue eccellenti qualità:

«[…] la signora Gemma, la defunta moglie di Elia Corcos, nata Brondi, non era, poveretta, stata all’altezza14».

Gemma Brondi, figlia di contadini, viene vista dalla comunità come una donna furba e calcolatrice che ha incastrato e ostacolato la brillante carriera del promettente medico. Questo fatto, nella loro ottica, viene paragonato ad un evento storico, risalente al 1890, in cui Bologna ottenne, ai danni di Ferrara, l’impianto del più importante nodo ferroviario dell’Italia settentrionale. L’operazione venne attribuita ad un deputato bolognese che, per mezzo di intrighi e ricatti, era riuscito a strappar via a Ferrara la prosperità e la ricchezza che gli spettava.

Si può allora pensare che Gemma non sia solo il capro espiatorio di Elia e della sua non così brillante carriera, ma anche quello della stessa borghesia ebraica dal momento che quest’ultima si identifica facilmente con le virtù del dottore. Il mancato riconoscimento delle abilità di Elia si riversa sulla stessa comunità. Gemma Brondi, proprio come il marito, diventa rappresentante della sua categoria, quella dei contadini inurbati che stringono, come in un assedio, il centro della città, spazio designato ai ceti abbienti. Traspare un senso di pericolo provato delle classi aristocratica e borghese che, fin dalla metà dell’Ottocento, iniziano a sentirsi accerchiare dalle masse popolari guidate dal partito socialista. Il risultato di questi cambiamenti porterà questi ceti ad abbracciare il fascismo.

Alla luce di tutto questo, le insinuazioni su Gemma sono l’espressione di una paura e quasi di una ossessione verso le classi subalterne che venivano accusate di congiurare contro la prosperità della nazione. Anche in questo caso è compito del narratore riportare uno sguardo oggettivo e quindi vero sulla vicenda: Elia sposa Gemma, non perché cade nella sua trappola, ma perché lui stesso, razionalmente, la

13 G. B., Ppc, p.67. 14 G. B., Ppc, p.68.

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sceglie per tutte le buone qualità del suo carattere e la considera adeguata per il suo progetto di vita professionale.

Anche in questo racconto, l’intreccio dei punti vista di tutti i personaggi è magistralmente sciolto dall’autore. Tutte le illusioni vengono mostrate per quello che sono e ricondotte alla verità dei fatti, proprio come accade in Lida Mantovani. Nella Passeggiata prima di cena, però, vi è una piccola differenza: l’autore sfrutta lo sguardo corale della comunità ebraica per storicizzare la narrazione. Per quanto quel punto di vista sia intriso di giustificazioni, ci permette di entrare a conoscenza di eventi storici e politici della Ferrara di quegli anni e ci permette di capire quanto fossero difficili i rapporti tra ceti agiati e ceti poveri, ma anche tra ebrei e non ebrei.

1.3 Una lapide in via Mazzini

Nel terzo racconto di Dentro le mura incontriamo finalmente un personaggio, Geo Josz, un ebreo ferrarese reduce dai campi di sterminio, che condivide lo sguardo del narratore. In opposizione al punto di vista del protagonista troviamo quello della società ferrarese in tutta la sua interezza. Questa moltitudine di occhi si posa sin dall’inizio sulla figura dell’uomo:

«Però come faceva uno a credere – fu subito obiettato da moli – che l’uomo di età indefinibile, enormemente, assurdamente grasso, apparso pochi giorni prima in via Mazzini giusto davanti al Tempio israelitico, provenisse ben vivo nientemeno che dalla Germania di Buchenwald, Auschwitz, Mathausen, Dachau, eccetera [...]15».

Possiamo registrare come l’incredulità collettiva non solo si basi sull’aspetto fisico di Geo, evidentemente troppo grasso per essere stato realmente detenuto in un campo di sterminio, ma principalmente sulla possibilità di ritorno da quei luoghi infernali. Eppure Geo Josz era là, di fronte ai loro occhi, e con quella sua massa non poteva passare inosservato, non voleva passare inosservato. Egli è l’unico testimone del terribile passato, ha visto e vissuto l’inferno ed è riuscito a tornare nel mondo dei vivi come un revenant. Lo stesso Bassani dichiara:

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«Geo Josz è morto, è andato là donde non si torna, ha visto un mondo che soltanto un morto può aver visto. Miracolosamente torna, però, torna di qua. E i poeti, loro, che cosa fanno se non morire, e tornare di qua per parlare?16»

E ancora:

«Geo Josz torna dal regno dei morti in una città dopo tutto normale. Ma anche i poeti, se sono veramente tali, tornano sempre dal regno dei morti. Sono stati di là per diventare poeti, per astrarsi dal mondo, e non sarebbero poeti se non cercassero di tornare di qua, fra noi...17»

Appare chiaramente come Geo, con la sua esperienza, possa essere il candidato perfetto per portare il punto di vista dello scrittore e ricoprire al posto di Bassani il ruolo di testimone. Proprio per questo motivo, il personaggio è rappresentato da una costante e forte volontà di raccontare, un desiderio irrefrenabile di essere ascoltato; prova un vero e proprio senso di appagamento nel compiere il suo dovere, nel rispondere alle domande che i suoi concittadini gli pongono.

L’attenzione verso il reduce inizia a scemare e la sua presenza appare quasi come un fastidio. Egli rappresenta un passato scomodo che la comunità ferrarese vuole dimenticare, quasi cancellare, per poter ripartire. La città vuole costruire sulle rovine del passato, vuole illudersi e tracciare delle immagini ottimistiche del proprio futuro, per fare questo non ha bisogno della testimonianza di un fantasma. Geo, allora, si rende conto di quanto ipocrita sia la società che pretende di lavare la propria coscienza facendo costruire una lapide commemorativa per i 132 ebrei deportati in Germania. Il suo sguardo, allora, dall’alto della torre che abita, e forse anche dall’alto della sua moralità, diventa giudicante:

«Senonché, da quell’altezza, attraverso un’ampia vetrata, fu presto palese che Geo Josz poteva tener dietro a qualsiasi cosa succedesse tanto nel giardino quanto in via Campofranco. E siccome non usciva quasi mai di casa, passando presumibilmente ore e ore a guardare il vasto paesaggio di tegole brune, orti, e lontane campagne, che si stendeva ai suoi piedi, la sua presenza continua divenne in breve per gli occupanti dei piani inferiori un pensiero molesto, assillante18».

