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Guerrilla: Per un quadro teorico di una guerra popolare e trasversale Prima di passare a quelle che furono le tipiche e precise forme di attuazione del Maquis

Nuovi orizzonti insurrezional

4.1 Guerrilla: Per un quadro teorico di una guerra popolare e trasversale Prima di passare a quelle che furono le tipiche e precise forme di attuazione del Maquis

iberico durante la seconda metà degli anni '40, risulta fondamentale a mio dire proporre un breve, ma comunque importante approccio conoscitivo a quelle forme teoriche che in generale formano la struttura portante di una buona azione ed organizzazione guerrigliera, indipendentemente dal territorio geografico in cui essa si sviluppi e da quali siano i suoi interpreti, per dimostrare anche come questa stessa forma di guerra, riconosciuta appunto come non convenzionale abbia saputo trasversalmente unire culture, lingue, generazioni e nazioni, palesando sempre e comunque differenze tipiche delle nazioni in cui essa andava a costituirsi.

Quando si parla di guerriglia- qualsiasi essa sia – è imprescindibile far riferimento ad una strategia accurata, sia per chi scrive di quest'ultima, sia per coloro che devono metterla in atto (ovvero i guerriglieri), i quali per poter sopravvivere all'interno di uno schema bellico così imprevedibile e rischioso, hanno l'assoluto bisogno di condizioni estremamente particolari, alle quali in parte abbiamo già alluso e che su tutti sono rappresentate dal legame con il territorio di azione in cui la guerriglia prende vita e l'appoggio - fondamentale - della popolazione del luogo in cui essa stessa si sviluppa. Queste due componenti, come detto estremamente essenziali per ogni guerrigliero, sia che si parli di quello spagnolo, come avviene in questo caso, sia che si faccia riferimento a quello latinoamericano o indocinese, rendono il resistente un personaggio tellurico, ovverosia estremante interconnesso con il sistema ambientale in cui egli stesso si muove. Ciò lo distingue in tal modo da altre figure irregolari della storia, come ad esempio il corsaro, in quanto è il contesto stesso a differenziarne la natura bellica e strategica, trasformandolo in tal senso in un combattente terrestre, che non può perciò fare a meno dell'ambiente in cui esso si muove, caratteristica quest'ultima rimasta immutata fin dai tempi in cui il guerrigliero o partigiano che dir si

118 voglia, esordì sulla scena bellica mondiale229 .

Il guerrigliero, allo stesso tempo è altrettanto consapevole della sua reale e costante situazione di svantaggio e inferiorità nei confronti delle forze militari che egli stesso va ad affrontare e per questo si fa forza dei criteri visti sopra per riuscire nelle sue imprese, che vanno dalla difesa del proprio territorio, fino alla liberazione dello stesso, visto quest'ultima solitamente come fine di raggiungimento e sempre mediante l'utilizzo della velocità e dell'imprevedibilità. Grazie alla perfetta conoscenza della geografia in cui egli agisce ed all'appoggio della popolazione che la abita, il resistente può in questo modo muoversi liberamente all'interno di territori particolarmente impervi e fitti di vegetazione, che per qualsiasi altro militare - per quanto addestrato esso sia - rappresenterebbe un'impresa estremamente difficoltosa. Allo stesso tempo, il fatto di conoscerne gli abitanti e di essere altresì conosciuto dagli stessi, gli dona il vantaggio di poter ricevere informazioni riguardanti il nemico ( come eventuali retate o battute repressive), con largo anticipo rispetto a quando realmente queste stesse dovrebbero verificarsi, riuscendo in tal modo ad anticipare le mosse dell'avversario, allertando di conseguenza distaccamenti alleati, ma da lui lontani, proprio per mezzo di un sistema di rapida diffusione di informazioni e contatti, basato su una linea di appoggio continua e fortemente interconnessa che generalmente prende il nome di staffetta. Ecco allora che la suddetta popolazione risulta essenziale, perché solo da essa – per lo meno nella prima fase – si potrà ricevere assistenza medica e soprattutto rifornimenti di cibi, che seppur pochi risulteranno essenziali per la sopravvivenza della guerriglia. Risulta quindi necessario saper interfacciarsi con questa, ascoltando i problemi dei contadini e mostrandosi disposti a risolvere i loro problemi, perché solo con loro può esservi guerriglia230.

