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Paradosso di Easterlin: spiegazioni del puzzle e rilevanza degli indici economici e dei dati sulla felicita

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(1)

DIPARTIMENTO DI ECONOMIA E MANAGEMENT

Corso di Laurea Magistrale in

Banca, Finanza Aziendale e Mercati Finanziari

TESI DI LAUREA

Paradosso di Easterlin: spiegazioni del puzzle e rilevanza

degli indici economici e dei dati sulla felicità

Relatrice:

Prof.ssa Cecilia Vergari Candidato:

Armando Mastantuono

Anno Accademico

(2)

1

(3)

2

INDICE

ABSTRACT……….4

INTRODUZIONE……….5

CAPITOLO PRIMO………7

1. Il paradosso di Easterlin………7

1.1. L’analisi di Richard Easterlin………7

1.2. Una spiegazione del paradosso: il reddito relativo………..11

1.2.1. Social Comparisons………13

1.2.2. Adaptation………..14

1.3. Altre spiegazioni al paradosso……….17

CAPITOLO SECONDO………..19

2. La relazione tra utilità e felicità……….19

2.1. La felicità collegata all’utilità………..20

2.2. Ci basta essere felici?...23

2.2.1. Decision/Experienced Utility e la Peak-End Rule………..24

2.2.2. La Future Utility………27

2.2.3. La rilevanza dei sondaggi……….30

2.2.3.1. Distorsioni nelle risposte degli intervistati……….31

2.2.3.2. Cosa rivelano i sondaggi……….34

2.2.4. L’euforia e l’umore di base………..36

2.2.4.1. La felicità nella funzione di utilità: The Easy Case………41

CAPITOLO TERZO………..45

(4)

3

3.1. Caratteristiche della funzione obiettivo “U

t

” ………..……47

3.1.1. L’utilità da consumo……….49

3.1.2. L’utilità da benessere familiare e l’indice di coesistenza……….50

3.1.3. L’utilità da tempo libero e la produttività del lavoro……….54

3.2. La funzione “U

t

= f (C

t

, F

t

, L

t

, H

t

)” ……….60

CAPITOLO QUARTO……….63

4. La rilevanza degli indici economici e dei dati sulla felicità………….63

4.1. Layard e i dati sulla felicità………63

4.2. Hersch e l’assenza di correlazione tra reddito e felicità………68

4.3. Integrare indici tradizionali e dati sulla felicità………..72

4.3.1. Usare i dati per valutare le politiche……….79

4.3.2. Una misura di benessere: l’U-index………80

CONCLUSIONI……….83

APPENDICE – Preferenze rivelate………..85

BIBLIOGRAFIA……….87

(5)

4

ABSTRACT

Gli Stati occidentali, anche se con tassi e in periodi diversi, dal secondo dopoguerra hanno tutti registrato una buona crescita economica. Sempre più persone hanno avuto accesso a beni di consumo grazie a maggiori redditi. Tuttavia, sono frequenti gli studi che testimoniano una non crescita dei livelli di felicità negli stessi Stati che hanno conosciuto e si sono sviluppati grazie al

boom economico. Parallelamente a queste analisi, si sono sviluppate ricerche scientifiche in grado

di spiegare questo apparente paradosso e hanno indagato sull’affidabilità dei dati sul benessere soggettivo. Ci vorrà ancora tempo per formulare una teoria completa sull’argomento e ancora ci si interroga sulla validità degli indici economici tradizionali (PIL, tasso di disoccupazione, tasso di inflazione…) che hanno guidato e continuano a indirizzare le politiche economiche. Quanto è sbagliato sostituire questi dati con quelli sulla felicità? Come quest’ultimi possono aiutare i decisori politici a correggere quei comportamenti che portano gli agenti economici ad essere insoddisfatti?

Since the second world war, western state, though with different rates and throughout different times, have been recording a fairly good economic growth. More and more people have been given access to consumer goods due to higher incomes. However, across the same regions which experienced the post-war economic expansion, several studies have established that life satisfaction and happiness do not increased with incomes. Along with these theories, other scientific researches have been able to explain the apparent paradox and have investigated the reliability of subjective well-being data. A more comprehensive theory on the topic requires definitely more time, and still we interrogate ourselves upon the validity of traditional economic indicators (GDP, unemployment rate, inflation rate…) that drive economic policies. Is it so procedurally inaccurate replacing this type of data with data generated by happiness? How can they support policy maker in correcting the behaviour of dissatisfied people?

(6)

5

INTRODUZIONE

L’economia di mercato, nelle società moderne, ha come obiettivo la creazione di un sistema funzionale per assecondare e facilitare le relazioni e le connessioni tra tutti gli attori economici, garantendogli la possibilità di produrre, risparmiare e soddisfare i bisogni di consumo e di sfruttamento di beni e servizi. Volendo riassumere questo concetto in poche parole potremmo dire che l’economia mira a rendere le persone sempre più soddisfatte della propria vita. Gli scienziati identificano questo target con la parola “utilità”. Più comunemente, invece, si sente affermare che le persone desiderino essere semplicemente più felici. In effetti, l’obiettivo di un agente economico, del management di un’impresa, di un governo o, comunque, di un semplice cittadino è di massimizzare i propri asset in modo da raggiungere un equilibrio tra crescita economica, rischi e impiego efficiente delle risorse. Proprio la crescita economica ha da sempre rappresentato il percorso da seguire per raggiungere maggiori livelli di benessere. I decisori politici, in età moderna, si sono sempre affidati a indicatori economici, che definiremo tradizionali, come il PIL per misurare lo stato di salute di una comunità e per valutare politiche correttive. Richard Easterlin è stato tra i primi a confrontare questi indicatori con un altro tipo di dati basati sulla felicità riportata dagli agenti economici. La sua osservazione, diventata famosa come “paradosso di Easterlin”, ha fatto notare che la crescita economica a cui si è assistito dal secondo dopoguerra in tantissimi stati occidentali, in realtà, non sarebbe stata accompagnata da una contestuale crescita dei livelli di soddisfazione delle persone. Dopo la pubblicazione di questa ricerca, la comunità scientifica, come lo stesso Easterlin, ha fornito una serie di spiegazioni cercando valide argomentazioni per giustificare il paradosso. Il dibattito che si è creato tra gli accademici ci ha spinti a voler ripercorrere gli studi e tutto il supporto teorico prodotto sull’argomento ma, soprattutto, ci ha motivato a cercare un possibile compromesso e dei punti di contatto tra due approcci apparentemente incompatibili. Le nostre riflessioni riguardano il concetto di felicità e il grado con cui possa essere collegato alla nozione di utilità. Valutiamo, inoltre, la possibilità di adottare i dati sul benessere soggettivo, raccolti ed elaborati tramite interviste dirette agli agenti economici, come bussola per indirizzare le politiche economiche. Il capitolo primo passa in rassegna l’esperimento di Richard Easterlin, non mancando di illustrare la metodologia con cui vengono elaborate le conclusioni che hanno portato al paradosso, e propone alcune delle maggiori spiegazioni elaborate negli ultimi trent’anni per la risoluzione del puzzle, in particolare soffermandosi a commentare gli effetti dei confronti sociali e dell’adattamento in

(7)

6

termini di reddito relativo. Nel capitolo secondo esplicitiamo il motivo principale che alimenta il dibattito accademico, ossia il considerare o meno la felicità come il fattore la cui massimizzazione ottimizza la funzione di utilità delle persone. Si proporranno alcuni modelli che spiegano in che modo vengono formulate le scelte dagli agenti e come, talvolta, risultino distorte. Kimball e Willis, propongono un modello in cui la felicità è uno dei fattori che compongono e contribuiscono all’utilità generale, per cui non l’unico, e getterà le basi della nostra proposta del capitolo terzo, in cui suggeriremo di accettare un compromesso tra chi non considera il benessere soggettivo una buona proxy per misurare l’utilità e chi invece la ritiene tale. Motiveremo le ragioni per cui anche il benessere della famiglia e il tempo libero risultano rilevanti nelle scelte adottate dagli attori economici, evidenziando opportunamente cosa li distingue dal fattore felicità in senso stretto. Una volta presentati gli aspetti teorici che forniscono gli strumenti per verificare quanto i termini utilità e felicità possano essere interscambiabili, nel capitolo conclusivo si lascerà spazio al secondo intento di questa trattazione, ossia prevedere i risultati e gli scenari che si avrebbero utilizzando dati sul benessere soggettivo. In particolare, attraverso considerazioni opposte e parallele di esponenti autorevoli, promuoveremo un percorso per integrare indici economici e dati sulla felicità in modo da utilizzarli correttamente. L’obiettivo auspicabile e condiviso dalla maggior parte degli studiosi è di migliorare il monitoraggio dello stato di salute di una popolazione, l’analisi preventiva di stati patologici o dannosi e gli interventi di politica economica.