Si viene così a formare una profonda discrepanza tra l’uomo e i suoi concittadini, non ci può essere più compatibilità: «Ogni cosa girava, insomma. Geo, da un lato; Ferrara e la sua società ( non esclusi gli ebrei scampati ai massacri) dall’altro19».

16 G. B., Un’intervista inedita (1991), p.1344. 17 G. B., In risposta(VI), p.1322.

18 G. B., UlvM, p.96. 19 G. B., UlvM, p.106.

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Attraverso la sua testimonianza, non può modificare la società così come l’ha trovata, ma allo stesso tempo non può più restare distante dalla realtà che lo circonda, non può restare ‘dentro’ la sua solitudine e, con un gesto eclatante, si ribella.

Accade in un tardo pomeriggio del mese di maggio. Geo, alla vista del vecchio conte Scocca, ex informatore dell’O.V.R.A, lo schiaffeggia. La descrizione di questo incidente avviene con un’immediatezza ed efficacia tale da poter equiparare la tecnica narrativa adottata da Bassani a una riproposizione istantanea di immagini in sequenza. Vengono, poi, riportate molteplici versioni dell’accaduto da diversi cittadini che dichiarano di aver assistito all’evento, ognuna delle quali procede come una sequenza filmica a rallentatore ed ognuna di queste è in contrasto con l’altra, ma pretende di essere presa per vera, minando così l’autenticità del fatto. I numerosi resoconti e le altrettante distorsioni dell’accaduto sottolineano l’irreparabilità dell’incidente e il tentativo ultimo di Geo di inserirsi nella società ferrarese.

Nessuno, però, riesce a comprendere i reali motivi di questo gesto (che al lettore paiono chiarissimi), ma anzi, tutti quanti tendono ad isolarlo e ad emarginarlo dalla società. Alla fine, quando Geo decide di sparire nel nulla, la comunità mostra di nuovo tutta la sua ipocrisia:

«‘Se avesse avuto un po’ di pazienza!’ aggiungevano sospirando: ed erano di nuovo sinceri, ormai, di nuovo sinceramente addolorati. Dicevano poi che il tempo, che aggiusta ogni cosa di questo mondo, e grazie al quale Ferrara stessa stava risorgendo alle sue rovine uguale identica a come era una volta, il tempo avrebbe calmato alla fine anche lui, aiutandolo a tornare alla vita normale, insomma a reinserirsi20».

Era questo ciò che si chiedeva al testimone: rinunciare al suo compito, chiudere gli occhi e dimenticare quello che aveva visto come avevano fatto tutti gli altri. Lo sguardo di Geo però è quello del poeta che ha l’obbligo morale di testimoniare il vero; preferisce sparire senza lasciare traccia piuttosto che rinunciare a se stesso.

1.4 Gli ultimi anni di Clelia Trotti

Nel quarto racconto di Dentro le mura incontriamo il giovane ebreo Bruno Lattes rientrato a Ferrara per i funerali postumi di Clelia Trotti. Gran parte del racconto è

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basato sui ricordi del ragazzo nei quali dipinge con grande lucidità la figura della maestra socialista che aveva conosciuto nei mesi precedenti alla sua partenza in America e allo scoppio del conflitto mondiale.

La scena del racconto si apre con la dettagliata descrizione dello spazio narrato, con un’organizzazione prospettica che ricorda il movimento di una macchina cinematografica. La panoramica che viene catturata si restringe mano a mano sul luogo di principale interesse: piazza della Certosa. È in questa zona di passaggio che si ferma il corteo funebre; la piazza è infatti adiacente al cimitero, ma la voce autoriale si sofferma maggiormente a descrivere il luogo come prediletto per gli incontri amorosi, offrendo così un’immagine contrastante tra la vita quotidiana che va avanti e il rito secolare. Ci appare di nuovo la vita della comunità ferrarese che è sempre uguale a se stessa, una realtà che è pietrificata nella ripetizione di immutabili riti che solo l’avanzare della modernità, con il conseguente riaffiorare dei traumi di un passato superato e dimenticato, mette in crisi.

La solenne cerimonia viene infatti turbata dall’assordante rumore di una vespa guidata da una giovane biondina che aveva appuntamento con «un ragazzo all’incirca suo coetaneo, come lei biondissimo e con la medesima espressione dura e indifferente nelle iridi chiare21».

Lo sguardo di Bruno Lattes non può che essere rapito da questa breve scena e non può evitare di formulare riflessioni importanti. Egli è, come lo era stato Geo Josz, depositario del punto di vista del narratore. Il giovane è tutto occhi, osserva con grande attenzione la realtà che lo circonda, senza filtri o diaframmi che alterino le sue percezioni. Il suo sguardo è guidato dalla mente, vuole indagare, capire, essere consapevole di ciò che vede per poter afferrare il senso vero delle cose. L’episodio dei due ragazzi richiama alla memoria di Bruno una scena speculare che chiude la narrazione. Durante il suo ultimo incontro con Clelia, sei anni prima, passeggiando in piazza Certosa e poi verso le Mura, il giovane è distratto da «un ragazzo biondo, alto, snello, appoggiato alla canna di una bicicletta22» e da «una fanciulla anche lei bionda

e molto bella23». Osservando attentamente il loro incontro, gli occhi lucidi e critici di

21 G. B., GuaCT, p.132. 22 G. B., GuaCT, p.170. 23 Ibid.

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Bruno riescono a vedere il presente. Un presente dove i due ragazzi sono incuranti di tutto e di tutti, dove ciò che importa è solo l’appagamento dei loro corpi. Sono loro i nuovi emblemi della società che sta nascendo, una società senza ideali, mancante di profonde motivazioni e interessata solamente alla conquista del benessere e del piacere. Nel 1946, altri due ragazzi, confermeranno ciò che i suoi occhi avevano scrutato.

Tuttavia, soltanto Bruno è in grado di scorgere la verità, la vista degli altri personaggi è annebbiata dai conformismi, dalle paure o dalle illusioni.

