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5.1. L’evoluzione della crisi libica: fra guerre e mediazioni

5.1.1. Una lettura del quadro interno

Per capire la Libia di oggi e forse anche quella di domani si può utilizzare una parola chiave: frammentazione. Formalmente, allo stato attuale, esistono in Libia due governi, ma in realtà si tratta di compagini che più che altro rappresentano due coalizioni di gruppi armati, con scarsissima presa sul già debole apparato statale e senza nessuna capacità di spesa autonoma. Le due alleanze sono sempre più divise al loro interno, hanno strutture decisionali non troppo chiare e leadership di generali senza esercito. A Tobruk, dal punto di vista politico, è in atto un vero e proprio braccio di ferro tra il Generale Haftar e il Primo ministro Al-Thani, mentre la situazione sul campo è ancora più complessa, registrando un’assoluta frammentazione. Haftar comanda soltanto

l’aviazione e i sawhāt, gruppi di civili di Bengasi ai quali ha fornito armi per combattere gli islamisti; frammenti del vecchio esercito di Gheddafi, formati in brigate, rispondono solo a se stesse; i “federalisti”, che si battono per l’indipendenza della Cirenaica, rappresentano un gruppo a parte e sono guidati dall’ex capo delle guardie petrolifere Jadhrān; infine ci sono i “suprematisti tribali” che vogliono ristabilire la primazia delle loro tribù e anche loro rispondono a logiche particolaristiche1. Se questo quadro sembra complicato, è niente in confronto alla Tripolitania. Senza entrare nello specifico dei vari gruppi armati che si fronteggiano in questa regione, oltre all’innalzamento dello scontro all’interno della Coalizione Alba tra Misurata e Tripoli, c’è da registrare la sempre più forte inclinazione dei miliziani di non rispondere agli ordini dei comandanti militari, creando una situazione di vera e propria anarchia. Nell’ovest della Libia la caduta di Gheddafi ha aperto la porta alla “liberalizzazione” del mercato del contrabbando con l’entrata di nuovi attori che hanno creato strutture criminali dedite al traffico di armi, droga, esseri umani e beni sussidiati disponibili a basso costo per i libici. Molti dei conflitti sviluppatisi in questa regione sono causati dalla lotta per il controllo di questi mercati criminali. Infine, a complicare ulteriormente la situazione ha concorso il progressivo sviluppo, da ottobre 2014, dello Stato Islamico, che, dopo aver ottenuto la dichiarazione di fedeltà da parte di Derna, ha condotto operazioni in tutta la fascia costiera libica2.

La rivoluzione del 17 febbraio 2011 in Libia, avviata da un gruppo di dissidenti del regime, si polarizzò attorno a due iniziative, una portata avanti dagli alti funzionari, dai diplomatici e dagli ufficiali in fuga dal regime, che stabilirono il CNT, mentre l’altra condotta da una miriade di formazioni locali, tribali e comunitarie, nate spontaneamente nel Paese, con motivazioni e prospettive diverse fra loro. Col tempo però questi due poli invece di unirsi sono andati via via sempre più dicotomizzandosi, producendo una frammentazione sempre più forte. Questo dualismo contiene le motivazioni di fondo che hanno aperto il conflitto non appena la transizione democratica è iniziata portando al naufragio della stessa. Entrambi gli schieramenti hanno fatto la rivoluzione contro il regime, ma le élites tradizionali l’hanno fatta in una prospettiva di continuità sociale e nazionale, mentre gli altri l’hanno fatta in una prospettiva di cambiamento radicale. Il conflitto libico quindi, alla sua radice, è fra conservatori e innovatori. Tuttavia alcune

1 M. TOALDO, Guida al labirinto libico per evitare di farvi sciocchezze, in “Limes”, Chi ha paura del

califfo, n. 3, marzo 2015, pp. 29-30.

caratteristiche della società libica e del processo di transizione hanno impedito a questi due schieramenti di acquistare la necessaria omogeneità e di creare assieme il terreno costituzionale nel quale competere democraticamente. È prevalsa la frammentazione e il desiderio di entrambi gli schieramenti di escludere gli altri3. Queste caratteristiche, dopo due anni di forti tensioni e lotte all’interno del CNG, nonché scontri tra forze armate nel Paese, hanno portato alla formazione di due coalizioni eterogenee, tenute assieme più da interessi di potere che non da veri e propri programmi politico-ideologici: “Dignità” rappresentativa dei conservatori e “Alba” rappresentativa degli innovatori.