(8)

7

CAPITOLO PRIMO

1. Il Paradosso di Easterlin

L’economia comportamentale, che studia come i fattori psicologici, sociali, cognitivi e culturali influiscono sulle decisioni degli agenti economici, è stata oggetto di studio di tanti economisti e, negli ultimi cinquant’anni, ha visto fiorire un’ampia letteratura globale. La ricerca si è concentrata anche sull’evidenziare le cause della felicità e le correlazioni con l’andamento del reddito. Richard Easterlin, professore di economia alla University of Southern California, negli anni Settanta portò avanti uno studio, aggiornato negli anni Novanta, in cui evidenziava che la crescita del reddito reale, che aveva caratterizzato i Paesi occidentali dal secondo dopoguerra seppur con misure e tassi differenti, non fosse accompagnata da una crescita dei livelli di felicità riportati. Il paradosso ha messo in luce alcuni dubbi che ancora oggi alimentano la diatriba tra chi sostiene che l’obiettivo del policymaker debba essere quello di perseguire la crescita economica e chi, visti gli scarsi risultati ottenuti, orienterebbe diversamente le strategie per rendere le vite delle persone più felici.

1.1. L’analisi di Richard Easterlin

Sono molti gli studi che confermano che livelli più alti di reddito assicurano più alti livelli di utilità. Supponendo una classificazione della popolazione in gruppi (coorti) a seconda del livello di reddito, in un dato istante temporale, le coorti con più reddito sono più felici di quelle con meno reddito. Tuttavia, all’interno della stessa coorte, la felicità rimane costante anche all’aumentare del reddito. Le misure utilizzate per descrivere questo paradosso sono il reddito reale pro capite, quindi il Prodotto Interno Lordo (PIL), e la felicità. Richard Easterlin è stato uno

Figura 1 - Felicità e Reddito Reale Pro Capite negli USA, 1973-2004. Fonte: World Database of Happiness and Penn World Tables. Elaborazione di Clark et al (2008, p. 96).

(9)

8

dei primi economisti ad utilizzare i dati sulla felicità per argomentare le proprie teorie ma, soprattutto, ha utilizzato i termini felicità, benessere soggettivo, soddisfazione, utilità in modo interscambiabile. Nella misurazione del subjective well-being (Easterlin, 2001, p. 465) ha fatto riferimento alle risposte date alla domanda diretta inserita nel General Social Survey (GSS1) degli

Stati Uniti dal 1972: “Nel complesso, come diresti che stanno le cose in questi giorni - diresti di

essere molto felice, abbastanza felice o non troppo felice?”. La figura 1 riporta un’elaborazione di

Clark et al (2008) in cui si confermerebbe la tesi per cui ad una crescita del reddito reale (linea tratteggiata) non corrisponde una maggiore felicità e un maggiore benessere (linea continua). La felicità, colonna sinistra, è misurata considerando la domanda del GSS e dando alle risposte i seguenti pesi: molto felice (3), piuttosto felice (2), non molto felice (1). Il reddito reale pro capite negli Stati Uniti, colonna destra, cresce in maniera costante arrivando a toccare i 39.000 dollari nel 2004. I livelli di felicità si mantengono sugli stessi valori durante tutto l’intervallo analizzato, oscillando tra il livello 2 e 2,5.

Ne consegue che le persone, negli Stati Uniti, non avrebbero beneficiato, in termini di felicità, del

boom economico. Viene sostenuto (vedi Frey e Stutzer, 2002 e McMahon, 2006) che il reddito sia

un fattore determinante per la felicità solo fino a una certa soglia di sussistenza, individuata in 10,000 USD annui, dopo la quale, ai fini della determinazione del livello di felicità, risultano

rilevanti anche altri termini. A seguito di ciò sono sorte diverse implicazioni sull’argomento che hanno spinto alcuni accademici a suggerire di spostare l’attenzione dalla crescita economica e non

1https://gss.norc.org/

Figura 2 - Life Satisfaction in cinque Paesi europei, 1973-2004. Fonte: World Database of Happiness. Elaborazione di Clark et al (2008, p. 97).

(10)

9

perseguirla come obiettivo primario (vedi Oswald, 1997). Sulla falsa riga di questo pensiero anche Layard (2005) ha invogliato la comunità scientifica a ricercare le vere cause della felicità.

Finora abbiamo fatto riferimento solo ai dati statunitensi ma Easterlin (1995) ha lavorato anche con in dati del Giappone, osservando che “Between 1958 and 1987 real per capita income in Japan

multiplied a staggering five-fold, propelling Japan to a living level equal to about two-thirds that of the United States. … Despite this unprecedented three-decade advance in level of living, there was no improvement in mean subjective well-being” (Easterlin, 1995, p. 39). Anche in Europa i dati

sembrano confermare un sostanziale no-trend nei livelli di life satisfaction. La teoria dell’esistenza di una soglia limite entro la quale il reddito risulta essere la variabile chiave per il raggiungimento di più alti livelli di felicità, troverebbe una conferma nell’elaborazione di Clark et al (2008, p. 97) riportata in figura 2. La felicità è misurata considerando la domanda “Tutto sommato, quanto ti senti soddisfatto della vita che conduci?” e alle risposte sono assegnati i seguenti pesi: molto soddisfatto (4), abbastanza soddisfatto (3), non molto soddisfatto (2), non soddisfatto (1). Gli andamenti si riferiscono a cinque Paesi europei e tutti riportano livelli abbastanza stabili del livello di felicità. Solo l’Italia, che è lo stato più povero tra quelli analizzati, mostra un leggero trend al rialzo (+9.3%), infatti, la soddisfazione media delle persone ha un coefficiente di 2.67 nel 1973 e di 2.88 nel 2004. La maggiore crescita del livello di felicità sarebbe dovuta al fatto che, partendo da livelli di reddito più bassi, l’impatto della variazione economica positiva ha più rilevanza rispetto a quanto invece accade nei Paesi più ricchi.

Easterlin (2001), in un articolo sul The Economic Journal, esplicita il paradosso attraverso il

confronto di due approcci empirici: il primo è improntato su un’analisi trasversale, il secondo sul modello del ciclo di vita.

L’analisi trasversale è condotta attraverso un esperimento in cui gli intervistati sono stati classificati in sette coorti in base al reddito annuo. I dati sulla felicità sono forniti dalle risposte

Tabella 1 - Distribuzione percentuale della popolazione in base alla felicità a vari livelli di reddito, Stati Uniti, 1994. Fonte: National Opinion Research Center (1999). Elaborazione di Easterlin (2001, p. 468).

(11)

10

degli intervistati, nel 1994, alla domanda del GSS: “Nel complesso, come diresti che stanno le cose

in questi giorni - diresti di essere molto felice, abbastanza felice o non troppo felice?”. Le risposte

“non so” e “non rispondo” sono state omesse dall’elaborazione in Tabella 1. Per produrre il coefficiente di felicità, riportato nella colonna (1), sono stati attribuiti alle tre risposte i seguenti pesi: molto felice (4), abbastanza felice (2), non troppo felice (0). Come si può notare la felicità ha una forte correlazione positiva con il reddito e solo in una coorte, la “40-49,999”, il livello di felicità corrispondente (2,4) è più basso di quello relativo allo scaglione precedente (2,5).