Vista sotto tale aspetto però, questa breve panoramica della strategia guerrigliera rischia di rendere ad ogni modo un'immagine eccessivamente distorta e altrettanto semplice di quella che realmente rappresenta la guerra insurrezionale, la quale custodisce comunque molti più lati oscuri di quelli che realmente espone. L'idea di un resistente sostanzialmente invisibile ed imprendibile, continuamente nascosto e dominatore di alberi, foreste e cave montuose, che può perciò autonomamente decidere quando e come attaccare il nemico è ciò che vi è di più lontano dalla realtà. Tale sistema infatti si realizza in casi sporadici ed in contesti in cui la guerriglia assume un vantaggio veramente evidente verso le forze nemiche.

La stessa componete territoriale, che spesso e volentieri caratterizza il suo reale punto di

229 C, Schmitt, Teoria del partigiano, Adelphi, p. 33

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forza può in diversi casi trasformarsi nella sua stessa prigione, lacerando quel vantaggio tattico rilevante venutosi a costituire e confinando così il guerrigliero in un contesto ristretto, sempre e comunque impraticabile anche per lui che lo conosce bene, in particolare dal punto di vista climatico, o perché situato in regioni troppo fredde, a causa delle alte quote o perché troppo umide, (come le foreste indocinesi o sudamericane) e perciò trascinandolo verso una dirompente agonia che può condurlo alla disfatta. In molti casi, infatti, il solo fatto di trovarsi ad occupare una regione strategicamente avulsa dall'interesse, momentaneo o permanente, dei regolari nemici può renderla la suddetta una facile zona di confino che tende più a logorare che a nascondere e proteggere realmente il resistente 231.

Fu questo per esempio il caso dei popoli nomadi del Nord Africa, i quali durante la colonizzazione romana si trovarono sempre a dominare un territorio desertico, ma mai volutamente pacificato dagli stessi colonizzatori, in quanto lontano dalle importanti linee carovaniere mediterranee e perciò estranee da qualsiasi interesse economico e commerciale dei romani232, cosa che trasformò di fatto la lotta indigena in una resistenza isolata senza particolare interesse.

Detto ciò, però, è altrettanto interessante notare come nel corso del lungo periodo evolutivo che l'ha caratterizzata, la guerriglia abbia mantenuto una propria tipicità offensiva e difensiva, nonché organizzativa, che rappresenta in qualche modo un lungo filo conduttore della stessa guerra insurrezionale, senza dubbio coinvolta comunque da una lato all'interno di un processo evolutivo intrinseco nel corso della propria storia, che l'ha vista mettere in campo armi di maggior portata distruttiva e tecnologica, cambiamento determinato in particolare dalla forza dirompente della rivoluzione industriale e dai conflitti massa novecenteschi, ma dall'altra ad una permanenza fortemente tradizionalistica che ne costituisce uno degli aspetti peculiari e maggiormente rappresentativi della stessa.

Determinare tutti gli aspetti comparativi fra i vari tipi di guerriglia risulterebbe un lavoro eccessivamente ampio e dispersivo, che si allontanerebbe drasticamente dal generale obiettivo di questo capitolo, ma è comunque interessante far notare come in casi, contesti e tempi diversi la guerra insurrezionale abbia fatto riferimento a schemi e paradigmi tra loro molto simili, che in diversi casi hanno confermato la loro possibile riproducibilità.

231 G. Breccia, L'arte della guerriglia, Il Mulino, pp. 15-16 232 Ivi

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Come fa lo storico Argiolas la guerriglia è allo stesso tempo una modalità bellica offensiva e difensiva233, la quale non ha mai come scopo reale una risoluzione immediata o comunque breve del conflitto, da provocarsi per altro per mezzo di una vittoria schiacciante e repentina, come avveniva per esempio nel sistema bellico tradizione, in cui le forze regolari contrapposte, scontrandosi in campo aperto ricercavano la prevaricazione fisica sul nemico nell'arco di un breve lasso di tempo, accettando anche grosse perdite dannose, ma in molti casi recuperabili.

Nella guerra irregolare, per contro, il grosso impatto viene sistematicamente evitato, trasformandosi di fatto quest'ultima in una guerra episodica, basata sul mordi e fuggi e sull'idea di provocare quanto più danni possibili in un brevissimo spazio di tempo, impiegando in ogni azione un ristretto numero di uomini, perché limitare le perdite è ciò che realmente conta. La stessa modalità bellica può avverarsi sia durante periodi di guerra che di pace, in quanto l'obiettivo generale è quello di provocare un fastidio costante al nemico, in particolare proprio in quei momenti in cui il predetto non se lo aspetterebbe, proprio perché convinto di quella tregua momentanea che gli è convenzionalmente vantaggiosa per riorganizzare le proprie truppe, ma anche le idee.

