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Hersch e l’assenza di correlazione tra reddito e felicità

4. La rilevanza degli indici economici e dei dati sulla felicità

4.2. Hersch e l’assenza di correlazione tra reddito e felicità

Date le conclusioni degli esperimenti di Richard Easterlin sulla mancanza di correlazione tra le misurazioni del reddito e della felicità, il secondo punto di vista, contrapposto a quello che considera la felicità alla stregua dell’utilità e che promuove l’utilizzo di dati sul benessere soggettivo, è proposto da Hersch (2018). Si sviluppa confutando le deduzioni di alcuni studiosi e osservatori, secondo cui le politiche di benessere, quindi anche economiche, debbano essere basate, appunto, su misure di felicità. Questa tesi, anche se facilmente eclissabile dai policy maker, come faremo notare nel paragrafo 4.3, può ed è stato motivo di perplessità e preoccupazione per terzi interessati, nonché per lo stesso Easterlin, che sponsorizzerebbero, quindi, la ricerca per più precise e puntuali misure di felicità e, di conseguenza, di benessere. Tuttavia, secondo l’autore, tutte queste conseguenze dedotte nascono da un grande equivoco, ossia intendere il benessere alla stregua della felicità, concetto più volte espresso e criticato nel nostro lavoro, per cui ogni politica di benessere deve mirare esclusivamente all’incremento dei livelli di felicità. Anche per questi motivi, Hersch propone di specificare il significato da assegnare a ogni singolo termine, per cui: con la parola “benessere” non si intenderà il benessere soggettivo bensì ciò che permette di vivere una good life; la “felicità” non si riferirà ad uno specifico stato affettivo ma sarà una sorta di

umbrella term che indica tutti gli stati mentali influenzati da sensazioni soggettive; il “reddito”

comprenderà qualsiasi base monetaria, sia in riferimento al PIL piuttosto che al consumo domestico.

La critica maggiore fatta alle conclusioni di Easterlin, o di chi a pieno ne condivide il pensiero, è motivata dalla fermezza con cui, fin dal primo studio del 1974, si sono difese delle assunzioni che, in realtà, potrebbero rivelarsi più deboli di quanto si pensi e, quindi, compromettenti. Nelle rivisitazioni del primo articolo pubblicate nel 1995, nel 2001, nel 2003, nel 2005 e nel 2010, Richard Easterlin sostiene, con sempre maggior enfasi, la poca utilità apportata alle persone dalla maggiore disponibilità di reddito, “one can improve wellbeing by increasing one’s own income, and

that policy measures aimed at increasing the income of society as a whole lead to greater well- being…” ma le sue ricerche “… clearly contradict the expectation based on economic theory that happiness increases with income” (Easterlin, 2003, p. 11176 e 11180), evidenziando la necessità e

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La maniera in cui si smentiranno le conclusioni di Easterlin e della sua corrente inizierà ricostruendo una scaletta delle sue principali argomentazioni per poi iniziare il vero e proprio processo di confutazione, che mira, appunto, a invalidare le seguenti deduzioni:

1. Le politiche per il benessere devono basarsi su una buona misura del benessere; 2. Una misura di felicità è una buona misura di benessere;

3. Felicità e reddito hanno andamenti divergenti;

4. Misure del reddito non sono buone misure di benessere (2, 3);

5. Le politiche per il benessere non dovrebbero basarsi su una misura del reddito (1, 4); 6. Le politiche per il benessere dovrebbero basarsi su una misura della felicità.

Se si accettano e si considerano veri i primi cinque, il sesto punto è una conclusione veritiera. Ma allora perché le misure tradizionali continuano ad essere una guida per i policy maker? Prima di rispondere a questa domanda, Hersch immediatamente espone tre obiezioni che chiarificano palesemente la sua posizione:

• La misura predominante della felicità, usata da Easterlin, fa riferimento alla domanda del

World Values Survey (WVS) “All things considered, how satisfied are you with your life as a whole these days?”, a cui gli intervistati devono rispondere assegnando un valore

compreso tra 1 e 10 alla propria life satisfaction. Tuttavia, si può contestare il fatto che i dati siano raccolti in base a sei questionari diversi e da cinque differenti agenzie. In più, il riferimento alla life satisfaction è, alcune volte, deviato su concetti quasi equivalenti, come felicità e ladder of life che, come già argomentato, sono sinonimi ma possono essere mezzo di manipolazione e causa di invalidazione delle risposte.

• Le misure di reddito utilizzate da Easterlin nella spiegazione del paradosso sono il reddito individuale e il GDP per capita che, sfortunatamente, non misurano la stessa cosa: il primo misura la quantità di reddito che gli agenti ricevono dalla loro attività economica; il secondo è il valore totale dei beni e servizi prodotto dalle attività economiche in un’economia diviso la popolazione. Dunque, non è possibile trarre conclusioni non approfondendo alcune dinamiche come quella riguardo le diseguaglianze nella distribuzione dei redditi.

• L’interscambiabilità dei termini happiness, utility, well-being, life satisfaction, non può essere assunta e risulta essere una forzatura eccessiva soprattutto perché è difficile che

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per tutti essere più felici significhi implementare la propria utilità (anche questo aspetto è già stato affrontato nel corso di questa tesi).

Hersch, quindi, decide di argomentare le sue ragioni inficiando i primi tre punti della scaletta soprariportata in modo da far rivelare infondati anche il 4, il 5 e il 6 essendo questi delle conseguenze logiche dei primi. Riporteremo le considerazioni dei punti 1 e 3, poiché nel capitolo 2 abbiamo già pesato la rilevanza e i criteri di misurazione della felicità.