Quest’ultimo caso è proprio della maestra. Relegata e sorvegliata in casa della sorella a causa del suo passato da attivista socialista, Clelia vive la sua vita di prigioniera sentendo su si sé tutto il peso di quel ‘dentro’ e guarda con speranza al ‘fuori’, proprio come Lida. Anche la donna, guardando il mondo attraverso un filtro utopico e del sogno, non riesce a vedere la realtà delle cose. Spera in un futuro migliore, dove uomini nuovi potranno fondare una società umana, ma la sua cecità le impedisce di vedere la direzione contraria che sta imboccando la civiltà. Così, mentre Bruno è ben consapevole della situazione, Clelia continua ad indugiare nel ricordo del suo passato di lotte e rivoluzioni, idealizzando e progettando un futuro civilmente radioso per tutta l’umanità. Il suo sguardo cieco, infine, si posa anche sul giovane amico, ma non riesce a vedere le vere intenzioni di Bruno. Egli non ha intenzione di mettersi in contatto con i più importanti esponenti dell’antifascismo cittadino, non ha intenzione di combattere proprio come aveva fatto lei in passato, non ha intenzione di rivestire il ruolo che la donna avrebbe voluto che ricoprisse; Bruno espatrierà in America dopo pochi giorni.

Il ragazzo, invece, aveva visto il vero essere della donna e con una sua lucidissima riflessione si chiude il racconto:

«Dunque non aveva visto niente, una volta di più non si era accorta di niente. E adesso, di nuovo, aveva ripreso a parlare. Come tra sé. Come inseguendo un suo sogno. Perduta come sempre nel suo solitario, eterno vaneggiamento da reclusa. Rabbrividì. Un giorno forse lei avrebbe capito chi era Bruno Lattes – pensò poi, tornando a guardare davanti a sé –. Ma quel giorno, se pur potesse mai arrivare, era certamente molto lontano, ancora24».

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1.5 Una notte del ‘43

Nell’ultimo racconto di Dentro le mura vengono intrecciate le storie personali dei tre personaggi principali (il farmacista Pino Barilari, sua moglie Anna ed il fascista Carlo Aretusi, detto Sciagura) ad un evento drammatico che ha segnato profondamente la storia della città di Ferrara: la notte in cui undici cittadini innocenti vennero prelevati dalle loro case e fucilati in corso Roma da alcuni squadristi.

Il racconto, però, si apre dopo questa terribile vicenda, quando ormai Ferrara ha già superato e dimenticato l’accaduto; la vita della città è andata avanti e tutto è stato ripristinato come se nulla fosse mai avvenuto. Ecco allora che entrare in scena il protagonista, Pino Barilari, che si è attribuito il compito di ricordare ai turisti ignari, ma soprattutto ai ferraresi smemorati, quale fosse il perimetro circoscritto della tragedia. L’uomo sta tutto il giorno affacciato alla finestra di casa, col suo fedele binocolo, ad osservare i passanti e ad ammonire quelli che (forestieri) osano calpestare il marciapiede dove è avvenuta la strage con un alto e sonante «Attenzione!», «Badi a lei, giovanotto!25».

Barilari è diventato un occhio vigile ed attento che costringe i suoi concittadini a fare i conti con quella ferita ancora fresca, diventando un grosso fastidio per la comunità che vuole solamente andare avanti. Con i suoi ammonimenti, il farmacista richiama alla memoria di ex-partigiani ed ex-fascisti (che adesso siedono bellamente uno accanto all’altro al Caffè della Borsa) la notte in cui alcune delle personalità più importanti della loro società erano state giustiziate anche grazie all’omertà e alla connivenza di molti.

Per conoscere il motivo di questa ossessione di Pino dobbiamo dapprima specificare la sua condizione. Il farmacista era rimasto paralizzato dalla vita in giù, effetto della sifilide contratta durante l’esperienza della marcia su Roma a cui aveva partecipato insieme a Sciagura. Da quel momento aveva iniziato ad osservare la vita cittadina dalla sua finestra da mattina a sera. Quella fatidica notte, però, Pino non stava dormendo nel suo letto; era lì, di fronte alla finestra e aveva visto tutto, compreso Sciagura.

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«Sciagura aveva alzato gli occhi verso la finestra che il giovanotto gli indicava. Era ormai sicuro […] Sempre guardando, Sciagura si era lasciato sfuggire una imprecazione soffocata, aveva avuto un gesto come di dispetto26».

Verso le 4 di notte, un’altra figura viene colta in fallo: la moglie Anna. La donna era uscita di nascosto per incontrare il proprio amante:

«Era stato a mezza strada, quando, ormai in piena luce, si trovava a cinque o sei metri dal primo mucchio di fucilati, che il pensiero di Pino le aveva attraversato la testa. Allora si era voltata. E Pino era lassù, immobile dietro i vetri della finestra del tinello, un’ombra appena visibile che la guardava. Erano rimasti così, a fissarsi per qualche secondo, lui dall’oscurità della stanza, lei dalla strada [...]27».

Pino, però, fuggire la realtà delle cose, non è in grado di affrontarla e per questo motivo finge di dormire. Durante il processo contro Sciagura dichiarerà un secco «Dormivo28» permettendo al camerata di farla franca.

Barilari preferisce chiudere gli occhi e tacere la verità su quello che ha visto. Egli vive da sempre in uno stato di paura generalizzata che di volta in volta assume l’aspetto degli altri, soprattutto i potenti, e se stesso. Questa sua condizione lo porta ad allontanare la moglie (che in seguitò lo lascerà) e tutti quanti, isolandosi nella sua stanzetta dalla quale osserva lo scorrere della vita della sua città e dalla quale si auto-esclude. Si riserva il ruolo di eterno spettatore, ma i suoi occhi non vedono la verità, ha troppa paura per poterla affrontare a viso aperto.

Nel delineare questa caratteristica, Bassani, condanna apertamente questo tipo di condotta morale. Pino potrebbe essere il testimone della realtà infernale che ha visto, ma il terrore annebbia la sua vista e lo costringe a non vedere, a fingersi cieco.

Probabilmente, l’ossessione del farmacista, sfociata quasi in pazzia, che lo induce a richiamare l’attenzione sulla scena del massacro, serve all’uomo a fissare per sempre quel passato visto e negato, come per una sorta di compensazione.

La scelta del titolo Dentro le mura per questa raccolta di racconti appare più che mai calzante. Tutti i personaggi delle cinque storie vivono in una condizione di reclusione, di distanza dal mondo reale, perennemente ostacolati da un diaframma

26 G. B., Unotte ‘43, p.194-95. 27 G. B., Unotte ‘43, p.210. 28 G. B., Unotte ‘43, p.204.

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che loro stessi edificano davanti ai propri occhi. Il limite delle mura di Ferrara è la barriera ultima che li divide dal ‘fuori’ storico e reale.

1.6 Gli occhiali d’oro

Nel secondo libro che compone il Romanzo di Ferrara, Il narratore fa finalmente la sua comparsa come personaggio.