Si arriva a tutt’altre conclusioni se la felicità viene misurata durante il ciclo di vita degli intervistati. Con il secondo approccio empirico Easterlin assume che, in media, la ricchezza di un agente economico cresce fino all’età pensionabile per poi diminuire gradualmente2. Tuttavia, non

risulterebbero esserci evidenze né di crescita del benessere soggettivo, fino a tale momento, né di un presumibile calo successivamente. Queste conclusioni sono supportate dalle quattro elaborazioni descritte in figura 3. Gli intervistati sono stati classificati in quattro coorti, non in base al reddito bensì rispetto alla data di nascita, e in ascissa è riportata l’età della coorte al momento della misurazione delle variabili “reddito pro capite” e “felicità”. Le linee continue e i valori delle colonne di sinistra descrivono il trend del reddito percepito, mentre le linee tratteggiate e le colonne di destra monitorano il grado di felicità che, a differenza di quanto accadeva nell’analisi

2 Per approfondimento vedi Modigliani e Brumberg, 1954, “Utility analysis and the consumption function: an

interpretation of cross-section data”.

(12)

11

trasversale, non è un valore statico, riferibile ad un dato istate/anno, ma è l’andamento durante il ciclo di vita della coorte. Seguendo questo secondo approccio si nota come il reddito, durante il ciclo di vita delle coorti e, di conseguenza, in intervalli temporali differenti, abbia seguito vari

trend, al rialzo e al ribasso. Tuttavia, la curva della felicità rimane piatta e alcune piccole variazioni

riscontrabili nei quattro pattern sono poco significative.

Inoltre, a rafforzare il contrasto tra le conclusioni illustrate, Easterlin sottolinea che “people think

they were less happy in the past and will be happier in the future, because they project current aspirations to be the same throughout the life cycle, while income grows. But since aspirations actually grow along with income, experienced happiness is systematically different from projected happiness. Consequently, choices turn out to be based on false expectations” (Easterlin, 2001, p.

469). L’autore anticipa alcune delle argomentazioni che verranno proposte in questa trattazione e afferma che “it is possible, of course, that the seeming contradiction between the cross sectional

and life cycle relation of happiness to income is because other factors overwhelm the effect of income on happiness over the course of the life cycle”.

1.2. Una spiegazione del paradosso: il reddito relativo

Le nostre riflessioni inizieranno dalla spiegazione al paradosso della felicità proposta da Clark, Frijters e Shields in un articolo pubblicato nel 2008 sul Journal of Economic Literature. Un’ipotesi molto forte adottata dagli autori riguarda la maniera in cui il reddito si traduce in utilità; nello specifico, la felicità riassumerebbe tutte le informazioni necessarie per determinare il livello di utilità raggiunto da un agente economico, rivelandosi una precisa misura del benessere. Come già detto, anche Easterlin (2001, p. 465) adotterebbe questa assunzione molto vincolante nella teorizzazione del suo modello: “I use the terms happiness, subjective well-being, satisfaction,

utility, well-being, and welfare interchangeably”.

La funzione di utilità a cui si fa riferimento è caratterizzata da tre termini che individuano altrettante sub-utilità. In particolare, è presente un termine, che chiameremo del reddito relativo o di confronto, che descrive proprio l’influenza che possono avere lo status o l’abitudine nel raggiungimento della soddisfazione. La funzione a cui si fa riferimento è la seguente:

(1)

U

t

= U (u

1

(Y

t

), u

2

(Y

t

|

Y

t*

), u

3

(T-l

t

, Z

1t

))

La funzione è comune a tutti gli individui e descrive in che modo le sub-utilità “u1”, “u2” e “u3” si combinano nel determinare il livello complessivo di utilità “Ut”. Il pedice “t” indica l’istante di

(13)

12

riferimento e parte da 0. Ne consegue che “Yt” indica il vettore dei redditi “y” (che invece si riferiscono ad un solo singolo istante) cumulati da ogni agente dall’istante “0” all’istante “t”. “Yt*” è il reddito del gruppo di riferimento. La relazione Yt| Yt* rappresenta il reddito relativo e “u2 (Yt |

Yt*)” è interpretata come l’utilità da reddito di status o di adattamento. La sub-utilità “u3” si riferisce all’influenza del fattore “tempo libero” sull’utilità totale: “T” è il tempo a disposizione, “ltsono le ore lavorate e “Z1t” è un vettore di variabili demografiche e socioeconomiche. Quindi:

• La prima sub-utilità suggerisce la possibilità di maggior consumo a fronte di un aumento del reddito. L’utilità da consumo cresce a tassi decrescenti (la derivata prima è positiva, la derivata seconda è negativa);

• La seconda sub-utilità mostra la variabile chiave dell’elaborazione proposta da Clark, Frijters e Shields. Evidenzia in che modo status o abitudine entrano in gioco nel raggiungimento di un certo grado di utilità. In particolare, Yt |Yt* è chiamata variabile del

reddito relativo;

• La terza sub-utilità esplicita l’influenza del tempo libero e di variabili demografiche e socioeconomiche che però entrano in questa specifica analisi solo come costanti e non sono dipendenti dai livelli di reddito.

La forma funzionale tipicamente applicata alla (1), confermata dall’evidenza empirica, è di tipo log-lineare:

(2)

U

t

= β

1

ln (y

t

) + β

2

ln (y

t

/

y

t*

) + Z

t

’υ

Quindi, “yt” misura il reddito riferito allo specifico intervallo “t” e non fa differenza, per lo scopo di questa tesi, se sia individuale o familiare. “yt*”è lo specifico reddito di riferimento, il reddito con il quale ogni agente fa confronti; può essere quello passato o futuro, quello dei vicini di casa piuttosto che dei colleghi di lavoro o quello medio in altri stati; “Z” raccoglie sia informazioni demografiche che sulle ore di lavoro, ma, per semplificazione, è stato scelto di non collegare tale variabile alle variazioni di reddito.

Focalizzandosi sulla seconda sub-utilità della funzione, si può affermare che l’utilità cresce in maniera decrescente all’aumentare di Yt ma decresce a tassi crescenti in Yt*; la funzione è

omogenea di grado zero in modo che u2 (Yt |Yt*) =u2 (aYt |aYt*); se i redditi degli agenti e dei punti

(14)

13

Applicando questa semplice modellistica si propone una spiegazione al paradosso attraverso i concetti di Social Comparisons e Adaptation illustrati nei seguenti due paragrafi.

1.2.1. Social Comparisons

In questa prima specifica, o comunque quando si parla di confronti sociali, i punti di riferimento sono definiti esterni. Si fa riferimento a gruppi demografici distinti da quello di appartenenza come l’ambiente di lavoro, il vicinato, gli agenti economici in altri stati. Le ipotesi semplificatrici adottate per illustrare come gli agenti si confrontano con i rispettivi gruppi di riferimento sono due:

• l’unico aspetto rilevante nel paragone tra gruppi è il reddito, per cui si assumono identiche le caratteristiche socioeconomiche tra i diversi gruppi;

• il reddito di riferimento è quello medio del gruppo con cui ci si confronta. La funzione a cui si fa riferimento sarà:

(2.1) U

i

= β

1

y𝑖

yi+A

+ β

2

ln (y

i

/ ȳ

i

)

“Ui” è l’utilità totale dell’agente i-esimo, “yi” è il suo reddito, “A” è una costante positiva e “ȳi” è il reddito medio della nazione/gruppo di riferimento in cui l’agente i-esimo vive. La modifica apportata alla funzione di utilità (2) rende sempre il secondo termine neutro rispetto a variazioni generali del reddito, dove per variazioni generali è da intendersi stessa variazione percentuale, sia del reddito personale che del reddito medio, sia del proprio reddito che del reddito di riferimento. Il primo termine, invece, tenderà a 0 per aumenti di reddito sempre maggiori3. Il modello fa notare come

l’utilità marginale da extra status sia maggiore per livelli di reddito bassi. Nell’elaborazione in

3 Si noti che nella (2) il primo termine, all’aumentare del reddito, non tendeva a zero; l’utilità aumentava sempre sebbene a tassi decrescenti.