Ecco allora che il guerrigliero, da abile stratega qual è sfrutta tale rilassamento psicologico nemico per provocare perdite per lui stesso quasi più pesanti rispetto a quelle che subirebbe in campo aperto.

Detto ciò, risulta alquanto chiaro che se la guerriglia si trova ad affrontare un nemico strutturalmente del tutto diverso, basato quest'ultimo su organizzazioni militari di tipo regolare e proprio per questo sulla carta decisamente più forte di lei, debba necessariamente far appello a tipi di attacchi del tutto diversi da quelli convenzionali, che da soli non possono pensare di poter battere il nemico regolare in campo aperto, ma comunque in qualche modo indebolirlo per poi favorire l'attacco di un altro esercito regolare, suo alleato234.

Tale teoria, tesa quindi a vedere l'arte guerrigliera imbevuta di un'iniziale autonomia, ma in seguito

inevitabilmente appoggiata da un superiore esercito regolare alleato, non sempre ha trovato appoggio ed applicazione in tutti i contesti in cui la suddetta si sviluppò, come dimostra lo

233 Suddetto storico affronta in due distinti capitoli del suo lavoro la distinzione tattica e strategica che passa fra

una guerriglia tesa ad offendere, ma sempre e comunque con le precauzioni sopra espresse ed una invece ancor più cauta, ma comunque inserita in un contesto di profonda e necessaria mobilità, Cfr, T. Argiolas, La guerriglia: storia e dottrina, Sansoni, Firenze, 1967, p. 35

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stesso casi cubano, in cui la rivoluzione fu quasi interamente dettata da azioni a solo appannaggio guerrigliero, ma è stata per contro caldeggiata da altri grandi interpreti della stessa, come visibile per il caso asiatico aperto dal celebre Mao Tze-Tung. Il leader comunista cinese, infatti, espose la predetta visione all'interno di un opuscolo intitolato Yu Chi Chan (Condotta della guerriglia), nel quale stabiliva in una struttura composta da sette capitoli quelli che dovevano essere i principi fondamentali per la buona organizzazione e riuscita della guerra insurrezionale. Tra i diversi dettami analitici, emergeva come Mao non intendesse affatto la guerriglia come una forma separata di guerra, bensì come un vero mezzo della guerra totale, la quale perciò non poteva assolutamente prescindere dalle forze regolari di un esercito235. In quelli che erano i suoi tre passaggi essenziali della lotta guerrigliera, quest'ultima doveva muoversi da un'iniziale parte organizzativa, caratterizzata da una generale, anche se momentanea attesa, all'azione rapida e furtiva, per finire con la vittoria acquisita per mezzo di un massivo attacco finale, il quale però non veniva mai inferto dagli irregolari, ma dalle truppe tradizionali, uniche detentrici della reale forza d'urto per potere decidere la vittoria236.

I guerriglieri avrebbero avuto in tutto ciò un duplice ruolo. Da una parte quello di logorare il nemico con piccoli attacchi – spesso e volentieri nelle retrovie – e dall'altra di coadiuvare l'azione finale mediante un aiuto collaterale, soprattutto nel momento della ritirata nemica. Da ciò si intuisce come la guerriglia non fosse né offensiva né difensiva, ma entrambe le cose inserite in un generale contesto di bilanciamento che doveva trovare il suo giusto equilibrio con il tempo, come ci testimonia Guglielmo Pepe, generale calabrese che riteneva essenziale stabilire quelli che lui chiamava i ridotti, ovvero gruppuscoli di locali calabresi e siciliani presso l'interno di tali regioni, prevalentemente in zone montuose. La loro azione doveva essere difensiva nella strategia, perché meno numerosi e peggio armati, ma offensiva nel suo fine ultimo, in quanto l'obiettivo era provocare la liberazione di quei territori. Lo stesso Pepe, all'interno del suo trattato del 1836, fa già chiaro riferimento a quello che in seguito sarà l'aspetto essenziale della lotta guerrigliera, accentuandosi sotto forti modelli politici ed ideologici durante il XX° secolo, ovvero l'appoggio popolare, quest'ultimo inteso non solo in senso prettamente strategico, come evidenziato nelle prime righe di questo capitolo, senz'altro utile nel creare appoggi ed informatori, ma anche in senso strettamente empatico del

235 W. Hahlweg, Storia della guerriglia. Tattica e strategia della guerra senza fronti, Feltrinelli, Milano, 1973,

pp. 204-205

122 termine237.

