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Gli scritti di critica d’arte di Giorgio Bassan

2 1 L’immaginario figurativo di Bassan

2.2 Gli scritti di critica d’arte di Giorgio Bassan

L’esperienza di Giorgio Bassani come critico d’arte risulta in linea con il suo percorso artistico e con gli stretti rapporti di amicizia che aveva instaurato con i compagni di università ed ovviamente col maestro Longhi, il quale lo aveva persino invitato a collaborare alla sua rivista, Paragone, dal 1953.

Non può sfuggire l’influenza longhiana nello stile utilizzato dal nostro autore quando si occupa di critica d’arte, soprattutto per quanto riguarda la creazione di vere e proprie ‘equivalenze verbali’ tra pittura e letteratura. Longhi infatti era profondamente convinto della possibilità della scrittura di riprodurre l’opera d’arte figurativa e questa teoria venne assorbita da tutti quei discepoli che frequentavano con passione le sue lezioni di storia d’arte. Bassani, insieme ai compagni universitari, assimila gli insegnamenti del maestro e attraverso l’uso di ekphrasis cerca di imitare il linguaggio visuale con quello verbale, seguendo una direzione che includeva l’interesse longhiano verso l’arte del Seicento, in particolar modo il Manierismo, ma volgendo anche un occhio attento all’arte contemporanea. Non possiamo infatti dimenticare quanto siano importanti per Bassani pittori quali Morandi, Cavaglieri, De Pisis, Corsi che non sono solo stati oggetto di studio, ma alcune loro opere vengono scelte personalmente dall’autore per figurare sulle copertine dei suoi romanzi, come a voler anticipare l’immaginario narrativo, pittorico e visivo delle sue opere. Del resto, se nei suoi racconti lo sguardo e la visività sono elementi essenziali, negli scritti di critica il dato visivo è il punto di partenza per descrivere l’opera d’arte, l’occhio coglie tutti gli elementi pittorici e gli eventi in ‘presa diretta’ che appaiono come se fossero osservati piuttosto che narrati. L’indimenticabile impatto visivo è ciò che guida la scrittura bassaniana. Egli segue il ricordo e le impressioni suscitate dalla prima occhiata che ha rivolto all’opera pittorica. Non mancheranno espressioni del tipo « se tornavo con la mente / se non ricordo male / se ricordo bene

/ ricordo bene / ogni volta, non mi sazio mai di guardare / se non sbaglio / ho rivisto in questi giorni quelle lontane incisioni / mi pare», né i vigili passaggi dal presente

all’imperfetto e al passato remoto che richiamano il metodo longhiano secondo cui la descrizione di un’opera deve « ricostruire in laboratorio la freschezza delle

impressioni primitive200» proprio perché il compito del critico è quello di

«“raccontare” il quadro201», accettando così la prospettiva di un racconto che abbia

varie finalità. Questa particolare struttura formale è necessaria per mantenere un «rapporto costante con l’opera che tende a rappresentare202».

Influenze longhiane, inoltre, possiamo ritrovarle anche sul piano espressivo. Bassani, proprio come il maestro, preferisce fare a meno dei tecnicismi della critica d’arte, scegliendo sempre un’alternativa espressiva più fluida. Caratteristica fondamentale del linguaggio del Longhi è il rifarsi a dei moduli espressivi tipici della prosa lirica dei critici decadenti: John Ruskin, Walter Pater, Charles Baudelaire, Eugène Fromentin e Gabriele D’Annunzio. È in quel loro ‘dilettantismo’ che il critico trova il modo di allontanarsi dalla terminologia troppo specifica della disciplina e che non gli permetteva in nessun modo di descrivere anche quelle «fitte emotive» che l’opera d’arte provoca nel cuore del suo lettore.

Bassani non è da meno e, seguendo l’esempio del maestro, si serve molto spesso di formule proprie della narrazione per descrivere un’opera d’arte, quasi come se scrivesse un racconto. Questo modus operandi gli era sicuramente congeniale non solo per il suo non essere un ‘addetto ai lavori’, ma anche grazie al suo sapiente uso della lingua e alla vicinanza cronologica, territoriale e poetica con alcuni artisti. Infine anche l’impostazione di tipo storicistico deriva dal Longhi. Partendo da un dato biografico o storico, Bassani evidenzia un particolare visivo che pone alla base della sua indagine critica; da questo punto, egli cerca di desumere anche il rapporto tra l’artista e il suo stesso ambiente storico-figurativo. Operando in questo modo, lo scrittore rivela una grande sensibilità e attenzione nella lettura di immagini visive. Grazie a tutti questi elementi, il nostro autore riesce a intrecciare arte e parola, immagine e letteratura. La sua scrittura segue una strada tracciata dalla pittura, dirigendosi verso «una specie di casta monocromia emozionale, tanto ascetica quanto di grande eleganza formale203».