Figura 4- Relazione tra reddito e felicità a livello individuale e aggregato. Elaborazione in Clark et al (2008, p.101).

(15)

14

Figura 4 la linea continua mostra la relazione di lungo periodo tra reddito e felicità, mentre la linea tratteggiata quella di breve periodo. Si nota che al tempo “t0”, quando il reddito è basso, l’utilità marginale da maggior reddito è maggiore rispetto a quella in “t1” e in “t2” (l’inclinazione della linea tratteggiata è maggiore). La conclusione che ne ricaviamo è che l’utilità marginale da extra status sarà sempre minore e, nel tempo, l’unico effetto del reddito sulla felicità sarà dovuto prevalentemente da consumi extra. L’utilità da consumo, però, tende a zero quando la nazione/ il gruppo in considerazione diventa molto ricca/o. Al contrario, l’utilità marginale da extra status (secondo termine) non tenderà mai a zero poiché si ipotizza che il reddito della nazione (yi) e il

reddito del gruppo di riferimento (ȳi) crescano allo stesso tasso. Ovviamente il punto di riferimento

può essere individuato anche nel reddito medio di una Paese estero e, di conseguenza, si può considerare come reddito personale (yi) quello medio della nazione in cui si vive.

Dai confronti sociali, che riescono a dare una ragionevole spiegazione al paradosso, si deduce che l’unico modo per una nazione, di un agente o, in generale, per un gruppo di aumentare il proprio grado di felicità nel medio lungo termine è avere una crescita dei redditi maggiore di quella del proprio punto di riferimento, quindi, (yi / ȳi) > 1. Tuttavia, come descritto, l’utilità da extra status

ha effetti solo nel breve periodo, e, poiché ci si riferisce ad un gioco a somma zero, in un gruppo, che sia il nucleo familiare, l’ambiente di lavoro o la nazione in cui si vive, la ricchezza che un agente possiede in più implica che un altro agente ne possieda in meno.

1.2.2. Adaptation

Quado si parla di adattamento i punti di riferimento non sono esterni ma interni. In altre parole, si confronta il proprio reddito con quello passato o, disponendo di una previsione più o meno attendibile, con quello che si potrà percepire in futuro. Per spiegare il paradosso l’analisi dovrà riguardare gli effetti immediati che i cambiamenti di reddito hanno sul livello di felicità. Questi, seppur istantanei, sarebbero solo transitori poiché gli individui si abituano alle nuove circostanze. La funzione che utilizzeremo rimane fedele alla (2) e assumeremo come punto di riferimento, questa volta interno, il reddito passato (yt*). Gli agenti economici confrontano, applicando una

media geometrica, il proprio reddito con quelli degli anni precedenti4. L’utilità da adaptation sarà

formata da tante componenti quanti saranno gli anni passati considerati. Il termine “yit” indica il reddito dell’agente i-esimo al tempo “t”. Nella seconda componente compare “yt*” che è il flusso

4 Come già detto, il confronto, quando si è lungimiranti o si riesce ad avere una buona stima dei redditi che si percepiranno, può essere fatto anche con i future income.

(16)

15

percepito nell’anno/i con cui si vuol confrontare il reddito attuale. Si considereranno quelli dei precedenti tre anni. Quindi yt* = (yit-1) α (yit-2) ϒ(yit-3) 1-α-ϒ) 5.

La funzione sarà:

(2.2) U

it

= β

1

ln (y

it

) + β

2

ln (y

it

/

y

t*

) + Z’

it

υ

(2.2.1) U

it

= β

1

ln (y

it

) + β

2

[ln (y

it

)-αln(y

it-1

) - ϒln(y

it-2

) - (1-α-ϒ) ln(y

it-3

)] + Z’

it

υ

In questa specifica si palesa il concetto di “hedonic treadmill” (Vedi Brickman e Campbell, 1971). Per hedonic treadmill, o

anche hedonic adaptation, si intende la tendenza delle persone a tornare più o meno velocemente ad un livello stabile di felicità anche qualora si verificano importanti eventi, positivi o negativi, che riescono a condizionare lo stile di vita, almeno nel breve termine.

Analogamente a quanto accade per i confronti sociali, l’effetto di breve periodo in seguito a un incremento di reddito è dato da β1 + β2, mentre l’effetto di lungo periodo solo da β1. La differenza

è che la seconda componente non confronta il reddito personale con il reddito dei punti di riferimento esterni, ma quello dell’anno attuale con quello dei tre anni precedenti; man mano che passa il tempo l’effetto osservato nell’anno in cui il reddito è aumentato sarà sempre minore. Nella figura 5 è illustrato il caso in cui β1=0 e i pesi di ponderazione degli anni passati sono uguali

(α=ϒ=1- α- ϒ). In ascissa ci sono gli intervalli di tempo e in ordinata il livello di felicità (linea in alto) e di reddito (linea in basso). Al tempo t=2 si ha un aumento del livello di reddito con contestuale aumento di quello di felicità. Lo scatto nel livello di felicità all’anno “2” è influenzato dal confronto del reddito percepito all’anno “2” con gli anni precedenti, in cui si percepiva un reddito inferiore. Nell’anno “3” il confronto del reddito percepito sarà con quello dell’anno “2”, che è identico

5 “α”, “ϒ” e “1- α- ϒ” sono i pesi assegnati alla rilevanza del reddito percepito nello specifico anno. “y

it-1” sarà il reddito percepito dall’agente “i” al tempo “t-1”.

Figura 5 - Cambiamento del livello di felicità in seguito a uno shock nel livello di reddito. Elaborazione in Clark et al (2008, p. 105).

(17)

16

all’attuale, e quello dell’anno “1” e “0”, che risultano essere minori. La media tra i redditi confrontati al tempo t=3 influenza in maniera meno forte il livello di felicità, che inizia a calare, poiché il valore della loro media si avvicina al valore percepito attualmente. Al tempo t=5 il livello della media dei redditi percepiti negli anni precedenti è praticamente lo stesso del reddito percepito per cui il confronto con i punti di riferimento non produce alcun effetto sul livello di felicità che torna ad essere lo stesso che si aveva al tempo t=2. Riguardo la spiegazione del paradosso, l’utilità marginale da maggiori redditi rimane alta quando i redditi di riferimento, in questo secondo caso i redditi degli anni precedenti, continuano ad essere sensibilmente minori. Per il fenomeno dell’adattamento, quindi, l’unico modo per avere un aumento del grado di felicità nel lungo periodo, o quantomeno conservare un livello costante, sarebbe avere continui scatti di reddito.

Easterlin (2001) propone un altro esempio per spiegare il fenomeno dell’adattamento introducendo il concetto di Aspiration. L’autore tiene a sottolineare che le sue conclusioni sono raggiunte considerando la causa

dell’essere più o meno felici correlata solo a interessi materiali, anche se le persone, di fatto, condizionano il proprio livello di felicità anche su interessi immateriali; questa puntualizzazione verrà ripresa durante la trattazione.

In una situazione in cui gli individui, anche in posizioni socioeconomiche differenti, si trovano sul medesimo livello di aspirazione (vedi figura 6),

ad un aumento del reddito, se le aspirazioni rimangono le stesse, ci si muoverà sulla stessa funzione e si godrà di un livello crescente di benessere/felicità. Tuttavia, se dopo un aumento del reddito, ad esempio da “y1” a “ym”, dovessero cambiare anche le aspirazioni, da “A1” a “A2”, la felicità rimarrebbe a livello “u1”. Allo stesso modo, se il reddito rimane costante a “y2” ma cambiano le aspirazioni, si immagini da “A1” a “A2”, l’utilità ad uno stesso livello di reddito diminuirebbe da “u2” a “um”. In questo modo la spiegazione del paradosso è da ricercarsi nel cambiamento delle aspirazioni delle persone che, nella maggior parte dei casi involontariamente,

Figura 6 - Benessere soggettivo (u) e reddito (y) per diversi livelli di aspirazione (A). Elaborazione in Easterlin, 2001, p. 473.

