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I pilastri su cui si reggeva la Jamahirīya e il contesto interno libico

3.1. La Libia nel XXI secolo: la situazione antecedente alle sommosse del 2011

3.1.1. I pilastri su cui si reggeva la Jamahirīya e il contesto interno libico

Nell’analizzare la situazione della Libia antecedente alla rivolta è importante partire dalla struttura di potere che permetteva al regime di Gheddafi di perpetrare la propria autorità. Senza entrare nello specifico dell’organizzazione (cui rimandiamo ai precedenti capitoli), è importante sottolineare come il sistema di potere interno del

Qa’īd si basasse principalmente su tre pilastri che determinarono la solidità della

struttura organizzativa e sviarono le analisi degli esperti in riferimento agli scenari futuri di questo Paese. Il sistema messo in piedi da Gheddafi si basava principalmente su: redistribuzione delle ricchezze attraverso sussidi e benefici sociali propria di un

rentier state; repressivo sistema di sicurezza volto a limitare e soffocare movimenti

islamisti, mass media e oppositori politici; grande attenzione agli equilibri fra tribù e famiglie.

Il primo pilastro su cui si basava il potere di Gheddafi era derivato dalla sua struttura di

rentier state che, come visto nel precedente capitolo, gli permetteva di mantenere al

minimo la pressione fiscale e nel contempo effettuare un massiccio investimento in programmi di welfare mantenendo quindi un alto consenso popolare1. Tuttavia il regime

non era riuscito ad arginare la crescente disoccupazione e il malcontento, specialmente tra i giovani. L’alto tasso di disoccupazione, che colpiva soprattutto donne e nuove generazioni, e l’elevata crescita demografica produssero uno squilibrio generazionale che influì molto sull’equilibrio interno della Libia. Il regime, cosciente di questa situazione di latente tensione interna, soprattutto tra le nuove leve, cercò negli ultimi anni di varare politiche incentrate principalmente sull’assorbimento della disoccupazione, come ad esempio la “libianizzazione” delle imprese straniere, richiedendo a quest’ultime di assumere personale libico2, oppure un grande piano di infrastrutture, ma tutti i tentativi di modernizzazione dell’economia fallirono. Il processo di riforma economica portato avanti da Gheddafi negli anni Duemila e mirante a trovare un equilibrio tra settore privato e pubblico, nonché alla creazione di una piccola e media impresa in grado di svincolare, anche se parzialmente, l’economia libica dall’andamento volatile dei prezzi del petrolio, non riuscì appieno; infatti, se riuscì ad attrarre investimenti esteri nel settore petrolifero non fece altrettanto negli altri

1 A. VARVELLI, Libia. Vere riforme oltre la retorica?, in “ISPI Analysis”, n. 17, luglio 2010, pp. 1-7. 2 R.B. ST.JOHN, The Slow Pace of Reform Clouds the Libyan Succession, ARI, n. 45, 11 marzo 2010,

settori. Il progresso economico fu ostacolato da difficoltà di varia natura, tra cui problemi strutturali e burocratici. Il processo di riforma dell’economia quindi procedette a due velocità, da una parte, il settore petrolifero viaggiava a gonfie vele, mentre, dall’altra, gli altri settori arrancavano o erano addirittura esclusi dal processo. Inoltre, durante i processi di riforma dell’economia il governo fu costretto ad adottare anche misure non molto popolari, come tagli ai sussidi e aumenti delle tariffe sulle importazioni e questo non fece altro che acuire le tensioni e i malcontenti interni3. L’elevato tasso di disoccupazione unitamente alle ondate migratorie, provenienti soprattutto dall’Africa subsahariana, produsse negli ultimi anni forti tensioni sociali, che sfociarono in rivolte e attacchi non solo contro immigrati ma anche nei confronti delle istituzioni rappresentative del regime4. Gheddafi allertato dalle rivolte in Tunisia ed Egitto prese delle contromisure a questa situazione economica e sociale interna. In particolare ridusse il prezzo dei beni di prima necessità e il costo dell’elettricità, offrì a molti cittadini la possibilità di rateizzare il pagamento delle bollette, elargì aiuti economici ai neolaureati, aiutandoli soprattutto nell’acquisto della casa (uno dei problemi principali della popolazione libica)5. Il Qa’īd arrivò addirittura a riconoscere

