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IL GRADO DI APERTURA DEL COMMERCIO ESTERO E GLI SCAMBI CON L’ITALIA

3.3 LE PROSPETTIVE FUTURE NEL RAPPORTO CON L’ITALIA

3.3.1 IL GRADO DI APERTURA DEL COMMERCIO ESTERO E GLI SCAMBI CON L’ITALIA

3.3.1 IL GRADO DI APERTURA DEL COMMERCIO ESTERO E GLI SCAMBI CON L’ITALIA

A partire dagli anni ’90, il Presidente Collor ha dato il via al processo di apertura del Brasile ai mercati internazionali, che quindi, se paragonato ad altre nazioni, è un fenomeno recente. A causa di ciò, il mercato brasiliano è soggetto ancora a politiche protezionistiche, che in parte si scontrano con gli obiettivi dell’OMC di cui il Brasile fa parte. La permanenza di misure protezionistiche sono dovute alle associazioni industriali, specie dei più rilevanti Industriali di Sao Paulo che temono la sostituzione delle imprese locali con imprese estere, specie cinesi. Tuttavia l’azienda italiana in sé non è vista con diffidenza, poiché l’offerta italiana è mirata a segmenti medio-alti o di nicchia; a far paura e ad impedire una reale apertura ai mercati nazionali sono le merci cinesi che mirano a soddisfare i prodotti di massa che fino ad oggi sono prodotti in massima misura da aziende locali. La perdita di competitività patita dalle aziende brasiliane in settori ad alta intensità di

manodopera, ha comportato l’aumento dei dazi in settori come il tessile, il calzaturiero, automobili, arredo-casa dove l’Italia avrebbe mire commerciali. Per chiarire il concetto, si consideri che secondo la pubblicazione “Global Enabling Trade Report” del World Economic Forum, il Brasile si classifica all’ottantaquattresimo posizione su centotrentadue per il grado di apertura ai mercati nazionali. Per la maggior parte delle aziende, tali limitazioni scoraggiano gli investimenti in Brasile poiché dovrebbero ricaricare eccessivamente i prezzi, mentre diventano attuabili soltanto per i segmenti di reddito di fascia alta. Gli accordi regionali bilaterali assumono pertanto un ruolo decisivo per la penetrazione del mercato, perché scavalcherebbero quelle misure poste ad hoc per le merci cinesi. Tuttavia non si è ancora riusciti a giungere ad un accordo tra Brasile ed Unione Europea che andrebbe a liberalizzare un mercato che per l’Italia avrebbe enormi margini di sviluppo.

Ciò nonostante gli scambi commerciali Italia-Brasile sono sempre maggiori (figura 29).

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Nel 2011, secondo i dati del Ministerio do Desenvolvimento, Industria e Comercio Exterior, si è quasi raggiunta quota 12 milioni di dollari, e dal 2009 il saldo commerciale è tornato ad essere positivo. L’ingente valore delle nostre esportazioni è da attribuire ai settori in cui tradizionalmente l’export italiano è forte, come la meccanica di precisione, l’automotive e l’alta-moda, questo perché arredo-casa e abbigliamento di fascia di prezzo media, soffrono le misure protezionistiche, e alcuni prodotti dell’agroalimentare, salumi ad esempio, non possono essere esportati per questioni fitosanitarie. Alcune opportunità per imprese italiane sono possibili nei settori della tecnologia medio-alta (gestione della sicurezza, tecnologie medicali e ambientali) e dei prodotti agroalimentari di qualità. Altro fattore che ha influito sull’aumento generale delle esportazioni, è la diversificazione territoriale del commercio. Se fino a poco tempo fa lo scambio commerciale riguardava in larga maggioranza lo Stato di Sao Paulo, oggi buone quote le hanno acquisite le regioni del Sud, di tradizione italiana e le regioni del nord-est, spinte dagli incentivi di sviluppo regionale. Sebbene la quota di mercato dell’Italia in Brasile, il 2,75%, possa sembrare bassa, va comunque ricordato che insieme alla Germania è il principale partner commerciale europeo. Discorso diverso va fatto per quanto riguarda gli investimenti esteri, dove l’Italia rispetto ad altri Paesi europei si trova dietro Paesi come Francia, Spagna, Germania e addirittura Svezia, Olanda e Austria con investimenti che secondo l’ICE, nel 2011 ammontavano a 457 milioni di dollari e una quota del 0,7%. La distribuzione geografica degli investimenti segue più o meno quella delle esportazioni. La maggior parte delle aziende, il 57% si è andata a collocare nel Sao Paulo. Questo perché Sao Paulo è la capitale economica e finanziaria del Paese, ed al suo interno è possibile interagire con qualsiasi segmento industriale, oltre a contenere all’interno del suo territorio il più grande porto del Sudamerica che rende la regione paulista perfetta anche dal punto di vista logistico. Nel Minas Gerais complice anche Fiat è presente il 10% delle aziende tricolore, nell’altro grande centro economico, Rio de Janeiro il 9%, mentre il resto della concentrazione italiana riflette in parte la storia dell’immigrazione italiana ed europea dei secoli scorsi e pertanto subito dopo si collocano le regioni del Sud: lo Stato del Paraná, 7%, il Rio Grande do Sul, 4% e Santa Catarina 3%. Settorialmente sono soprattutto due i comparti dove si collocano gli investimenti: più del 30% nei servizi e nella telecomunicazione e per un altro 30% nel settore automotive, e la prevalenza di questi settori è evidente anche nella percentuale delle aziende coinvolte.