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17

si adatta alle nuove condizioni di vita. L’unico modo per avere crescita della felicità dopo un aumento del reddito è continuare ad avere le stesse aspirazioni.

1.3 Altre spiegazioni al paradosso

Oltre alla spiegazione proposta nel paragrafo precedete, in letteratura sono presenti altri studi scientifici che hanno provato a dare una spiegazione alle evidenze messe in luce dal paradosso di Easterlin.

Oishi e Kesebir (2015) propongono una parziale spiegazione del paradosso attraverso un’analisi dei dati di 34 Paesi dove l’assenza di crescita della felicità, nonostante l’aumento dei livelli di reddito, sarebbe dovuta alla crescente

diseguaglianza tra i redditi delle persone. In Figura 7 si misura la diseguaglianza dei redditi attraverso l’utilizzo del coefficiente di Gini, mentre in ordinata il livello di felicità è relazionato alla percentuale di risposte “very happy” date dagli intervistati dal 1947 al 1970 alla stessa domanda del sondaggio GSS utilizzata nell’analisi di

Easterlin. La retta di colore rosso è la retta di regressione e le frecce indicano l’ordine cronologico delle misurazioni. Questo approccio dimostrerebbe che la soluzione al puzzle, con conseguente raggiungimento di maggiore benessere, sarebbe possibile attraverso operazioni di redistribuzione della ricchezza.

Castriota (2006) suggerisce, invece, una diversa prospettiva nella sua analisi. Un fattore molto influente per il livello di benessere di un individuo sarebbe il livello di istruzione, o meglio, variazioni del reddito possono avere effetti diversi a seconda del grado di istruzione posseduto dalle persone. In particolare, si evince che gli individui più istruiti riportino un’utilità marginale da reddito aggiuntivo minore degli individui meno istruiti. Il paradosso troverebbe così una spiegazione, visto che nei Paesi più sviluppati il livello di istruzione è cresciuto di pari passo con la crescita economica. Le conclusioni di Castriota potrebbero evidenziare, fatte alcune assunzioni, l’importanza dell’istruzione per il raggiungimento di un adeguato livello di soddisfazione nella vita. Infine, un ulteriore approccio, diverso dai precedenti, è adottato da Antolini e Simonetti (2018) che suggeriscono di definire con chiarezza il concetto di felicità prima di elaborare i dati raccolti.

Figura 7 - Grafico a dispersione, con linea di regressione sulla relazione tra diseguaglianza nel reddito e felicità, Stati Uniti, 1947-1970 (Oishi e Kesebir, 2015, p. 1631).

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18

Sarebbe necessario, prima di riportare i livelli di soddisfazione, dare una definizione inequivocabile di benessere soggettivo e adottare una metodologia in grado di dimostrare effettivamente se le persone sono o non sono felici.

Alcuni degli spunti cui si è accennato saranno la chiave di letteratura per le argomentazioni nella parte conclusiva di questo elaborato.

(20)

19

CAPITOLO SECONDO

2. La relazione tra utilità e felicità

Nel capitolo precedente, sia quando si è descritto l’esperimento di Richard Easterlin sia nell’esplicitare la spiegazione proposta da Clark, Frijters e Shields, abbiamo sempre premesso che i termini felicità, benessere soggettivo, soddisfazione, utilità fossero stati utilizzati e considerati da tutti gli autori citati come sinonimi. Questa assunzione è sicuramente semplificatrice ma di certo non banale, anzi, per certi versi risulta essere rischiosa e vincolante. Infatti, assumendo suddetti termini come interscambiabili, se da un lato si rende la descrizione del fenomeno compatibile con i dati di cui si dispone e con un’analisi empirica, dall’altro si corre il rischio di essere inesatti, di omettere dati rilevanti, di sopravvalutare la significatività di alcune evidenze e percezioni e di compromettere di conseguenza la validità dello studio e le conclusioni raggiunte.

Il ritenere, in primis da parte dello stesso Easterlin, che la felicità, al netto delle possibili imprecisioni nella raccolta dati, eseguita prevalentemente attraverso sondaggi, possa essere una misura attendibile della nozione economica di utilità implica due conseguenze che riteniamo essere importanti. Innanzi tutto, la felicità risulterebbe essere l’unico fattore che si desidera perseguire e per la cui massimizzazione sono influenzati i comportamenti e le scelte delle persone. L’utilità, per risultare tale, deve soddisfare due requisiti: le scelte devono essere fatte con l’intento di accrescere l’utilità attesa; l’utilità stessa dipende sia dalle scelte dell’individuo che da fattori casuali che, anche se fuori dal controllo dell’individuo, sono prese in considerazione e influenzano le decisioni. Tuttavia, seguendo questa linea di pensiero sorgono tre problematiche:

• non si può sapere con assoluta certezza quali e quante scelte, in grado di condizionare il raggiungimento o meno di un certo grado di utilità (per ora potremmo dire anche felicità), abbiano a disposizione gli individui in un certo istante;

• non è detto che la felicità osservata raggiunga lo stesso valore di quella prevista. Il livello di felicità previsto e “sperato”, raggiungibile attraverso determinate scelte, per rivelarsi coerente dovrebbe combaciare anche con uno stato del mondo compatibile (punto di riferimento), per il quale si deve aver previsto l’effettiva realizzazione;

• a priori, si reputerebbe unico il fattore che influenza l’utilità totale.

Seconda conseguenza dell’assumere che la felicità sia la giusta maniera per misurare l’utilità riguarda le decisioni di politica economica e i parametri da monitorare. Infatti, si metterebbe in

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20

dubbio la validità degli indicatori economici tradizionali (PIL, tasso di occupazione, tasso di disoccupazione, tasso di inflazione) che, nella prassi, sono i parametri guida delle scelte dei policy

maker.

Quest’ultimo aspetto verrà trattato nella seconda parte quando si parlerà anche di quanto gli organi di governano debbano essere influenzati nelle scelte di politica economica da parametri che misurano lo stato di felicità, di insoddisfazione, di benessere degli elettori piuttosto che dai classici indici. Invece, in questo capitolo, si proporrà una sintesi di alcune delle maggiori opinioni circa l’assumere la felicità come buona misura dell’utilità degli agenti economici.

2.1 La felicità collegata all’utilità

Come già accennato, per definirsi utilità in senso economico, la felicità dovrebbe soddisfare due requisiti. Il primo prevede che la felicità guidi le scelte individuali, in altre parole, le scelte che perseguono obiettivi di felicità sono quelle che massimizzerebbero il flusso di utilità atteso. Dimostrare questa ipotesi è abbastanza difficile, soprattutto perché è difficile stabilire in maniera generica per tutti gli individui quante scelte si hanno a disposizione e quali sono le più opportune ed efficaci per il raggiungimento di più alti livelli di felicità. Gran parte delle azioni che compiamo e delle vicende che viviamo sono solo parzialmente frutto delle nostre scelte, basti pensare a un felice matrimonio, all’avere dei bambini, a preservare un buono stato di salute. Ci sono quasi sempre uno o più agenti in grado di influenzare la nostra felicità. Il secondo requisito che la felicità deve possedere per ritenersi una buona misura dell’utilità richiede che gli individui sappiano a priori quali siano le scelte opzionabili e conoscano le probabilità di trovarsi in uno stato del mondo piuttosto che in un altro ovvero essere in grado di prevedere i possibili cambi di variabile e di scenario e ottimizzare ripetutamente la propria funzione di utilità e raggiungere il livello di felicità desiderato. Questa assunzione richiederebbe che l’utilità effettivamente osservata al tempo “t+1” sia la stessa di quella precedentemente prevista al tempo “t”. È evidente che dimostrare in maniera diretta che i dati sulla felicità riassumano in maniera puntuale i due requisiti risulta molto difficile. Per questo motivo Clark et al (2008) suggeriscono quattro approcci basati su evidenze circostanziali in modo da poter supportare implicitamente l’ipotesi di una stretta relazione tra felicità e utilità.