I fattori che hanno concorso a questa evoluzione sono molteplici. Il primo di questi sicuramente è da far risalire al quarantennio di dittatura gheddafiana che ha impedito ogni forma di aggregazione socio-politica ed ha promosso una società divisa e conflittuale generando una strutturazione politica arretrata e un vuoto di organizzazione statale. Il secondo fattore invece riguarda la condotta della politica libica durante gli anni di transizione, nei quali è stato portato avanti un approccio consociativo, visibile sia nelle elezioni del 2012 e del 2014 sia nell’attribuzione delle cariche istituzionali. Questa pratica, in contrasto con il suo obiettivo di rappresentatività delle istanze particolari e di unità nazionale, è stata funzionale al mantenimento della frammentazione della società libica e delle sue lealtà tradizionali. Il terzo fattore concerne il sistema di sicurezza “ibrido” che si è affermato nel Paese, prodotto della primazia delle lealtà locali e del “power sharing” consociativo fra le fazioni al governo4. Le forze di sicurezza e di difesa dello Stato libico si sono trovate ad essere formate al tempo stesso da una componente nazionale e, in parallelo, da varie componenti partigiane, tutte al servizio di cause particolari. Il quarto fattore può essere legato ad alcune specificità della “rivoluzione libica” del 2011, fin da subito caratterizzata per essere una rivolta armata, sorretta in buona parte da interventi esterni e lungamente contraddistinta per avere chiari contorni da guerra civile. Infine, come ultimo fattore, bisogna elencare le mancanze della Comunità internazionale in campo politico durante la fase di transizione, nonostante invece sia stata la responsabile principale che ha portato alla caduta di Gheddafi tramite l’intervento militare a guida NATO. Ad esempio in Libia si è attivato troppo presto un processo di transizione basato

3 W. LACHER, Fault Lines of the Revolution. Political Actors, Camps and Conflicts in the New Libya,

in “SWP Research Paper”, n. 4, Berlin, maggio 2013, p. 13.

4 F. WEHREY, What’s Behind Libya’s Spiraling Violence, in “Washington Post - Monkey Cage

(blog)”, 28 luglio 2014 (http://www.washingtonpost.com/blogs/monkey-cage/wp/2014/07/28/whats- behind-libyas-spiraling-violence/).

su elezioni anziché su un tentativo di costruzione delle istituzioni e di rafforzamento dello Stato di diritto, possibilmente accompagnato dalla Comunità internazionale; è mancata in pratica una fase di “Nation building” nella quale si sarebbe dovuto discutere di come costruire la nuova nazione libica5. Il concorso di questi molteplici fattori ha messo la classe politica nelle mani delle milizie e dei loro obiettivi partigiani, prevalendo in questi intrecci le convenienze più varie.

Per ricapitolare, il conflitto che attanaglia oggi la Libia è iniziato come un conflitto tra conservatori e innovatori ma si è evoluto come un conflitto fra centri di potere formati da forze politiche e militari eterogenee e tra loro frammentate. Frederic Wehrey, analista americano che segue molto da vicino gli sviluppi in Libia, ha definito il conflitto libico, alla sua radice, come una questione intensamente locale, basata su reti di patronato profondamente radicate che si battono per accaparrarsi risorse economiche e potere politico in uno Stato afflitto da uno stupefacente vuoto istituzionale e dall’assenza di un arbitro centrale dotato di una forza preponderante6. Questa definizione fotografa bene la natura attuale del conflitto, ma ulteriori precisazioni devono essere fatte per poter descrivere nella sua completezza la situazione libica. Mentre la definizione di scontro tra conservatori e innovatori è in linea con quanto pensa la maggior parte degli analisti del conflitto libico, i media e i governi (e quindi di riflesso l’opinione pubblica) percepiscono l’esistenza di un conflitto primariamente tra islamisti e non islamisti. Questo secondo scontro esiste, ma è in realtà una dimensione secondaria di un conflitto la cui natura fondamentalmente è diversa. Una breve considerazione sul ruolo dell’islamismo però è importante per due ordini di ragioni: la prima in funzione di una più completa definizione della situazione libica, mentre la seconda per chiarire come questo conflitto si posizioni nel più ampio spettro dei conflitti regionali in corso e dove l’islamismo gioca un ruolo rilevante ed essenziale. La grande maggioranza dei libici, moderata dal punto di vista religioso ma molto conservatrice, desidera che la Sharī’a figuri nella Costituzione, creando una sorta di equilibrio tra la legge islamica e le altre fonti del diritto. Per contro, uno Stato Islamico di Libia è ciò a cui tendono gli islamisti radicali e i jihadisti, ma in questo caso la Sharī’a sarebbe l’unica fonte del diritto. Perciò, mentre non esiste in Libia una contrapposizione come in

5 A. VARVELLI, Crisi libica: tra tentativi di mediazione e conflitto aperto, in “Osservatorio di Politica

Internazionale”, n. 51, gennaio 2015, p. 2.