legalmente le occupazioni delle abitazioni in costruzione del governo, che fino a qualche mese prima aveva tanto contrastato ordinando gli sfratti, e annunciò un piano di costruzione di nuove case popolari. Infine ridusse le tariffe doganali sulle importazioni e le tasse sui beni alimentari. È evidente, oggi, che queste misure non riuscirono a creare l’effetto desiderato6.

Il secondo pilastro su cui si basava il regime di Gheddafi era il pervasivo apparato di sicurezza che permetteva di controllare e reprimere oppositori politici, movimenti islamici e mass media. Erano tre gli strumenti principali che usava il regime per assicurare il controllo: esercito, forze paramilitari e servizi segreti. Dagli anni Ottanta, per ridurre possibilità di colpi di stato, l’esercito fu messo lentamente in secondo piano a favore degli altri due. Così facendo strutture come la Guardia Rivoluzionaria, la Guardia Repubblicana e le Brigate di Sicurezza divennero le colonne su cui si reggeva

3 R.B. ST.JOHN, Libya. From Colony to Independence, cit., p. 248. 4 Ivi, pp. 226-228.

5 K. MEZRAN, Perché il colonnello si sentiva al sicuro, in “Limes”, Il Grande Tsunami, n. 1, 2011, pp.

51-56.

6 M. FETOURI, Libya Watches the Neighbours, but Has Problems All Its Own, in “The National”, 1

febbraio 2011, (http://www.thenational.ae/thenationalconversation/comment/libya-watches-the- neighbours-but-has-problems-all-its-own).

la Jamahirīya. Un altro elemento che permetteva al regime di rafforzarsi era il processo basato su alleanze familiari e regionali realizzate attraverso legami matrimoniali tra le famiglie degli ufficiali dell’apparato di sicurezza7. Per quello che attiene alla presenza dei gruppi islamisti nel Paese, situati principalmente nella regione montuosa nord- orientale di Jebel al-Akhdar nella provincia della Cirenaica8, i problemi furono risolti principalmente agli inizi del Duemila grazie alla collaborazione nella lotta al terrorismo con gli Stati Uniti. Anche la città di Bengasi, fulcro negli anni Novanta di una forte opposizione al regime, fu oggetto nei primi anni del nuovo millennio di una vigorosa campagna anti-islamica. Tuttavia, nel 2006 nuove manifestazioni si alzarono in seguito alla pubblicazione delle vignette danesi sul profeta Maometto e il governo di Tripoli fu costretto a intervenire con la forza per evitare che i malcontenti potessero sfociare in vere e proprie proteste. Nel primo decennio del Duemila un importante ruolo di mediazione tra le opposizioni politiche e religiose e l’autorità del regime venne portato avanti da Saif al-Islam9, all’insegna di scarcerazioni, commutazioni di condanne e concessioni della grazia nei confronti di prigionieri politici; nonostante questo però, torture, arresti arbitrari e improvvise scomparse di oppositori continuarono fino al 2011. Infine un altro grande elemento di repressione e controllo era quello adottato nei confronti dei mezzi di comunicazione. La censura era molto forte, ancor di più rispetto a Egitto e Tunisia, basti pensare che in Libia non esistevano altri media all’infuori di quelli governativi e l’accesso a internet, nonostante fosse garantito, era soggetto ad un rigoroso controllo che creava una sorta di autocensura da parte dei cittadini. Anche in questo settore, però, l’opera riformistica del figlio di Gheddafi permise negli ultimi mesi prima della rivolta un calo del controllo e dell’autocensura10.