Il romanzo è ambientato l’anno prima della promulgazione delle leggi razziali e mette in scena l’intrecciarsi di due storie segnate dalla sofferenza e dalla discriminazione: quella del protagonista, giovane ebreo, emarginato per la sua razza e quella del dottor Athos Fadigati, emarginato perché omosessuale. Entrambi rappresentano per la società il ‘diverso’ e su questo parallelismo si sviluppa la storia. La narrazione prende il suo avvio prestando la voce alla comunità ferrarese che ricorda l’arrivo del dottore in città da Venezia. Segue, poi, una descrizione fisica e caratteriale dell’uomo, delle sue abitudini e del suo studio medico. Molteplici voci e punti di vista si sovrappongono e si mescolano per cogliere gli elementi più significativi che descrivono Fadigati. Ciò che desta maggior attenzione nella comunità è il suo essere ancora celibe nonostante l’età e le sue innumerevoli virtù. Iniziano a spargersi vari pettegolezzi:

«[…] quand’ecco, non si sa da chi messe in giro, cominciarono a udirsi strane, anzi stranissime voci. ‘Non lo sai? Mi risulta che il dottor Fadigati è...’ ‘Sta a sentire la novità. Conosci mica quel dottor Fadigati, che abita in Gorgadello, quasi all’angolo con Bersaglieri del Po? Ebbene, ho sentito dire che è...29»

Dopo un iniziale sbigottimento dell’intera società, le acque si calmano. Tutti, bene o male, tollerano l’omosessualità del dottore dal momento che si comporta in modo molto discreto in pubblico e cerca di evitare ogni scandalo con estrema attenzione. Questo atteggiamento di cautela, con cui l’uomo cura la propria immagine pubblica, unita ad una sorta di reclusione forzata e ad una fuga da ogni contatto con il prossimo, delineano un’auto-esclusione che il dottore ha operato verso se stesso; è questo il modo in cui ha deciso di gestire la sua condizione di ‘diverso’.

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Sebbene lo sguardo di Fadigati riesca a cogliere quanto ci sia di sbagliato in una società che non accetta la diversità, che sia la sua o quella degli ebrei, tuttavia, non è in grado di reagire e accetta passivamente il ruolo di ‘diverso’ che gli è stato cucito addosso, mostrando quasi un compiacimento nell’essere trattato male.

Dimostra di accettare quelle regole comportamentali indicate dalla società che lo discrimina, è costretto ad essere una vittima poiché non ha altra scelta.

Non reagisce neppure dopo essere stato completamente rovinato dalla storia amorosa con Deliliers. Il giovane, non solo lo ha abbandonato, lasciandolo praticamente in banca rotta, ma lo scalpore che ha creato la loro reazione porta ad una netta chiusura di tutta la società nei confronti del medico. Egli viene estromesso dai circoli cittadini e perde anche il lavoro in ospedale e la sua clinica privata.

Questa rassegnazione agli eventi lo rende una vittima complice della sua stessa tortura, diventa il simbolo di una passività colpevole che sarà poi imputata dallo stesso Bassani anche a molti ebrei italiani.

Nell’ultimo incontro tra il narratore e Fadigati, quest’ultimo gli appare molto invecchiato e degradato. Bandito dalla società, povero e solo, è seguito da una cagna sulla quale non può fare altri che riversare il proprio affetto. La bestia è smarrita ed esausta, ma allo stesso tempo amorosa e fedele al suo padrone, dal quale ritornerà dopo aver accompagnato il dottore a casa e aver passato la notte nella sua abitazione. La povera cagna sembra disperatamente bisognosa di una parola o una semplice carezza, proprio come l’uomo sente la necessità di un qualsiasi contatto umano. Ancora l’animale, come implorando, sembra voler dire «Picchiami, uccidimi pure, se vuoi! […] È giusto, e poi mi piace!30», è sicuramente l’espressione di un amore che

resiste nonostante le umiliazioni e le offese, un sentimento che Fadigati riconosce inconsciamente come suo. Il dottore, allora, si lascia andare ad una riflessione che esplica perfettamente questo suo ruolo di vittima che costantemente perdona e consente al proprio carnefice di calpestarlo ancora ed ancora:

«Forse bisognerebbe essere così, sapere accettare la propria natura. Ma d’altra parte come si fa? È possibile pagare un prezzo simile? Nell’uomo c’è molto della bestia, eppure può, l’uomo, arrendersi? Ammettere di essere una bestia, e soltanto una bestia?31»

30 G. B., God’o, p. 300. 31 Ibid.

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Con queste parole, l’uomo, vorrebbe dare un consiglio quasi paternalistico al narratore, ma la sua risposta è ben chiara:

«Cosa dovrei fare? […] Accettare di essere quello che sono? O meglio adattarmi ad essere quello che gli altri vogliono che io sia?32».

Il narratore è diverso da Fadigati; benché entrambi condividano una diversità che li emargina dalla società, il protagonista ammette di non saper riuscire a rispondere all’odio se non con altro odio.

Il medico si è illuso di trovare nel ragazzo qualcuno che gli somigliasse; non è riuscito a vedere il suo vero essere. Anche Fadigati, di fronte ai suoi occhi, ha un diaframma: i suoi occhiali d’oro.

Se da una parte, questi, gli permettono di vedere meglio e di appurare la verità, dall’altra, però, sono appunto come una sottile barriera di vetro che divide l’occhio dall’oggetto, ostacolando la sua possibilità di entrare realmente in contatto con le cose. Questo richiama alla mente l’episodio del viaggio in treno, quando il medico osserva da dietro le lenti il mondo attraente dei giovani universitari di cui vorrebbe far parte, ma l’uomo è troppo lontano da loro e per quanto i suoi occhi cerchino disperatamente di raggiungere l’oggetto del desiderio, questi, si scontreranno irrimediabilmente con quel diaframma insuperabile, eretto tra lui e gli altri.

Emblematico è, allora, il lascito di Deliliers: un’incrinatura sulla lente che simboleggia l’inefficacia dei suoi occhiali per vedere realmente la verità.

Diverso è invece lo sguardo del narratore, che come quello di Bruno Lattes è lucido ed intelligente. Si distingue da tutti gli altri proprio per questa sua perspicacia che gli permette di vedere chiaramente le illusioni che la società si è costruiti sul Duce e sul regime fascista. Tra i vari personaggi presentati all’interno del racconto, la signora Lavezzoli è sicuramente la miglior rappresentante del clima ottimismo e fiducioso della borghesia fascista, facilmente impressionabile dalle apparenze e dalle buone maniere dell’aristocrazia ariana.