6 F. WEHREY, Ending Libya’s Civil War. Reconciling Politics, Rebuilding Security, in “Carnegie

Siria tra un regime “laico” e gli islamisti, il confronto che esiste è tra religiosi di varia intransigenza, dai Fratelli Musulmani ai jihadisti, e religiosi secolarizzanti e tolleranti, tutti gli altri. Chiarito questo punto, c’è da chiarirne anche un altro, ossia il fatto che le due coalizioni libiche che si fronteggiano sul territorio non coincidono esattamente con questa distinzione. La coalizione dei conservatori è fatta pressoché interamente di gruppi e personalità che si riconoscono nell’Islām ma che hanno di fatto un orientamento secolarizzante, per contro quella degli innovatori ospita gruppi e personalità di orientamento misto, non necessariamente simpatizzanti della Fratellanza Musulmana o di altri gruppi islamisti (è il caso della città di Misurata)7. Inoltre occorre sottolineare come esista un’ulteriore macro distinzione nello schieramento delle forze islamiste, ossia quello tra la Fratellanza e i jihadisti, quest’ultimi con organizzazioni separate dalla prima e con pratiche politiche e militari estreme. In realtà è difficile tracciare chiaramente una discriminante tra islamisti e jihadisti, in quanto le circostanze attuali fanno propendere verso un’alleanza tra i due schieramenti in funzione dell’opposizione ad Haftar. La contrapposizione tra islamisti e non islamisti è diventata nell’ultimo periodo di grande rilevanza poiché viene usata a fini propagandistici volti a rafforzare politicamente e militarmente le due coalizioni, influendo quindi sull’appoggio esterno. Mentre la prima definizione del conflitto libico come conflitto tra conservatori e innovatori, trasformatosi in scontro tra coalizioni con interessi eterogenei, è analiticamente corretta ed è utile al fine della promozione di politiche verso la Libia, la seconda definizione riguardante il conflitto tra islamisti e non islamisti coglie una dimensione rilevante, ma porta con sé ambiguità e rischi in quanto può comportare scelte politiche e militari che potrebbero non corrispondere ai reali interessi dei governi che le perseguirebbero8. È importante quindi capire che nel conflitto libico esistono forze potenzialmente democratiche e moderate in seno all’islamismo alle quali è interesse dell’Occidente offrire una sponda e la possibilità di distinguersi dagli islamisti radicali.

In merito alle due coalizioni che si fronteggiano sul territorio libico un altro sviluppo significativo riguarda il rapporto tra i militari, le forze politiche e la società civile. Lo stato di guerra e il potere che le milizie hanno acquisito nel corso della transizione post- rivoluzionaria hanno dato ai militari un importante margine di preminenza sui politici.

7 R. ALIBONI, L’evoluzione in Libia: fra guerre e mediazioni, in V. BRIANI (a cura di), Focus

Euroatlantico, Istituto Affari Internazionali (IAI), n. 8, novembre-dicembre 2014, pp. 6-7.

La valutazione del rapporto fra civili e militari nelle due coalizioni passa attraverso l’evoluzione e la strutturazione dei rispettivi settori di sicurezza. Come visto in precedenza la sciagurata politica consociativa ha portato alla realizzazione di un sistema di sicurezza ibrido o dualistico che ha contribuito a minare le istituzioni9. Entrambi gli schieramenti hanno privilegiato, più o meno opportunisticamente, le milizie, ma mentre il rapporto dei rivoluzionari con il settore della sicurezza formale (i militari del passato regime) è stato di esclusione, quello dei conservatori è stato più pragmatico e collusivo. Il rapporto tra civili e militari nel corso della guerra civile si è evoluto, con un forte impatto sugli sviluppi del conflitto stesso. Mentre nella coalizione di Tobruk questo rapporto si è sviluppato a favore di una preminenza dei militari, che si è tradotto in una forte alleanza con le potenze anti-islamiche della regione e un approccio intransigente verso l’altra coalizione, nonostante il tentativo al-Thani di gestire il rapporto fra civili e militari su una base di equilibrio, nell’altra coalizione, sebbene i leader militari e gli intransigenti della rivoluzione e dell’islamismo mantengano il potere, alla base si sta sviluppando un movimento della società civile che si muove verso il dialogo e apre nuove opportunità di pacificazione (queste azioni si stanno sviluppando principalmente da Misurata10). Entrambi gli schieramenti appaiono perciò spaccati fra “duri” e

“moderati”11. Questa divisione all’interno dei due campi è inasprita dal fatto che la bilancia militare non dà segni di pendere da una parte o dall’altra, contribuendo allo

status quo della situazione. Questa evoluzione, nell’insieme, può essere un ostacolo alla

mediazione, ma allo stesso tempo apre anche forti opportunità di sviluppo.