Laddove la guerriglia decida di attaccare e in molti casi tale decisione trova frequente applicazione, non bisogna pensare ad atti bellici tipicamente appartenenti a quelli dell'arte militare tradizionale, ma altresì ad una multiformità di azioni, che proprio grazie ai loro esiti vanno concretamente a caratterizzare il modo di combattere della guerra non convenzionale. Non si trattava quindi di colpire unicamente soldati nemici provocandone la morte – obiettivo quest'ultimo ad ogni modo presente all'interno della stessa guerriglia -, ma quanto più di rintracciare quei luoghi particolarmente fondamentali per l'organizzazione nemica, al fine di ridurli, danneggiarli o bloccarli, provocando così un intoppo consistente nel generale motore della macchina bellica regolare. Ecco allora che andavano ad emergere forme di lotta che si traducevano in azioni quali il blocco di strade ad ampia percorrenza, come ferrovie, porti e persino aeroporti, fondamentali per il rifornimento delle truppe nemiche o l'esplosione di semplici ponti posti in luoghi maggiormente selvaggi, atti quindi a collegare piccole vallate o argini di fiume, che se eliminati rendevano ancor più complesso lo spostamento nemico, che in alcuni casi poteva trovarsi estromesso dal collegamento con un altro accampamento militare di propria competenza. Tra le altre forme di sconvolgimento della rete comunicativa potevano anche rientrare gli attacchi tesi a danneggiare - mediante l'utilizzo di esplosivi - centrali telegrafiche e radiofoniche, fondamentali queste ultime per lo scambio di informazioni fra distaccamenti nemici, che in quanto numerosi spesso e volentieri si trovavano a coprire vaste porzioni di territorio238.

Tutto questo mosaico di attacchi rientrava a pieno titolo all'interno di quel gruppo strategico che la guerriglia convenzionalmente definisce come sabotaggi e generalmente considerati come indispensabili ai fini della lotta irregolare da parte di tutti quei capi che nel corso del lungo '900 guidarono distaccamenti guerriglieri o interni eserciti rivoluzionari. Lo stesso Che Guevara, che tutt'oggi viene inserito nell'immaginario collettivo della guerra irregolare come probabilmente il leader guerrigliero più famoso, riguardo a suddetta forma sostenne: “Il sabotaggio è un'arma di inestimabile valore per i popoli impegnati in una lotta partigiana”, riconoscendone appunto di fatto l'imprescindibilità all'interno di tale forma di lotta239.

In tutto ciò però, il suddetto leader tese sempre con particolare enfasi a chiarire quel profondo legale che passava fra sabotaggio ed attentato, sostenendo che il primo, per quanto provocasse

237 G. Breccia, L'arte della guerriglia, pp. 57-58 238 P. Secchia, La guerriglia in Italia, op. cit., p. 86

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danno fisico a persone, fosse rivolto a precisi obiettivi della rivoluzione, ovvero i nemici della guerra irregolare. Era quindi fondamentale premura per il guerrigliero assicurarsi di far esplodere quel preciso ponte o quella precisa centrale, solo e soltanto in presenza di un distaccamento nemico o di un capo particolare che si doveva quindi eliminare240.

Oltre all'aspetto strettamente bellico giocava senza ombra di dubbio un ruolo rilevante quella componente prettamente psicologica da attuare nel momento dello sviluppo della lotta. La guerriglia è infatti, in qualità di guerra di attesa, in cui il suo interprete è dotato altresì di un deciso livello di autocoscienza, che si traduce anche nella consapevolezza di quelli che sono i reali limiti della lotta da egli intrapresa e proprio per tale motivo suddetta attesa, deve assolutamente determinare una precisa accuratezza nella preparazione di qualsivoglia attacco e operazione, rendendo inoltre essenziale la conoscenza di quelli che potrebbero essere gli eventuali e sempre e comunque esistenti rischi.