Anche il punto di vista di Nino Bottecchiari, amico del narratore, rimane molto ottimistico nonostante circolino le prime indiscrezioni sulla promulgazioni delle leggi razziali in Italia. Egli è convinto che a Ferrara sia impossibile attuare una

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politica del genere dal momento che tutte le famiglie ebree della città erano parte della borghesia e costituivano la spina dorsale di Ferrara.

È sincero quando dice al narratore: «Nonostante le apparenze, non credo che nei vostri riguardi l’Italia si metterà davvero sulla stessa strada della Germania. Vedrai che tutto finirà nella solita bolla di sapone33».

Nino ci crede veramente, eppure il protagonista non può che notare quanto questo suo atteggiamento così ottuso sia anche irrimediabilmente goìm.

Eppure anche tra gli ebrei, tra i suoi stessi familiari, c’è chi non vuole vedere. Suo padre, infatti, preferisce oscurare la sua vista con una vana speranza e racchiudersi in un bozzolo protettivo che lo tenga lontano dalla terribile realtà. Aggrappandosi alle parole ottimistiche dell’avvocato Geremia Tabet, che assicurava l’impossibilità dell’emanazione delle leggi razziali, l’uomo riesce a ritrovare il sorriso. Questa arrendevolezza, questa cecità, è identica a quella di Fadigati.

«Dunque era proprio questo che non sopportavo? – mi chiedevo – . Non sopportavo che lui fosse contento? Che il futuro gli sorridesse di nuovo come una volta, come

prima?34»

Niente poteva e doveva essere ripristinato dopo che i suoi occhi avevano visto la realtà senza veli, quella verità tremenda che tutti gli altri rifiutano di vedere.

Ecco, allora, che l’episodio del cimitero acquista maggiore importanza.

Il narratore, rientrato in città dopo la villeggiatura estiva, monta sulla sua bicicletta e pedala fino alle Mura degli Angeli. Da lì, il suo sguardo si posa sul cimitero isrealitico:

«Guardavo al campo sottostante, in cui erano sepolti i nostri morti. [...] Quand’ecco, guardando a loro e al vasto paesaggio urbano che mi si mostrava di lassù in tutta la sua estensione, mi sentii d’un tratto penetrare da una gran dolcezza, da una pace e da una gratitudine tenerissime. Il sole al tramonto, forando una scura coltre di nuvole bassa sull’orizzonte, illuminava vivamente ogni cosa […]35»

Questa visione corrisponde senza dubbio alla visione della morte a cui il ragazzo, insieme a tutti gli altri ebrei, si sente condotto dal critico andamento della storia. Il cimitero assume il ruolo di luogo prescelto per accogliere le vittime di una colpa etica e storica, che da sempre è stata attribuita alla sua ‘razza’.

33 G. B., God’o, p.291.

34 G. B., God’o, p. 312.

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La morte, tuttavia, non è vista come un qualcosa si tragico e negativo. Il sole illumina le lapidi infondendo in queste la vita; non sono più soltanto fredde pietre commemorative, ma calde testimonianze del tempo.

Affinché questa testimonianza e il ricordo dei morti presenti e delle vittime future non vengano dimenticati facilmente, occorre l’intervento della scrittura che cristallizzi nelle sue parole tutto quello che è stato visto. Contro l’incessante procedere del tempo, che risucchia tutti i ricordi nel vortice dell’oblio, lo scrittore ha il compito di dare voce ai morti, a tutti quanti, sia che siano stati vittime o carnefici, per salvare la loro memoria, la loro testimonianza.

Solo la memoria e la scrittura possono sottrarre, momentaneamente, alla morte, per poi riconsegnare nuovamente a questa.

Questa coscienza, però, non è stata ancora del tutto ottenuta dal protagonista.

1.7 Il giardino dei Finzi-Contini

Nel secondo libro che compone il Romanzo di Ferrara troviamo non solo il narratore come protagonista, ma facciamo anche la conoscenza di uno dei personaggi meglio riusciti di tutta la produzione bassaniana: Micòl Finzi-Contini. È lo sguardo della ragazza che fa da padrone nel romanzo e che, soprattutto, diventerà modello di quello autoriale.

Come constata Vanelli, lo sguardo di Micòl ha due caratteristiche fondamentali: «l’intenzionalità e l’ironia36».

I suoi occhi sono lucidi e oggettivi, scavano nella realtà e vedono ciò che ancora rimane celato per gli altri, dal momento che trova un senso a tutto quello che vede. Proprio in questo modo guarda la vecchia carrozza di famiglia e il loro sandolino nell’episodio della rimessa. La prima continua ad essere lucidata dal fedele tuttofare Perotti e, benché ormai abbia perso la sua funzione, diventa simbolo di una illusoria speranza di vincere il tempo e la morte; il secondo, invece, ridotto ad un rottame,

36 PAOLO VANELLI, Lo sguardo di Micol:i modi della visione nell’opera narrativa di Giorgio

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aspetta dignitosamente il momento in cui sarà rimosso dimostrandosi in grado di accettare lo scorrere del tempo e il suo destino. Per questo dirà al narratore:

«Anche le cose muoiono, caro mio. E allora, se anche loro devono morire, tant’è, meglio lasciarle andare. C’è molto più stile, oltre tutto, ti sembra?37», ma lui non è

ancora in grado di capire tutta l’importanza di questa dichiarazione.

La ragazza si pone ad una distanza ben precisa per osservare il mondo e la realtà, occupa una posizione liminare, in una zona di confine tra vita e morte che le permette di vivere vicino alle cose ma senza che queste possano influenzarla minimamente. Grazie a questo, basandosi unicamente sulla sua coscienza, può avvicinarsi agli oggetti e vedere la loro pura essenza.

Micòl non si lascia offuscare la vista dei sentimenti personali e dalle convinzioni degli altri e per questo è l’unica che riesce a capire perfettamente quello che accadrà e accetta prontamente il ruolo di vittima che la storia ha stabilito per lei e per tutti gli altri ebrei. I suoi famigliari ed i suoi amici non riescono a comprendere fino in fondo quello che sta accadendo e quello che verrà, si rifugiano nella loro vita quotidiana e si creano illusioni sul domani. Persino il nostro narratore, in parte, si illude fantasticando una storia d’amore con Micòl, ma è la stessa ragazza a sottolineare quanto quel preciso momento storico renda irrealizzabile quel progetto.