Punto 1. Le politiche per il benessere devono basarsi su una buona misura del benessere

La convinzione secondo la quale il benessere debba essere perseguito mediante il monitoraggio di misure di benessere può essere screditata semplicemente affermando che è possibile percorrere strade diverse per raggiungere il medesimo obiettivo. Innanzitutto, i decisori politici potrebbero farsi garanti della bontà delle loro scelte, forti della loro esperienza, oppure potrebbero chiedere direttamente agli elettori quali siano le azioni che implementerebbero il loro benessere o, ancora, per concludere, potrebbero adottare comportamenti che sono riferibili a migliori status di benessere di per sé, nel senso che è la cultura e la tradizione del Paese in questione a promuoverli. Di certo i politici che non dimostrano argomentazioni forti a sostegno delle loro scelte o che non raggiungono risultati appaganti hanno vita breve. D’altra parte, rimettere le decisioni al giudizio degli elettori, anche se può sembrare la più democratica delle manovre, necessita di un sistema che garantisca l’effettiva attuazione di una democrazia diretta ma, soprattutto, provocherebbe grande confusione tra preferenze e benessere degli agenti economici dovuta alle distorsioni che questi subiscono nel valutare gli scenari e le esperienze caratterizzanti le proprie funzioni obiettivo. La terza strada percorribile dai decisori consiste nel promuovere luoghi comuni, “policy-

makers might choose to play it safe.Rather than appealing to anything contestable, policy-makers

might decide to only implement those well-being policies that are incontestably conducive to well- being by appealing to platitudes about well-being”, e, per certi versi, risulta la più adottata e

banale ma anche la più sconsigliata; infatti, si potrebbe risolvere la mancanza di benessere attraverso l’attuazione di luoghi comuni, tanto ovvi quanto non risolutivi, “That is why they are

platitudes, they are banal, trite and obvious. While the generality of platitudes leaves them immune to specific counter-examples, it also reduces their helpfulness as a guide to policy decisions. While platitudes might tell us that illness diminishes well-being and enjoyment increases it, they do not tell us how much enjoyment is appropriate to sacrifice in order to reduce illness”

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come possono esserlo la “malattia” e il “divertimento”, bisognerebbe fare affidamento a più luoghi comuni ma il risultato risulterà disastroso quando quest’ultimi diventeranno contrastanti. Punto3. Felicità e reddito hanno andamenti divergenti

Riuscire a confutare l’affermazione del punto 3 è quello che hanno provato a fare Hagerty and Veenhoven (2003), i quali ritengono che gli studi che evidenziano il paradosso, ossia che confermano la divergenza tra felicità e reddito, compresi quelli di Easterlin, non poggino su basi statistiche rilevanti. Hanno provato, dunque, a considerare serie storiche più lunghe, includere più nazioni nell’analisi e raggruppare i Paesi in base al reddito. I risultati così ottenuti riscontrerebbero una correlazione positiva, seppur non esorbitante, tra reddito e felicità dopo una variazione del primo. In particolare, l’effetto dell’adattamento ridurrebbe della metà la variazione del livello di felicità nei periodi immediatamente successivi allo shock, ma non completamente. In figura 22 in ascissa sono riportati gli anni di riferimento e in ordinata la misurazione del reddito, a sinistra (PIL pro capite), e livello di felicità, a destra. L’effetto dell’adattamento, negli anni successivi al picco, non riporta il livello di felicità al livello del periodo precedente la variazione del reddito ma riesce solo a dimezzare il livello raggiunto nell’anno “11”. Sulla stessa lunghezza d’onda, ma in termini diversi, anche Stevenson and Wolfers (2008) provano a smentire le conclusioni di Easterlin, sottolineando la scarsità di dati a sostegno delle sue ricerche e che l’impossibilità di dimostrare una relazione tra reddito e felicità per tale mancanza non implica l’inesistenza di una correlazione. Il dibattito è ancora in corso, come lo è lo scambio di repliche con lo stesso Easterlin. Hersch non prende le parti di nessuno ma, saggiamente, afferma che già l’esistenza di un contraddittorio tra figure autorevoli è una prova forte abbastanza da non

Figura 22 - Rivisitazione dell'effetto adattamento. Elaborazione in Hagerty e Veenhoven (2003, p. 21)

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permettere di considerare l’affermazione del punto 3 come ipotesi fondante di una dimostrazione scientifica.

Punto 2. Una misura di felicità è una buona misura di benessere

Ribadendo che il dibattito riguardo i punti 1 e 3 è ancora acceso, lo stesso non può dirsi riguardo la considerazione 2. Sembrerebbe che sia Easterlin che larga parte degli studiosi che lo criticano siano d’accordo nel considerare la felicità una buona misura di benessere qualora si accertasse che gli altri due punti siano effettivamente veri. Tuttavia, Hersch ritiene che anche quest’ultimo passaggio debba essere rivisto ma le osservazioni fatte a riguardo non verranno ritrattate in questo paragrafo e si rimanda il lettore al capitolo secondo.

Ciò che spinge gli scienziati a provare a dare una spiegazione al paradosso di Easterlin o a non condividerne le evidenze perché considerate empiricamente false non è solo il desiderio di risolvere una diatriba accademica ma è la necessità di chiarire un aspetto del puzzle che può portare a ripercussioni pericolose. Se davvero la felicità non fosse correlata con il reddito ma risultasse fattore determinate del benessere si potrebbe dedurre che la crescita economica è un traguardo inutile.