200 PIER VINCENZO MENGALDO, La tradizione del Novecento, Milano, Feltrinelli, 1980, p.260. 201 Ibid.

202 ROBERTO LONGHI, Scritti giovanili 1912-1922, in Opere, i, 1, Firenze, Sansoni, 1961, p. 456.

Gli scritti di critica d’arte che prenderemo in esame sono stati composti tra il 1952 e il 1977 ed utilizzati come presentazioni di mostre o introduzioni a cataloghi.

L’intervento più antico, datato 1952, è un breve saggio su Giovanni Omiccioli impiegato per presentare l’opera dell’artista. Bassani avvia la sua indagine prendendo in considerazione quattro quadri: Autoritratto vestito da soldato del ‘39, Natura

morta del medesimo anno, Ritratto del padre del ‘40 e Ritratto della madre del ‘41.

È in questa prima produzione che il nostro autore individua i veri inizi di Omiccioli e sottolinea come in questi dipinti si possa riconoscere il suo «pacifico naturalismo204»

e una maggior vicinanza alla Scuola romana. In Autoritratto gli elementi in comune con questo gruppo di artisti sono la «predilezione per i colori bassi e smorzati, un gusto caratteristico per i trapassi di tono dolcemente indugianti205», per Natura morta

e Ritratto della madre sono di nuovo la scelta dei colori ad avvicinarlo a questa corrente artistica, anche se, nel secondo quadro viene utilizzato un rosa per la cipolla che con «timida indipendenza […] azzarda un a-parte di candida, assurda, inopinata felicità206». Già in Autoritratto, tuttavia, possiamo scorgere alcuni elementi dissonanti

con il credo della Scuola, in particolar modo nella mancanza di intenzionalità polemiche e ideologiche: «la malinconia del piccolo richiamato romano che sembra chiedere scusa della sua cera così poco militaresca, del suo atteggiamento così radicalmente antieroico, di quei suoi panni grigio-verdi che già presentano odore di armistizio e sconfitta207». Queste brevi righe mostrano splendidamente il metodo di

critica bassaniano che fa della narratività il suo punto forte. Commentando Ritratto

del padre, l’autore nota subito come Omiccioli si stia allontanando dalle formule e

dagli schemi della Scuola romana e di come vada a ricercare una propria autonomia soprattutto nell’uso dei colori, «nel colorito del modello, di un rosa da favola nordica, nei suoi occhi di porcellana azzurri del medesimo azzurro di quello della camicia, nei suoi baffi bianchi, inverosimilmente immacolati208». Bassani, poi, pone

l’attenzione sulla data di composizione di questo dipinto: il 1940. Come abbiamo potuto notare poco sopra, la storicità è un elemento essenziale di indagine critica

204 G. B., Ddc, p.1099. 205 Ibid.

206 Ibid. 207 Ibid. 208 Ibid.

tanto che il nostro autore non può far altro che mettere a confronto questo anno cruciale per la storia italiana con l’atmosfera quasi da sogno e favolosa del quadro. Egli ricorda come il 1940 sia la data in cui alcuni inizino a percepire «l’imminente sfacelo a cui stanno andando incontro un regime e una società che si sono nutriti per vent’anni di accidiosa menzogna e di retorica209», ma fa notare anche come il pittore

riesca ad offrire una differente visione del mondo; Omiccioli «dice che, volendo, si può ancora sperare, si può credere ancora in qualcosa210» e così il ritratto del genitore

viene composto in uno spazio differente da quello della realtà, uno spazio costituito da solo due dimensioni: onirica e favolosa.

«La realtà, quella della vita, quella della storia crudele e difficile del secolo giunto alla sua crisi risolutiva, ne ha almeno una terza, di dimensioni. Ma volendo — e basta volerlo per riuscirci —, di questa terza dimensione si può fare anche a meno. Si può, al caso, far conto che non ci sia, che non esista...211»

Si può ritrovare anche in Bassani e nella sua produzione letteraria un medesimo sforzo nel descrivere la vita di Ferrara nei suoi anni più bui ma calata in un’atmosfera ovattata e di sospensione.