È consapevole della cecità degli altri, ma questo non la fa sentire in nessun modo superiore, anzi, rivolge loro uno sguardo ironico che scruta direttamente il valore in sé delle cose e le permette di comprendere le ragioni più profonde di ciascuno. Osservando il mondo da lontano, con questa ironia che si fa espressione di un sentimento pietoso, abbraccia tutti quanti con un affetto sincero e vede l’essenza più vera dell’uomo. Ogni essere, che sia vittima o carnefice è degno di essere rispettato e, allo stesso modo, ricordato.

Fondamentale è, allora, la scena in cui il protagonista chiede alla ragazza di descrivere la sua camera da letto, permettendole di esprimere ciò che intende per ‘vedere’:

«‘Descrivimi la tua stanza.’ Fece schioccare a più riprese la lingua contro i denti in segno di diniego. ‘Quella mai. Verboten. Privat. Posso, se vuoi, descrivere quello che vedo guardando fuori dalla finestra.’ Vedeva attraverso i vetri, in primo piano, le sommità barbute delle sue 37 G. B., GFC, p.418.

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Washingtoniae graciles che la pioggia e il vento stavano battendo ‘indegnamente’ […] Poi, più in là, nascoste a tratti da brandelli di nebbie vaganti, vedeva le quattro torri del Castello, che i rovesci di pioggia avevano reso nere come tizzoni spenti. E dietro le torri, lividi da far rabbrividire, e anche questi celati ogni tanto dalla nebbia, i lontani marmi della facciata e del campanile del duomo…Oh, la nebbia! Non le piaceva, quando era così, che le faceva pensare a degli stracci sporchi. Ma presto o tardi la pioggia sarebbe finita: e allora la nebbia, di mattina, trafitta dai deboli raggi del sole, si sarebbe trasformata in un che di prezioso, di delicatamente opalescente, dai riflessi in tutto simili nel loro cangiare a quelli dei ‘làttimi’ di cui aveva piena la stanza38».

Micòl rifiuta di descrivere l’interno della sua stanza, ma si offre disponibile a raccontare ciò che i suoi occhi vedono all’esterno. Il ‘fuori’ che descrive la giovane è caratterizzato dalla nebbia, un diaframma che copre e nasconde le cose, ma il suo sguardo riesce a guardare oltre questa barriera lattiginosa e cogliere la realtà. Non vi è, però, solo questo tipo di nebbia; quella veneziana è vaga e luminosa, si fa trapassare dai raggi solari, generando dei riflessi del tutto simili a quelli dei suoi làttimi («Sono vetri. Bicchieri, calici, ampolle, ampolline, scatolucce: cosette, in genere scarti d’antiquariato39»). I làttimi sono il filtro attraverso il quale Micòl

guarda il mondo, ma questo non genera illusioni o fantasie, anzi, le permette di vedere chiaramente la realtà più profonda delle cose. Micòl è quindi la signora dei vetri e la sua camera viene connotata come la stanza dei làttimi. Al protagonista è permesso di ‘vedere’ in parte attraverso gli occhi della ragazza, ma siamo solo al principio di quella che sarà la sua iniziazione. Egli ancora non dispone di una vista adeguata e sarà compito dell’amica prenderlo per mano e guidarlo per la giusta strada.

La giovane ha scelto per se stessa il mondo dei morti, non vuole sottrarsi dal suo destino di morte che l’attende e quindi sa di non poter tornare, tuttavia non vuole essere dimenticata. Per quanto senta affine a sé il narratore, intuisce che a lui non può e non deve essere riservato lo stesso destino e quindi gli affida il difficile compito di testimoniare in suo nome. Per fare questo, però, è necessario che il ragazzo condivida la visione del mondo di Micòl e che quindi anche lui stesso compia una discesa nel mondo infero. Una prima e metaforica discesa avviene nella gioventù del

38 G. B., GFC, p.423. 39 Ibid.

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protagonista, quando la ragazza, dopo averlo invitato a scavalcare le mura del suo giardino, gli indica il luogo perfetto in cui poter nascondere la bicicletta:

«‘Vedi quel buco là?’, mi disse poi, non appena fummo arrivati in cima. ‘La bicicletta puoi senz’altro nascondercela dentro’. Mi indicava, a una cinquantina di metri di distanza, una di quelle piccole, erbose montagnole coniche, non più alte di due metri e con l’apertura d’ingresso quasi sempre interrata, nelle quali è abbastanza frequente imbattersi facendo il giro delle mura di Ferrara. A vederle assomigliano un po’ ai montarozzi etruschi della campagna romana; in scala molto minore, s’intende. Senonché la camera sotterranea, spesso vastissima a cui qualche duna di esse dà ancora adito, non ha mai servito da casa per nessun morto40».

Il parallelismo con le antiche tombe etrusche ci fa già entrare in una dimensione di morte. La discesa è descritta come una sorta di percorso conoscitivo durante il quale il narratore arriva a rendersi conto della realtà che lo circonda:

«Dovevo procedere adagio, anche per via della bicicletta il cui pedale di destra non faceva che urtare nella parete; e da principio, per tre o quattro metri almeno, fui come cieco, non vedevo nulla, assolutamente. Ma a una decina di metri dalla bocca d'ingresso (‘Sta attento’, gridò a questo punto la voce già lontana di Micòl, alle mie spalle: ‘bada che ci sono degli scalini!’), cominciai a distinguere qualcosa. Il cunicolo finiva poco più avanti: ce n’era per qualche altro metro di discesa soltanto. Ed era appunto di lì, a partire da una specie di pianerottolo attorno al quale indovinavo, già prima di esserci, uno spazio totalmente diverso, che avevano inizio gli scalini preannunciati da Micòl41».