a) Secondo il primo approccio si ipotizza che i comportamenti di scelta degli individui siano conseguenze di processi evolutivi e, quindi, il raggiungimento di un livello di soddisfazione accettabile sia cablato al manifestarsi di attività specifiche nel cervello. Sono diversi gli

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studi (vedi Shizgal,1999 e Ito e Cacioppo, 1999) che dimostrerebbero che la felicità sia collegata ad alcuni stimoli che rispondono a stati di soddisfazione. Esisterebbe, ad esempio, una forte correlazione tra espressioni sorridenti o sguardi accigliati con i livelli di benessere. Addirittura, sensazioni e stati di positività o negatività possono derivare da reazioni alla valutazione di espressioni facciali altrui. Continuando ad adottare l’ipotesi di una natura evolutiva alla base delle scelte degli individui, si sono ottenuti buoni riscontri per poter affermare che la felicità sia collegata all’utilità attraverso esperimenti sull’attività del cervello, ottenendo prove che le sensazioni di positività e negatività siano associate ad aree differenti della corteccia prefrontale.

Dunque, alla base di questo approccio, risulta fondamentale il contributo della selezione naturale che è in grado di far compiere le scelte più utili e soprattutto associate a manifestazioni di felicità.

b) Il secondo approccio, riconoscendo le difficoltà nel voler trovare misurazioni puntuali dell’influenza della felicità come causa del livello di utilità, suggerisce di spostare l’attenzione sulle relazioni tra il livello di soddisfazione e fattori che tradizionalmente, almeno nella cultura occidentale, rappresentano target da raggiungere per essere felici come, ad esempio, il matrimonio, il lavoro, il reddito, la salute e la sfera religiosa. Tutte queste aree avrebbero un filo diretto con l’essere felici. Le scelte degli agenti sarebbero quindi orientate verso quelle specifiche aree che più di tutte riescono ad innalzare il livello di felicità. La misurazione, quindi, si sposterebbe su questi fattori che schermano la valutazione diretta del grado di benessere ma riuscirebbero a motivare le scelte degli agenti e il perché si osservano determinati comportamenti.

c) Chi segue il terzo approccio formula una teoria con cui si dimostra che gli agenti economici sono in grado di valutare in maniera esatta cosa le scelte comportano in termini di felicità, ma, soprattutto, essi stessi riuscirebbero ad essere coerenti con dette scelte perché risulterebbero essere le più utili. Come tutti gli altri approcci, essendo una teoria implicita, che non misura direttamente la felicità, si analizzano i comportamenti che gli individui, considerati agenti razionali, adottano quando, proprio perché consapevoli delle conseguenze delle proprie scelte, decidono di venir fuori da contesti lavorativi o matrimoni

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22

poco gratificanti. Si dimostrerebbe che ottimizzando la felicità tramite queste scelte, anche coraggiose, si raggiunge più utilità6.

d) Il quarto approccio verifica, attraverso esperimenti, che le scelte rivelate degli agenti, ritenute ottime, sono prese anche in base ad aspetti relativi a parametri differenti da quelli di mera utilità economica. Attraverso i test di laboratorio si riesce a misurare implicitamente il grado di felicità poiché è possibile mantenere inalterati tutti i riferimenti della realtà e modificare solo le variabili che interessano alla ricerca. In particolare, questo genere di studi vogliono provare che le scelte prese sono in qualche misura correlate a preoccupazioni relative. Si dispone di una fiorente letteratura economica sperimentale sull’argomento, ad esempio Kahneman et al (1986) producono risultati importanti per affermare che gli agenti economici, in media, hanno una buona capacità di valutare la convenienza di scambi economici o, ancora, Guth et al (1982) e Smith (1994) descrivono che secondo alcune evidenze le persone possano bruciare reddito reale a fronte di una distribuzione di minor reddito ma in maniera più equa tra la popolazione. Determinanti, quindi, tornano ad essere i confronti sociali e lo si è dimostrato quando, in un esperimento, si è chiesto agli intervistati di rispondere in merito a ipotetici cambiamenti dei propri redditi e di quelli dei propri punti di riferimento, in questo caso corrispondenti al reddito dello stato in cui si vive. Solnick e Hemenway (1998), nel sondaggio che hanno proposto, chiedono alle persone di scegliere tra le alternative A e B:

A. Reddito annuale personale di $50,000 e reddito medio di riferimento $25,000. B. Reddito annuale personale di $100,000 e reddito medio di riferimento $200,000. Ovviamente, prima che venga fatta la scelta, si sottolinea che il potere di acquisto rimarrebbe invariato sia che si opti per l’alternativa A che per la B. I risultati ottenuti mostrano che l’alternativa A viene più spesso preferita, a dimostrazione di un evidente preoccupazione per lo status a influenzare le persone nel momento della scelta.

Il comportamento mostrato, ammesso che le persone posseggano una capacità intrinseca di valutare le scelte più convenienti, porterebbe a pensare che sia l’influenza della felicità a indirizzare le decisioni e non parametri prettamente economici come il livello del reddito percepito.

6 L’ipotesi forte che viene fatta in questo approccio è che la previsione degli agenti circa il livello di felicità, dopo la scelta, sia positiva, sia una previsione di maggiore benessere.

(24)

23

Le quattro chiavi di lettura sopradescritte possono considerarsi le premesse delle tesi e delle conclusioni suggerite da Easterlin prima e dalla spiegazione di Clark, Frijters e Shields poi. In questa tesi, l’interpretazione che proponiamo del quadro incorniciato da queste assunzioni è di una così stretta relazione tra felicità ed utilità, pensando alle due come un unico obiettivo da ottimizzare nella funzione dell’agente tipo. Riprendendo la (1):

(3)

H

t

= U

t

= U (u

1

(Y

t

), u

2

(Y

t

|

Y

t*

), u

3

(T-l

t

, Z

1t

))

Non solo le sub-utilità (in particolare la prima e la seconda) spiegherebbero il perché delle evidenze mostrate dal paradosso ma sarebbero anche coerenti con i comportamenti assunti dalle persone. Con le preferenze rivelate, che come da definizione rappresentano un agire razionale degli individui, permetterebbero a quest’ultimi di conoscere la maniera per ottimizzare la felicità/utilità ma, soprattutto, il reddito si rivelerebbe una variabile molto meno determinante in una visione di lungo periodo. Ciò porterebbe a pensare che le politiche di governo debbano preoccuparsi di come favorire il raggiungimento di più alti valori di felicità, intesa come soddisfazione personale e sensazione di benessere, e assegnare un ruolo secondario all’obiettivo di crescita economica.

Tuttavia, riteniamo, come anche Clark et al (2008, p. 121), che ci sia più di un motivo per essere cauti a sostenere una così forte e vincolante relazione tra felicità e utilità.

2.2 Ci basta essere felici?

Un secondo filone di economisti commenta le evidenze illustrate da Easterlin in altri termini. Non si criticano tanto le conclusioni riguardo i livelli di felicità riportati quanto la stretta associazione tra felicità e utilità e, di riflesso, anche il secondo aspetto, motivo di dibattito in letteratura, riguardo gli indirizzi che la politica economica dovrebbe seguire. Come per le argomentazioni del paragrafo precedente, procederemo cercando di spiegare perché non sia corretto considerare la felicità alla stregua dell’utilità attraverso quattro percorsi, di cui il capitolo terzo rappresenterà la sintesi, per poi trattare, nella seconda parte della tesi, il secondo aspetto del contraddittorio che si sta dibattendo.

(25)

24

2.2.1 Decision/Experienced Utility e la Peak-End Rule

La prima ragione per essere quantomeno scettici nel credere alla forte relazione felicità-utilità è supportata dall’evidenza secondo la quale gli agenti economici commettono degli errori sistematici nel valutare l’utilità passata e, di conseguenza, sono portati a compiere scelte né razionali né ottimizzanti.