Il terzo e ultimo pilastro riguardava il complesso gioco di alleanze tra tribù, clan e famiglie. Anche se Gheddafi appena salito al potere aveva cercato di eliminare il sistema clanico-tribale che ha sempre retto la Libia, ben presto dovette fare i conti con la realtà del Paese e dell’impossibilità di distruggere questo sistema semplicemente con la creazione di strutture politiche. Ecco quindi che si ebbe un cambio di indirizzo intorno agli anni Ottanta in concomitanza del crescere del dissenso al regime e allo svilupparsi di tentativi di colpi di stato. Capito che la tribù consentiva di gestire e

7 L. MARTÍNEZ, The Libyan Paradox, cit., p. 97. 8 Ivi, p. 63.

9 R.B. ST.JOHN, Libya. From Colony to Independence, cit., p. 248. 10 K. MEZRAN, Perché il colonnello…, cit.

appianare conflitti e defezioni in seno alla società libica, Gheddafi tornò sui suoi passi facendo ricorso ai clan, ma utilizzando la strategia del divide et impera, rafforzando le alleanze con i capi ma al contempo creando un clima di ostilità tra di loro. Mazzette e privilegi furono alla base della lealtà che legò il leader libico alle tribù, a cui si unì la spartizione di cariche pubbliche alla tribù di Gheddafi, la Qaddafa, e alle tribù Warfalla e Maghariba (successivamente, in concomitanza dei colpi di stato degli anni Novanta, queste ultime due furono escluse da questo sistema)11. Anche i figli di Gheddafi ebbero un ruolo di primo piano nella gestione del potere e delle cariche pubbliche. Fino alla caduta del regime nel 2011 ricoprivano posizioni di alto livello: Saif al-Islam era il simbolo delle nuove generazioni e portatore di valori democratici e liberali; Sa’adi era ritenuto il referente dei rapporti tra Italia e Libia; Muhammad era responsabile delle telecomunicazioni; Aisha era la portavoce di Gheddafi per quanto riguarda la politica estera; Khamis comandava la guardia personale del leader ed era il suo plenipotenziario presso l’esercito e gli apparati di sicurezza12.

Alla luce di queste considerazioni non c’è da stupirsi quindi che in pochi riuscirono a prevedere una caduta del regime dinanzi alle proteste che si alzarono nella prima parte del 2011. Sembrava che i libici accettassero un tacito trade-off, tra le libertà politico- sociali e i relativamente alti standard di vita. A differenza di altri Paesi limitrofi in Libia non era percepibile una grande disuguaglianza economica, facendo credere che questa situazione potesse svolgere un’azione di freno nei confronti di tensioni e rivendicazioni socio-economiche. Inoltre, la retorica rivoluzionaria del leader contro l’imperialismo occidentale e a favore delle lotte d’indipendenza africane e della causa palestinese non dispiacevano a molti libici. Infine, aspetto non irrilevante, tutti gli oppositori politici si trovavano all’estero e questo li rendeva politicamente e finanziariamente deboli13. Molti analisti pensarono che misure volte a contenere e sopprimere l’occorrenza dello stesso fenomeno che colpiva Tunisia ed Egitto tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011 sarebbero bastate ad evitare al Paese la stessa fine dei suoi vicini. Se da un lato le riforme di liberalizzazione economica avviate negli anni precedenti migliorarono relativamente la qualità della vita della popolazione libica, dall’altro trasformarono il regime agli occhi dei libici nell’unico responsabile per la situazione economica, politica

11 A. NICOSIA, Tante tribù e nessuna nazione, in “Limes”, Il grande tsunami, cit., pp. 63-69.

12 K. MEZRAN, Libia. La fine di un’era?, in K. MEZRAN, S. COLOMBO, S. VAN GENUGTEN (a cura di),

L’Africa mediterranea. Storia e futuro, Roma, Donzelli, 2011, p.73.

e sociale del Paese. Azioni poco popolari come tagli ai sussidi o alzamento delle tariffe alle importazioni, tra l’altro mal gestite da una burocrazia inefficiente, sollevarono reazioni negative nella popolazione e misero in discussione il contratto sociale tra regime e cittadini. In questo quadro le contromisure non servirono ad arginare il malcontento e, sulla scia degli eventi tunisini ed egiziani, la rabbia e la frustrazione dei giovani esplose anche in Libia14.