Con questo quadro, però, il pittore non era certo intenzionato a rinnegare quell’eredità figurativa che aveva assimilato dalla Scuola romana. Il Ritratto del

padre è indicato come un punto di snodo dal quale, poi, ha potuto impostare quei

termini iniziali di uno sviluppo della sua arte. Da quel momento, la sua pittura

«non avrebbe rinunciato a nulla: né all’impegno di conoscere la realtà, che le derivava dalla complessità del suo stesso linguaggio espressivo […], né, dall’altra parte, al lievito liberatore dell’estro, della fantasia, del sentimento. Sarebbe stata un’arte insieme saggia e folle: dotta e candida al tempo stesso212».

Inerenti a questo suo nuovo programma artistico sono la serie di quadri sul tema degli Orti, datati tra il 1941 e il 1946. Bassani racconta di essere riuscito ad ammirare dal vivo questi dipinti solo nel ‘44, quando dopo essere entrato a Roma con carte false era entrato nella piccola Galleria della Campana, in via della Scrofa, dove erano esposti. «I quadri di Omiccioli, coi loro cupi colori — nero, blu scuro, verde bottiglia, rosso spento, grigio —, parlavano di questo: dell'orrore e della tristezza che

209 G. B., Ddc, p.1100. 210 Ibid.

211 Ibid.

avevamo lasciato là fuori, per poco, e che avremmo ritrovato intatti ad attenderci213».

Queste tele riuscivano perfettamente a cogliere la tragicità della guerra, ma non vi era solo questo. Il nostro autore coglie il sentimento di felicità che il pittore aveva provato durante la composizione e che era riuscito a trasmettere direttamente nei suoi dipinti. Questo sentimento «persuadeva ad accogliere orrore e tristezza senza disperazione214», infondeva speranza. Bassani pone maggiore attenzione a Orto 50,

del ‘44, dove una pallida luna veglia sopra quel piccolo mondo chiuso.

«Il grande fragore della guerra non poteva arrivare fin là, fino a quella donnetta accoccolata, assopita presso la capanna di bandone; né la luna, che sa rendere preziosi con la sua luce anche gli oggetti più inutili, più miseri ( la scarpa sfondata, l'orinale sbrecciato, il bidone dei rifiuti, eccetera), dimenticava di fare del fiore più umile, forse una margherita, una piccola stella215».

Bassani, però, mette in guardia il suo lettore, Omiccioli non propone una dimensione evasiva e questo è dimostrato dalla presenza viva della realtà povera e spaventosa creata dalla guerra. Tuttavia si può riscontrare nel colore, seppur nelle sue tonalità basse, «timbri singolarmente puri, sommessamente squillanti, di non so che miracolosa, ritrovata libertà216». Per Bassani questo è un tentativo di ritrovare

l’infanzia perduta e così l’orto concluso diventa un luogo di protezione, uno spazio di speranza e resistenza. Infine l’attenzione si posa sui più piccoli particolari della scena dipinta. Ogni oggetto raffigurato viene ritenuto della giusta misura e, in questo modo, viene anche meno tutto quello che aveva di caratteristico e legato alla sua propria materialità, ma allo stesso tempo sembra voler continuare a voler raccontare di sé. «Nasceva contemporaneamente una poesia in equilibrio difficile tra una minuziosa esposizione di fatti, di sapore diremo così neorealistico, e un lirismo violento, estremamente concentrato217». Bassani propone l’analisi di altri quadri che seguono

ancora la tematica degli orti, ma ravvisa in quelli da lui scelti i primi sintomi di una crisi ideologica che si concretizzerà con la fine della guerra. Il pittore sente il bisogno di «aprire l’orto concluso, perfetto, ma ormai troppo limitato la propria arte218» e

quindi di iniziare a guardare al presente. Per questo motivo, il nostro autore, volge la

213 G. B., Ddc, p.1102. 214 Ibid. 215 Ibid. 216 Ibid. 217 G. B., Ddc, p.1103. 218 G. B., Ddc, p.1104.

sua attenzione a Orto 49, dipinto nel ‘44 e in cui non è più possibile ritrovare l’equilibrio e l’armonia dello spirito e delle forme che caratterizzano Orto 50. Se nella parte inferiore della tela possiamo trovare un’atmosfera fiabesca, nella parte superiore abbiamo una brusca frattura provocata «dagli esuberanti scheletri grigi di due alberoni espressionistici che contraddicono aspramente al tonalismo vigilatissimo dei primi piani219». Anche in Orto 58, sempre del medesimo anno,

troviamo un albero bianco «che come un lampo inquieto incrina il rosa, il blu, il rosso scarlatto della parete che fa da sfondo220» e sembra voler suggerire la direzione

che imboccherà il pittore da lì a pochi anni. Si giunge allora a Orto con baracche del ‘46 dove una distinzione netta dei colori impiegati diverge drasticamente dalle influenze della Scuola romana.