Kahneman et al (1997) colgono la differenza tra due tipi di utilità: la prima derivante dal peso che ha un risultato su una decisione (decision utiity), e la seconda (experienced utility) misurata o in tempo reale (instant utility), quando è possibile, o attraverso valutazioni di esperienze passate (remembered utility). Quindi, riferendosi al concetto di Bentham (1789), l’utilità da esperienza è riconducibile alle sensazioni di piacere e di dolore in base alle quali si decide di compiere una scelta piuttosto che un’altra. Stigler (1950) propone una seconda interpretazione in base alla quale l’utilità da decisione, invece, è dedotta semplicemente dalle scelte osservate/rivelate. Abbiamo fatto e faremo ancora riferimento alla teoria delle preferenze rivelate: come approfondito in appendice, in realtà, la locuzione “preferenza rivelata” non si rifà al significato classico di preferenza; preferire un paniere di beni “X” a un altro paniere “Y”, in questo caso, non significa altro che è stato scelto il paniere “X” quando anche l’altro avrebbe potuto essere scelto. La narrazione della letteratura moderna è portata a fare affidamento sulla decision utility poiché l’utilità da esperienza non può essere sempre osservata e misurata e perché si ritiene che le preferenze rivelate diano già tutte le informazioni necessarie sull’utilità, data la natura razionale degli agenti economici. Quando si equiparano felicità e utilità in un certo senso si adotta questa linea di pensiero che, sicuramente, permette una più agile raccolta dati per la ricerca ma paga lo scotto di dover sostenere a priori che le persone agiscano, senza eccezioni, sempre in maniera razionale. Di fatto, non viene mai testato se questo realmente accada ma è una defezione non indifferente. Il considerare l’utilità da esperienza, invece, permette di analizzare le decisioni degli agenti in modo separato e di evidenziare eventuali casi in cui la razionalità delle persone non può essere assunta. Sulla base di quanto detto, riportiamo un esperimento descritto in Kahneman et al (1993) sulla Peak-End rule per poi fare delle osservazioni sull’utilità da esperienza e da decisione. I soggetti scelti per l’esperimento sono stati sottoposti a due esperienze poco piacevoli. Durante la prima, di più breve durata, gli veniva chiesto di immergere una mano in acqua fredda per 60 secondi, mentre durante la seconda, più lunga, dopo i 60 secondi in acqua fredda, la mano continuava a restare immersa per altri 60 secondi ma ad una temperatura dell’acqua nel

(26)

25

frattempo resa più confortevole. Praticamente, la seconda esperienza comprendeva tutto il disagio della prima più un extra. Nello specifico l’esperimento prevedeva che i volontari immergessero la mano in un recipiente di plastica riempito con acqua alla temperatura di circa 14.1°C (+/- 0.3°C), ad una profondità di 11 centimetri. Tramite un sistema di pompe in grado di riciclare l’acqua si garantiva una temperatura costante dell’acqua. Un secondo sistema di pompe, senza la minima possibilità che i volontari potessero notarlo, riusciva, in 30 secondi, a portare gradualmente la temperatura all’interno del recipiente di plastica a 15.2°C (+/- 0.3°C). Obiettivo dell’esperimento era misurare il livello di disagio provato dai volontari nell’immergere la mano nell’acqua fredda. La disutilità era misurata, in maniera simultanea, attraverso 15 luci a led che indicavano se verdi una sensazione di non disagio, se rosse una sensazione di disagio. I volontari avevano il compito di cambiare il colore di tante luci a led in base alla valutazione del loro stato di agio. Lo sperimentatore testava un singolo individuo per volta a cui veniva comunicato che la prova sarebbe consistita in tre parti: avrebbe dovuto immergere nella prima parte la mano destra e nella seconda parte la mano sinistra, nulla veniva detto riguardo la terza parte. Inoltre, non si accennava minimamente al fatto che, in realtà, la seconda parte sarebbe durata 4 minuti rispetto ai 2 minuti della prima. La terza parte consisteva nello scegliere quale prova si fosse disposti a ripetere più volentieri 7. I risultati

dell’esperimento hanno confermato che le persone spesso valutano esperienze passate in base alla regola del picco e dell’istante finale. Le persone, nel valutare l’utilità o disutilità di episodi passati, in maniera consapevole o meno, accelerano il processo facendo una media tra il picco di utilità/disutilità e il valore provato alla fine

7 Nell’esperimento, in realtà, la terza prova prevedeva la somministrazione di più domande. Ne scaturiva un’analisi in grado di testare le capacità di valutazione dei due episodi da parte dei volontari: lunghezza dell’esperimento, differenze tra i picchi di dolore raggiunti durante le due prove, coincidenze tra la valutazione post prova e valutazione assegnata alle sensazioni provate durante la prova.

Figura 8 - Elaborazione in Angner, 2017, "Economia comportamentale: guida alla teoria della scelta", p 242.

(27)

26

dell’esperienza. Così facendo non si calcola in maniera esatta la somma delle utilità/disutilità provate in ogni istante. Seguendo questo schema e osservando la figura 8, le persone potrebbero valutare l’esperienza (a) migliore dell’esperienza (b). In ascissa sono misurati gli istanti temporali, in ordinata il livello di utilità raggiunto per ogni singolo istante. Si noti che, fino al momento coincidente con la linea tratteggiata, le due esperienze sono praticamente uguali. L’esperienza (b) non può che essere preferita all’altra, proprio come si sarebbe dovuto rivelare il primo test dell’esperimento descritto sopra. L’istante finale dell’esperienza, però, è più alto nell’esperienza (a), per cui la media approssimativa della

Peak-End Rule risulta più elevata. Nella figura 9, invece,

sono misurate le utilità di due esperienze. Sia la prima (linea continua) che la seconda (linea tratteggiata) sono caratterizzate dallo stesso livello di utilità registrato nei momenti finali. Chiaramente l’area sottesa dalla linea continua è minore rispetto a quella delimitata dalla linea tratteggiata, a significare che la prima esperienza ha riportato meno momenti di utilità. Ciononostante, per effetto del maggiore picco raggiunto (la linea continua riesce a raggiungere nella parte iniziale il livello di utilità “10”, mai toccato dalla linea tratteggiata), la prima esperienza spesse volte viene preferita, proprio per una approssimazione errata.

I risultati teorizzati dalla regola del picco e dell’istante finale, confermati da numerosi esperimenti, tra cui quello che abbiamo descritto prima, portano con sé due importanti implicazioni:

• Le persone non mostrano una spiccata capacità di valutare con esattezza episodi passati, tanto che spesso si affidano, per accelerare i processi di valutazione o semplicemente per abitudine, a delle approssimazioni, come la Peak-End Rule, che però possono dar vita a errori grossolani.

• Prima di compiere le scelte, le evidenze sembrano confermare che gli individui si affidino alla remembered utility più che alla decision utility.

Le conseguenze che si sono potute osservare sono due. La prima è che la durata degli episodi ha rilevanza minima nella valutazione tramite utilità da ricordo. La seconda è che si assiste ad una violazione della monotonicità temporale: paradossalmente infatti, riferendoci a episodi dove si vuol calcolare livelli di disutilità, proprio come l’esperimento analizzato precedentemente, si

Figura 9 - Elaborazione in Angner, 2017, "Economia comportamentale: guida alla teoria della scelta", p 243.

(28)

27

potrebbe ridurre il dolore percepito aggiungendo istanti non confortevoli, che però riescono ad abbassare la media calcolata tramite la regola del picco e dell’istante finale.

Quindi, è lecito affermare che i bias possono trasferirsi sulle decisioni che gli agenti economici compiono nel quotidiano. Per certi versi, ciò può risultare pericoloso perché il ricordo distorto di un’esperienza di piacere o di dolore condiziona inevitabilmente le azioni future. Bisogna essere cauti sia nel pensare che l’utilità da esperienza possa essere completamente sostituita che, implicitamente, nell’affidarsi ai dati sui livelli di felicità riportati e sulle valutazioni di esperienze pregresse per delineare le modalità per raggiungere maggiore benessere per gli agenti.