Il suo essere ‘cieco’ ricorda da vicino la cecità degli altri personaggi bassaniani che si lasciano illudere da sogni e fantasie; troppo presi da problemi inesistenti non riescono a scorgere il pericolo imminente della guerra. Anche l’io narrante è come loro: in quel momento egli è troppo impegnato a rimuginare sull’insufficienza presa in matematica e poi, nel presente del romanzo, è troppo preso dall’amore per Micòl. Poco a poco, però, i suoi occhi iniziano ad abituarsi al buio e a scorgere lo spazio intorno, preannunciando l’acquisizione futura della ‘vista’. Anche in questo passo possiamo notare come la voce della giovane guidi la discesa dell’amico anticipando la presenza degli scalini. Trattenutosi troppo in quei sotterranei, il narratore, alla sua risalita, non troverà più nessuno ad aspettarlo, ma non per questo perderà il ruolo a cui è destinato. Micòl ha da sempre saputo vedere dentro il giovane, ha saputo riconoscere in lui quei tratti della sua personalità identici ai suoi, necessari per compiere il viaggio nel regno dei morti. Ha da sempre provato affetto per gli occhi

40 G. B., GFC, p.361. 41 G. B., GFC, p.363.

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glauchi dell’amico proprio perché questi avevano la possibilità di vedere realmente. Riconosce in lui uno della sua stessa specie, un caro fratello, qualcuno che le stava «di fianco42» e che, soprattutto, era uguale a lei:

«‘Hai detto che siamo uguali’, dissi. ‘In che senso?’ Ma sì, ma sì – esclamò –, e nel senso che anch’io, come lei, non disponevo di quel gusto istintivo delle cose che caratterizza la gente normale. Lo intuiva benissimo: per me, non meno che per lei, più del presente contava il passato, più del possesso il ricordarsene. Di fronte alla memoria, ogni possesso non può che apparire delusivo, banale, insufficiente… Come mi capiva! La mia ansia che il presente diventasse ‘subito’ passato perché potessi amarlo e vagheggiarlo a mio agio era anche sua, tale e quale. Era il nostro ‘vizio’, questo: d’andare avanti con le teste sempre voltate all’indietro43».

Il volgere il proprio sguardo verso il passato e dare la massima importanza alla funzione della memoria sono quei caratteri che Micòl condivide col narratore e che sono fondamentali per compiere la discesa nel mondo dei morti. Tutto ciò che dovrà fare l’autore, allora, sarà quello di imparare a guardare ai morti, a tutti quanti e a voler loro bene. È compito della giovane amica indicargli la strada e condurlo fino a quel punto, all’uscita dell’aldilà, in modo che, una volta tornato al mondo dei vivi, egli possa farsi testimone di ciò che ha realmente visto, attraverso la memoria e la scrittura. Il protagonista dovrà tornare per acquistare il proprio posto nel mondo, deve rendersi consapevole delle sue azione e deve prestare la voce a quelli che non ci sono più. Per fare questo, però, egli dovrà rinunciare alle sue fantasie amorose, andare oltre a quel vetro che annebbia i suoi occhi per scorgere finalmente la verità. «Fu così che rinunciai a Micòl44».

Questa è la condizione necessaria per acquisire la ‘vista’.

Finalmente è riuscito ad ottenere uno sguardo straniato con cui può filtrare la realtà; allontanandosi dai numerosi e soggettivi punti di vista degli altri, può finalmente osservare il mondo per quello che è. I fili sottili che legano le cose tra loro si allentano e si sfaldano, ha una visione chiara di tutto, nel modo più semplice possibile: ogni cosa esiste e tutto scivola irrimediabilmente verso la morte. Questa consapevolezza non genera più in lui ansia o angoscia, ma anzi «Ero lucido, sereno, tranquillo45».

42 G. B., GFC, p.511. 43 G. B., GFC, p.513. 44 G. B., GFC, p.568. 45 G. B., GFC, p.575.

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Sotto la guida di Micòl, il protagonista riesce ad abbandonare la sua visione ingenua ed estetica per approdare ad una intelligente, matura e umoristica. I suoi occhi ora sono sì critici, ma anche affettuosi e pietosi. Egli può registrare la realtà storica e comprendere fino in fondo la realtà che vede in tutte le sue sfaccettature, avvolgendola in un senso di pietà. Micòl gli ha insegnato a guardare il mondo con i suoi stessi occhi e, alla fine, lo sguardo della ragazza è diventato il suo.

1.8 Dietro la porta

Nel quarto libro che compone il Romanzo di Ferrara l’elemento cardine è un’analisi introspettiva che il narratore-protagonista fa sul se stesso degli anni giovanili del liceo, per indagare approfonditamente quegli eventi decisivi che hanno influenzato la sua evoluzione successiva.

L’attenzione si concentra soprattutto su un trauma che è sempre stato glissato nella produzione precedente, ma che adesso offre un’innovativa chiave di lettura per i suoi romanzi precedenti. Il romanzo si apre appunto con queste parole:

«Sono stato molte volte infelice, nella mia vita, da bambino, da ragazzo, da giovane, da uomo fatto; molte volte, se ci ripenso, ho toccato quello che si dice il fondo della disperazione. Ricordo tuttavia pochi periodi più neri, per me, dei mesi di scuola fra l’ottobre del 1929 e il giugno del ’30, quando facevo la prima liceo. Gli anni trascorsi da allora non sono in fondo serviti a niente: non sono riusciti a medicare un dolore che è rimasto là come una ferita segreta, sanguinante in segreto. Guarirne? Liberarmene? Non so se sarà mai possibile46».

La narrazione ci conduce, quindi, al momento esatto in cui il protagonista prende coscienza di questa dolorosa ferita che fino ad allora rimane sottintesa.

Durante tutto l’arco del racconto, infatti, il narratore riporta fatti e pensieri che mostrano le sue effettive difficoltà di adattamento e il disagio a relazionarsi ad un nuovo gruppo dal quale si sente già un estraneo. In qualche modo, allora cerca già di auto-escludersi da quella cerchia che ruota attorno a Cattolica, ma alla quale vorrebbe appartenere ed essere integrato. L’impossibilità di omogeneità tra il giovane ebreo e i compagni non ebrei anticipano i successivi avvenimenti storici. Nei confronti di questi ‘altri’ il ragazzo prova una serie di sentimenti antitetici: se da una

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parte sente la sua inadeguatezza, una vera e propria inferiorità, dall’altra si fa scudo delle proprie doti morali ed intellettuali facendole diventare un vero e proprio vanto. Questo atteggiamento è tipico di quei gruppi subalterni e, principalmente, di quegli ebrei assimilati presenti in gran numero nella società italiana. L’odio per il suo essere ebreo è racchiuso in quei sentimenti negativi che prova verso il nuovo compagno, Luciano Pulga. Quest’ultimo è descritto con quei tratti fisici tipicamente semitici, quali il naso adunco e la fronte spaziosa, ma soprattutto con quei tratti morali che la propaganda antisemita aveva diffuso ovunque, quali il suo essere losco e ripugnante, viscido, sgradevole, passivo e ruffiano, infido ed in grado di infiltrarsi in situazioni sociali a cui è estraneo. Se Luciano rispecchia tutti gli aspetti negativi del protagonista, quest’ultimo, non può che sentirsi in qualche modo vicino a lui proprio per questo. Egli infatti non riesce ad allontanarlo da sé, perché riconosce in lui un escluso e prova una qualche affinità per la sua condizione.