Un capo guerrigliero non esporrebbe mai ad eccessivi rischi la vita dei membri della propria brigata o divisione, inviando quest'ultimi verso un'azione suicida e mal preparata, ma allo stesso tempo non effettuerà mai torti ed ingiustizie verso la popolazione che lo appoggia, dovendo essere il rivoluzionario stesso, come sostiene il già citato Che Guevara un'asceta, che soprattutto nella fase iniziale della costruzione della guerriglia non si abbandona mai ad esagerazioni, mantenendo per contro un alto livello morale241.

Proprio in virtù della fondamentale importanze che riveste la popolazione civile all'interno della generale strategia del guerrigliero - come più volte visto all'interno di questo capitolo – risulta quindi piuttosto chiaro come uno degli aspetti portanti della guerra insurrezionale sia legato al fatto che essa stessa diventi progressivamente una guerra di massa, fondata quindi su appoggi civili che su tutti vadano rintracciati in quella fetta sociale che più aderente sarà ai concetti programmatici della guerriglia stessa, ovvero le stesse classi subalterne del luogo in cui essa si radica. Come sostiene lo stesso Secchia a riguardo: “La sua vera forza [della guerriglia] , che è quella morale, le proviene dal popolo che la sostiene, la alimenta e la protegge”, evidenziando come sia appunto il popolo stesso a dare quel maggiore punto di forza che se per contro fosse mal gestito, potrebbe per contro trasformarsi nel suo punto più debole, in quanto il guerrigliero verrebbero sconfitto non tanto dalla superiorità delle armi nemiche, quanto più dall'indifferenza della popolazione circostante. Per questo motivo l'ex partigiano italiano, come il suddetto leader della rivoluzione cubana ha fatto in seguito

240 Che Guevara, La guerra per bande, op. cit. , p. 112 241 Ibidem, pp. 47-48

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raccomanda che le brigate non realizzino mai azioni spregiudicate e tengano comportamenti ingiusti verso la cittadinanza ospitante, proprio perché quest'ultima dev'essere rispettata come precetto fondamentale della lotta, in quanto senza di essa non vi sarebbe guerriglia242.

Questo aspetto rappresenta molto probabilmente la caratteristica maggiormente paradigmatica, imprescindibile e ricorrente in tutte le forme di guerra insurrezionale novecentesche, indipendentemente da cultura, altitudini e forme di governo nemiche, palesando ad ogni modo differenziazioni di carattere teorico a seconda del territorio in cui la suddetta giunse a mettersi in pratica. Mao Tze-Tung, infatti, così come Che Guevara, concepirono una guerriglia di impostazione tipicamente contadina, che ricercasse quindi l'alleanza di una classe sociale subalterna assolutamente dominante nel periodo storico in quel territorio, come era appunto il caso della Cuba o della Bolivia degli anni '50 e '60, ma anche della stessa Cina a cavallo fra le due metà del XX° secolo. Il leader cubano, nella pubblicazione di quelli che furono due dei suoi maggiori scritti, ovvero Guerra de guerrillas e La guerra de guerrillas, sostenne appunto che nei paesi sottosviluppati del mondo – come precisamente rappresentava il caso dell'America Latina del tempo - la guerra insurrezionale doveva rivolgersi prevalentemente alle popolazioni dei cosiddetti territori agricoli, unici reali sostenitori di quel tipo di rivoluzione.

Prendendo infatti le mosse proprio dal caso vittorioso della rivoluzione cubana – prima vera esperienza formativa per il suddetto -, il medico argentino si chiedeva se tale contesto bellico e sociale conservasse al proprio interno dei fattori di riproducibilità anche ad altri settori geografici simili, stagliati quest'ultimi in quello stessa macro regione latinoamericana dalle grandi premesse rivoluzionarie e telluriche, dandosi appunto in seguito una risposta affermativa, in quanto a suo dire il cono meridionale del continente americano mostrava in certi casi delle caratteristiche sociali molto simili a quelle dell'isola caraibica. Di ciò – come in parte già detto – era convinto anche lo stesso Mao che sviluppò seppur in forme diverse una tattica alquanto simile a quella sopracitata, ritenendo anch'egli estremamente importante l'appoggio delle classi rurali della propria terra243. Chi per contro – seppur avesse aperto la strada della guerriglia prima dei due autori citati – promosse una visione diversa, vedendo nella guerra insurrezionale una lotta tipicamente operaia, che doveva quindi ricercare la forza delle classi subalterne non nelle campagne, bensì nella vivacità industriale delle grandi città,