Tuttavia, per Bassani, si dovrà aspettare l’estate del 1950 per trovare una svolta nell’arte del pittore e facendo riferimento al gruppo di tele raccolte sotto il nome di

Scilla. Il nostro autore paragona questa nuova stagione artistica ad un lungo viaggio

che Omiccioli ha percorso in modo tortuoso. Prima di giungere verso i chiari paesi del Sud, verso quel mare dei Malavoglia, egli ha raggiunto le «tappe di una inquieta peregrinazione che tocca il Piemonte, la Svizzera, e sale su su fino ai Paesi Bassi e alla Germania, verso i dominii, insomma, dell'espressionismo mitteleuropeo antico e moderno221». Il lascito di queste influenze nordiche è ravvisato nei paesaggi dipinti

ad olio di una mostra del ‘48 «dove spirava, dalle superfici cromatiche dure e squillanti come vetri, dalle forme di certi fiori di campo, eretti, di ferro, aria inequivoca di Nord. Il Nord era sceso fino alle porte di Roma [...]222».

Bassani sottolinea come l’utilizzo di colori violenti sia di ispirazione nordica e cozzi violentemente con l’influenza della sua stagione precedente. Lo scrittore è convinto che questi dipinti abbiano un qualcosa in più rispetto a quelli degli anni passati e questo surplus viene loro conferito da una consapevolezza tutta nuova del pittore. Egli è «come di chi, giunto ad un punto del proprio cammino, senta improvvisa in sé la forza di giudicare se stesso col disinteresse di un estraneo, e, volgendosi,

219 Ibid. 220 Ibid.

221 G. B., Ddc, p.1105. 222 Ibid.

ripercorra con lo sguardo luminoso e, anche se amaro, chiarificatore dello storico, quelli che appena un momento prima gli erano parsi i faticosi, confusi andirivieni di un vagabondaggio senza meta223». Un’analisi davvero interessante, soprattutto perché

non può sfuggirci che questa operazione che gli viene attribuita da Bassani è la medesima che egli stesso ha compiuto nella sua opera letteraria. Anche Omiccioli ha spinto il suo sguardo «dove il buio ha inizio224», prima ancora della guerra, proprio

come ha fatto lo scrittore del Romanzo di Ferrara che ha ripercorso a ritroso le esperienze passate della sua vita, osservandole con un punto di vista distaccato e lucido. Entrambi, in questo modo, sono riusciti a vedere la realtà delle cose e nei quadri di Omiccioli allora si potrà chiaramente vedere «l’umanità ridotta a nuda carne rossa, mostruosa, impastata dello stesso sangue dei mostruosi animali marini di cui si nutre, sa che fra un attimo, quando la notte avrà raggiunto le tetre spiagge che ancora gremisce, lungo le quali ancora si affatica, allora, d’un colpo, sarà cancellato per sempre, insieme col segno d’ogni sua opera, anche ogni ricordo di sé225».

Non si può escludere, quindi, che il grande interesse di Bassani verso il pittore possa essere stato dettato da questo sentimento di vicinanza.

Il successivo scritto è dedicato a Mimì Quilici Buzzacchi ed è stato impiegato durante una trasmissione per la Rai dell’11 dicembre 1959 e poi, successivamente, pubblicato nel catalogo della mostra a Milano nel 1962. Bassani, inizialmente, ricorda il loro lungo rapporto di amicizia nato nella sua Ferrara. Sono proprio questi territori ferraresi e padani a collegare i due.

Ricorda come la prima produzione dell’amica, quella tra gli anni ‘30 e ‘40, fosse incentrata sull’incisione del legno anziché sulla pittura ad olio e azzarda l’ipotesi che questa scelta fosse stata dettata da un certo timore riverenziale che la giovane potesse aver provato nei confronti di De Pisis, che allora stava vivendo un periodo floridissimo. Lo scrittore apprezza molto le incisioni dell’amica che hanno come soggetto principale i paesaggi urbani di Ferrara, Padova, Anagni e molto altro, sono vedute e scorci « profondamente costruiti, deserti di figure umane, e immersi in

223 G. B., Ddc, p.1106. 224 G. B., Ddc, p.1107. 225 Ibid.

un’aria ferma, senza mutamento, che non è l’aria atmosferica ma, verrebbe quasi voglia di dire, l’aria religiosa, metafisica, della volontà e della moralità226».