È Pulga il protagonista della scena cardine dell’intero romanzo. Il narratore, invitato a casa di Cattolica, origlia ciò che Luciano dice di lui. Il ragazzo si nasconde dietro una porta e subisce silenziosamente le accuse e gli insulti del compagno che elenca tutta una serie di debolezze e difetti legati alla sua identità ebraica, al rapporto che ha con la madre e la sua sessualità, concludendo la sua requisitoria tacciandolo di omosessualità. È inevitabile la rottura di quella dimensione protetta ed infantile in cui si era illuso fino a quel momento.

Proprio in questo frangente l’‘altro’ gli si presenta come estraneo, incomprensibile e minaccioso, poiché scopre tutte quelle zone d’ombra che si celano nell’animo umano. Di fronte a questa agnizione, il narratore non può fare altro che allontanarsi dalla sua cerchia sociale e anche familiare, innalzando delle mura immaginari tra sé e gli altri, chiudendosi in se stesso, esiliandosi dal reale; da qui nasce la sua alienazione.

Significativo è allora l’episodio in cui il protagonista è al telefono con Cattolica e discutono su che cosa si basi realmente l’amicizia. Riportando le parole del compagno:

«Cominciò dichiarando d’avere molto meditato su quello che ci eravamo detti il giorno prima. Era giusto: amicizia e amore, come parole hanno il medesimo radicale, am. E se l’amore è in sostanza

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desiderio di concordare, di identificarsi con l’altro, di sentire assieme con l’altro (sun-pathèin), ne consegue che la simpatia sta alla base dell’amicizia47»

Ciò che è mostrato nel romanzo è allora un’impossibilità nell’identificarsi col l’‘altro’. Perdendo ciò che sta alla base di ogni relazione personale, appare naturale come ogni legame possa venir facilmente reciso, perfino quello familiare.

Così l’autore descrive il suo rientro a casa, dopo essere entrato in uno stato di alienazione totale:

«Li scrutai uno dopo l’altro tutti quanti come se fossero degli estranei (il volto di mia madre, invisibile, uno strano blocco della memoria mi impediva di ricordarlo). Era mio padre – mi domandavo – quel povero vecchio [...]. Erano i miei fratelli quei due ragazzetti dall’aria serie e compunta, ma che fra un momento sarebbero scoppiati a ridere48

Ciò che lo scrittore ha voluto fare in questo romanzo è svelare tutte le tappe dello sviluppo della sua identità, mostrando come in quegli anni di formazione si siano originati anche in lui certi segni di ambiguità e cecità di fronte alla verità che gli si parava davanti. Riconosce la porta dietro la quale si nasconde come il filtro che ha annebbiato la sua vista e gli ha fornito una visione parziale della realtà oggettiva delle cose. Quel diaframma è l’alibi che utilizza per sfuggire ad un reale troppo spaventoso, con cui non era certo in grado di fare i conti:

«[…] se Luciano Pulga era in grado di accettare il confronto della verità, io no. […], la porta dietro la quale ancora una volta mi nascondevo inutile che pensassi di spalancarla. Non ci sarei riuscito, niente da fare. Né adesso, né mai49».

È questa una critica che Bassani fa al se stesso di quel tempo e alla sua stessa gente. Chiudere gli occhi, fare finta di non vedere, negare le umiliazioni, era sicuramente più semplice che affrontare la realtà e ricordare a tutti quale fosse la verità.

1.9 L’airone

Nel quinto libro che compone il Romanzo di Ferrara facciamo la conoscenza di Edgardo Limentani durante l’ultimo giorno della sua vita. L’uomo parte per una battuta di caccia durante la quale ha modo di osservare attentamente la vita che

47 G. B., Dp, p. 648. 48 G. B., Dp, p. 679. 49 G. B., Dp, p. 699.

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scorre intorno a lui. Tutto gli appare estraneo e privo di senso, separato e lontano e la fredda minuziosità con cui registra ogni particolare è l’unico strumento che ha a disposizione per raccontare la vita. Per questo motivo guarda alle cose che lo circondano tenendosi a distanza e senza avere una vera e propria volontà di osservarle, vede forme e volumi che gli scorrono davanti gli occhi, ma non vi è in lui un impulso a comprenderle. La percezione che ha di se stesso è priva di ogni forma di piacere e carica di un’angoscia che ha avuto origine dalla frattura interna del suo io. Si genera allora un’insoddisfazione che può essere paragonata a quella dell’autore stesso, quando nel dopoguerra è costretto a fronteggiare la fine delle illusioni e il ripresentarsi di quelle forme morali contro cui aveva combattuto. Limentani condivide con Bassani anche il sentimento di estraneità, che è maturata nello scrittore a causa del suo essere ebreo in primis e poi col suo essere partigiano e militante in una società ingiusta, che professa una falsa democrazia. Per Limentani niente ha più significato e solo in punto di morte riesce a recuperare il vero peso storico degli avvenimenti. Comprende di essere il testimone di un mondo aristocratico e borghese finito e superato, ma se l’uomo riesce a raggiungere questa sorta di illuminazione è solo a causa delle scelte sbagliate che ha compiuto durante tutto l’arco della sua vita. Il sentimento di malessere diffuso e l’insoddisfazione a vivere che si generano nell’animo di Edgardo non può che trovare un’unica soluzione: il suicidio. La morte, tuttavia, non è qualcosa di negativo, ma anzi, è accettata serenamente e considerata come l’estremo tentativo di recuperare l’unità originaria, una situazione di pienezza collocata fuori dal tempo e dallo spazio.

Come immagine della morte, durante la battuta di caccia, gli appare un airone ferito, che così sgraziato nella sua ultima ora, non può che ricordargli se stesso:

«[…] che se a pensare di sparargli non gli fosse sembrato, a lui, di star sparando in un certo senso a se stesso, gli avrebbe tirato immediatamente. E così se non altro sarebbe finita50».

Poco dopo, in città, Limentani ritroverà l’animale, ma questa volta gli appare di una bellezza impareggiabile e perfetta, oltre la vetrina di un negozio di impagliature.

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