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Figura 20: Suddivisone settoriale delle aziende che hanno investito in Brasile

Fonte: Ambasciata Italiana a Brasilia

Tra le aziende più rappresentative del made in Italy presenti in Brasile da citare Fiat, Pirelli, Tim, con investimenti ormai di lunga e lunghissima data. Pirelli è presente da più di 80 anni, tanto da non essere quasi nemmeno considerata straniera. Campari, Gruppo Marcegaglia, Illy, Azimut Benetti, Mossi & Ghisolfi, Landi Renzo, Eni, Danieli, Ferrero, Finmeccanica, Barilla sono altri grandi marchi che hanno deciso di penetrare il mercato sudamericano, seguite poi da un nutrito gruppo di piccole e medie imprese presenti nei settori predominanti che sono: meccanico e suoi derivati, plastica, indotto Oil & Gas, tecnologie nelle costruzioni, chimica e cosmetica, tecnologie

informatiche e di comunicazione.99

Differenti sono anche le strategie utilizzate per l’ingresso nel mercato. Tim ha gestito

un’operazione di integrazione verticale acquistando Aes Atimus, proprietaria di una rete in fibra

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ottica; Nice e Campari hanno optato per una strategia di integrazione orizzontale, acquisendo rispettivamente il gruppo Peccinin ed il marchio di cachaça "Sagatiba”; Eni e Finmeccanica han potuto godere di concessioni; grossi gruppi come Fiat e Pirelli hanno avuto la forza per effettuare investimenti greenfield, mentre la rete di Pmi ha in prevalenza utilizzato partenariati e joint venture.

Come argomentato finora, rispetto agli altri Paesi concorrenti, il tessuto produttivo italiano utilizza prevalente un approccio all’internazionalizzazione per lo più orientato all’export, senza usufruire dei vantaggi offerti dallo trasferimento in loco di parte delle attività economiche. Inoltre

considerando il continuo progresso dell’industria brasiliana, i margini di crescita del nostro export appaiono oggettivamente limitati. Ne deriva che, come hanno compreso i nostri principali

concorrenti, occorre rafforzare la presenza in loco attraverso partenariati con imprese brasiliane se si vuole continuare a crescere su questo mercato dalle enormi potenzialità.100 Il limite

dimensionale che caratterizza il sistema produttivo italiano, rappresenta un freno agli investimenti diretti esteri ed un vantaggio competitivo per i competitors europei, che potrebbero raggiungere un livello di presidio del mercato tale da complicare ulteriormente l’accesso italiano. Positivo è senz’altro il fatto che le aziende che finora han spostato parte delle attività in Brasile sono in costante aumento e ad oggi sono circa 600. Merito anche della formazione a livello di cultura aziendale che da un po’ di tempo si sta portando avanti. Le Pmi stanno lentamente percependo ed assimilando il concetto secondo cui un approccio mordi e fuggi verso i mercati internazionali non è più redditizio ed è necessario cominciare a strutturarsi e concepire piani di sviluppo di lungo periodo per essere presenti sui mercati esteri e fronteggiare la concorrenza internazionale. Per alimentare gli investimenti esteri si sta facendo leva su due strategie. La prima è quella di

trasferirsi a seguito dell’esempio pionieristico della grande azienda e posizionarsi nel suo indotto, la seconda, più complicata, consiste nella persuasione della piccola impresa a fare rete e creare distretti come quelli che hanno saputo sviluppare in Italia, traendo vantaggio tra l’altro dalla folta presenza della comunità d’origini italiana che consentirebbe di minimizzare i costi di transazione. Il Brasile ed il suo governo, dal canto loro, vedono con favore e sono pronti e vogliosi di accogliere le Pmi italiane ed il trasferimento tecnologico che ne conseguirebbe dalla sinergia con le Pmi locali.

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