Una volta trasferitasi a Roma, la Quilici, abbandona le incisioni e riesce finalmente a dedicarsi alla pittura. Non smette però di raffigurare i paesaggi con la stessa attenzione all’architettura che utilizzava nelle sue incisioni. I paesaggi dipinti trasmettono la solennità e la monumentalità della natura reale e riflettono l’interesse principale della pittrice: lo spazio e i volumi. Bassani apprezza particolarmente l’ultima produzione dell’amica, quella in cui prende come soggetto il paesaggio delle Valli di Comacchio, il «più spoglio, desolato e atonale dell’Italia». Mai prima di allora era riuscita a creare un’immagine figurativa così piena di poetica. La maggior dote che riconosce alla pittrice è il grande equilibrio che era riuscita a conquistare ed elogia la sobrietà e la magrezza delle sue opere, due caratteristiche che non sempre identificano una grande artista, ma nel suo caso lo sono certamente, dal momento che «non costino più nessuno sforzo, coincidano con l'esserci, semplicemente227».

È del 1967 lo scritto dedicato a Sergio Bonfantini ed utilizzato come presentazione al catalogo della mostra romana svoltasi nel medesimo anno.

Bassani ricorda fin da subito come senta vicino a sé il pittore a causa della loro comune appartenenza «alla tormentata e vessata generazione di mezzo228», quella

generazione nata tra le due guerre, a ridosso dei grandi innovatori del ‘900, strettamente legata alle proprie origini ma anche costretta a «pronunciare la propria parola più personale aprés, durante questi ultimi vent’anni229».

Facendo riferimento alle origini del pittore, Bassani chiama in causa la scuola di Felice Casorati, suo grande maestro, che possiamo ritrovare facilmente nella produzione di Bonfantini; non si tratta in questo caso di una totale dipendenza, bensì di «colloquiare coi padri, di resuscitarli magari per opposizione, per contestazione appassionata e religiosa230». 226 G. B., Ddc, p.1234. 227 G. B., Ddc, p.1236. 228 G. B., Ddc, p.1249. 229 Ibid. 230 Ibid.

Ad abbandonare il tipico estetismo vacuo, l’intellettualismo e la tensione verso l’astrattismo e la metafisica tipica della scuola di appartenenza, lo ha sicuramente aiutato la sua vicinanza al mondo agricolo e provinciale della bassa padana. È proprio questa realtà il soggetto principale, se non unico, della sua pittura che si esprime in forme nette, squadrate, semplici, rigorose, delle strutture morali e visuali. Egli si è sempre attenuto alla realtà oggettiva delle cose, non ha mai acconsentito a «dissociarsi da una rappresentazione concreta e veritiera della realtà naturale231».

In questa sua forte volontà non può che apparirci del tutto concorde con le intenzioni di Bassani.

A sostegno di questo suo impegno, il nostro autore porta come esempio due quadri realizzati nel ‘33: Contadini nella stalla e Cascinale al sole. Entrambe le tavole hanno dimensioni notevoli, tuttavia le immagini non hanno nulla di ipertrofico e appaiono molto oggettive e reali, grazie al magistrale impiego della luce che riconduce le cose alla loro giusta dimensione. I soggetti dei dipinti, due contadini pavesiani, sono uomini reali e per nulla simbolici, infatti «sarebbe sufficiente la calvizie frontale, da quarantenne umiliato ma non offeso, di quello di sinistra ad avvertirci che ci troviamo dinanzi a un uomo in carne ed ossa, e non a un pupazzo sia pure sublime232».

Anche la produzione successiva, quella dal ‘45 in poi, è caratterizzata dalla medesima capacità di descrivere e riportare realisticamente su tela ciò che il pittore vede intorno a sé. Bassani, allora, pone la sua attenzione su Giocatori di carte del ‘67, un soggetto molto interessante per l’immaginario del nostro autore. La scena raffigurata e descritta sapientemente in questo scritto ricorda molto da vicino la scena dei giocatori di carte in Airone:

«la lista verticale di luce che stacca di netto, dalla parete di fondo, la piccola natura morta della bottiglia e delle due mele; il cappello leggermente sulle ventitré del grosso avventore di spalle; il profilo sfuggente, umilmente rapace, dell'avventore di destra; la breve riga sensibile della bocca chiusa, sigillata, di quello di mezzo233».

Si può quindi ipotizzare che lo scrittore avesse ben presente questa immagine durante

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