2.2.2. La Future Utility

Si è parlato degli errori che si compiono nella valutazione di esperienze passate ma, spesso, le persone valutano in maniera sbagliata anche i propri gusti futuri. Per poter ottimizzare le scelte, infatti, bisognerebbe riuscire a prevedere in maniera quanto più precisa possibile le preferenze che si avranno dopo aver compiuto le scelte; le preferenze, a causa delle abitudini, dell’oscillazione dell’umore e per tante altre cause, possono cambiare più frequentemente di quanto ci si aspetti. Anche se si è consci della possibilità che le preferenze al tempo “t+1” possono mutare rispetto a quelle al tempo “t”, viene quasi sempre sottostimato il cambiamento.

A sostegno di questa teoria, Read e van Leeuwen (1998) sono riusciti a produrre dei risultati significativi attraverso un esperimento. I partecipanti erano 200 impiegati di varie aziende, con sede ad Amsterdam, a cui veniva chiesto, in due istanti temporali diversi, se preferissero scegliere cibo non salutare. La domanda, oltre ad essere somministrata sia una settimana prima (advance) che nel momento

immediatamente

precedente (immediate) la scelta, era rivolta sia quando gli intervistati risultavano più affamati, tipicamente, quindi, nel tardo pomeriggio, che quando erano relativamente sazi, tipicamente dopo pranzo. Inoltre, le risposte dovevano riferirsi sia allo scenario

Figura 10 - Percentuale di cibo non salutare scelto in tutte le condizioni. Fonte: elaborazione risultati esperimento Read e van Leeuwen, 1998, p.198.

(29)

28

in cui gli intervistati stessi predicevano un personale stato di fame “H” (hungry) oppure di sazietà “S” (satiated). In questo modo si riusciva ad avere sia la proiezione formulata dagli agenti economici circa i propri gusti futuri, ossia la risposta al tempo “t”, che i gusti effettivi al tempo “t+1”. I risultati dell’esperimento sono descritti in figura 10. In ordinata è misurata la percentuale di impiegati che presume di scegliere, quando una settimana prima deve fare una previsione, o decide di scegliere, al momento della scelta effettiva, cibo non salutare8; in ascissa, invece, sono

riportate le condizioni in cui si trova l’intervistato al momento della prima intervista e lo stato in cui deve immedesimarsi al momento della scelta futura. La colonna “HH-bianca” si riferisce alla percentuale di persone che sceglierebbe cibo non salutare quando vengono intervistati nel tardo pomeriggio, risultando affamati, e gli viene chiesto di immedesimarsi in uno scenario futuro di non sazietà. Analogamente le altre tre condizioni. Le osservazioni che si deducono sono due. La prima è che le scelte future sono molto condizionate dallo stato in cui ci si trova; nel nostro esempio, le persone affamate sono più predisposte a scegliere cibo non salutare. La seconda osservazione parte da una premessa. Effettivamente le persone capiscano la direzione in cui i propri gusti cambieranno, ossia le persone, che siano affamate o sazie, sanno che le loro scelte saranno influenzate dal fatto di essere affamati o sazi nel futuro (la colonna “bianca-HH” è maggiore della colonna “bianca-SH” e la colonna “bianca-HS” è maggiore della colonna “bianca-SS”). Tuttavia, si nota come, al netto di una valutazione qualitativamente corretta della direzione in cui i propri gusti cambieranno, gli individui sottostimano l’impatto di suddetti cambiamenti, infatti le colonne bianche, che si riferiscono alle previsioni al tempo “t”, sono sistematicamente di valore inferiore rispetto alle relative colonne nere, che rispecchiano la percentuale di intervistati che desidera mangiare cibo non salutare al tempo della scelta immediata al tempo “t+1”, evidenziando una forte incoerenza temporale, sintomo, a nostro modesto avviso, di una bassa capacità di valutazione.

Sulla base di queste evidenze, Loewenstein et al (2003) sviluppano un modello formale in grado di descrivere gli errori di proiezione e i cambiamenti dei gusti osservabili in istanti temporali diversi. L’utilità istantanea che include i propri gusti al tempo “t” è data da

u (c

t

, s

t

),

dove “ct” è il consumo (ad esempio la scelta di consumare cibo non salutare) e “st” è lo stato (situazione di fame o sazietà) al periodo “t”. Si pensi, quindi, che le persone debbano prevedere la generica utilità futura

u (c, s).

La previsione sarà data da

ü (c, s | s’),

dove s’ rappresenta lo stato attuale. Se si

8 Il fatto di scegliere cibo non salutare è correlato positivamente alla sensazione di fame o comunque di non sazietà, di fatto le colonne nere “HH” e “HS” sono maggiori rispettivamente delle colonne nere “SH” e “SS”.

(30)

29

rivelerà esatta sarà

u (c, s) = ü (c, s | s’),

ma come dimostrano le evidenze, tra cui l’esperimento di prima, spesso le previsioni vengono smentite. Dunque, l’utilità prevista mostra un errore di previsione se esiste un α ∈ [0,1] tale che per ogni “c”, “s” e “s’” vale che ü (c, s | s’) = (1-α) u (c, s) +

α u (c, s’). Ciò significa che se α=0 l’agente in questione non commette errori di previsione, mentre

se α=1 l’agente pensa che i suoi gusti non cambieranno. In questo modello non si vuol descrivere come cambiano i gusti degli agenti ma si vogliono fare delle previsioni in funzione di questi cambiamenti. Ad esempio, riferendosi al fenomeno dell’adattamento affrontato nel primo capitolo, il livello di felicità di un individuo potrebbe tendere a tornare come quello precedentemente riportato perché l’errore di previsione ha portato ad avere aspettative troppo alte e lo stato effettivamente raggiunto si è rivelato insufficiente e poco gratificante. Bisogna dire che la maggior parte delle decisioni economiche necessita non solo di una semplice previsione e di una singola scelta, che sia di consumo o risparmio, acquisto di un prodotto piuttosto che un servizio, divorziare o non divorziare, ma può prevedere, ad esempio, un percorso di consumo e risparmio, ossia una serie di scelte intertemporali. Per cui abbiamo come funzione obiettivo:

(4)

U

t

(c

0

, …, c

T

| s

t

) = ∑

𝑇𝑡=0

𝛿

t

u (c

t

, s

t

)

dove “δ≤1” è il fattore di sconto. Solitamente, nei modelli economici standard, si presume che gli agenti siano razionali e che, in questo caso, sappiano prevedere esattamente i propri comportamenti futuri e per questo siano in grado di associare ad ogni percorso di consumo (c0, c1,

…, cT) un percorso di stati (s0, s1, …, sT) in modo da ottimizzare la funzione Ut. Ma se una persona evidenzia dei bias di proiezione farà valutazioni in base al suo stato attuale “s0” e non in base al percorso degli stati che effettivamente andranno a realizzarsi:

(4.1) Ü

t

(c

0

, …, c

T

| s

t

) = ∑

𝑡=0𝑇

𝛿

t

ü (c

t

, s

t

|s

0

)

Anche se, di fatto, gli agenti si comportano, in un certo senso, in maniera razionale massimizzando la funzione Üt (c

0, …, cT | st) rimane comunque che Üt ≠ Ut, proprio perché sono diverse le previsioni e gli stati effettivi. Per incorporare l’incertezza sui livelli di consumo futuri inseriamo delle probabilità di realizzazione dei vari scenari. Si ipotizza che in t=0 chi ottimizza la funzione si aspetta che l’utilità attesa all’istante futuro “τ” sia la combinazione di consumi e stato futuri (c’, s’), con probabilità p, e la combinazione (c’’, s’’), con probabilità (1-p). Allora l’utilità attesa fatta al periodo “t=0” sarà:

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