Attivo Architettura presso il Archite esigner e poi co esign anesi lo “S anes po d
Elaborazione di un progetto
Partirei dal Politecnico di ilano, dove sei stato tra gli altri allievo di Castiglioni. i puoi parlare di quegli anni?
Ricordo tutte le materie legate alla scientificità e quindi il corso di Nardi, il professore che insegna- va Tecnologia, o quelli di Lucio Stellari ed Angiolini che insegnavano Urbanistica, mentre trovavo repellenti i corsi di Composizione architettonica. Ricordo chiaramente gli insegnamenti di Achille Castiglioni.
a Facoltà di Architettura che hai frequentato comprendeva discipline come Progettazione architetto- nica, rbanistica, Arredamento, isegno industriale all interno di un unico percorso quinquennale di studi adesso ci sono i corsi triennali e quelli specialistici e soprattutto una divisione tra corsi di laurea in isegno industriale, in Architettura degli interni, in rbanistica etc. Che visione hai dell insegna- mento del progetto in ambito universitario?
Secondo me la Facoltà di Architettura dovrebbe continuare a dare un’idea e una conoscenza molto più ampia e soprattutto più umanistica. Non credo a una divisione specialistica. Abbiamo bisogno di essere più colti, non più specializzati.
Se disegno un’opera d’architettura, devo conoscere anche quello che ci sta dentro, altrimenti mi limito alla pelle degli edifici. A ritroso, se inserisco l’edificio all’interno di uno zoning completamente sbagliato, rischio di disegnare un
edificio sbagliato nel posto sba- gliato: dovrei essere in possesso di qualche conoscenza di urba- nistica… e così via. Se vuoi pos- siamo fare collegamenti fino ad arrivare alla grafica. Posso capire un microchirurgo che deve lavora- re in maniera meticolosa per far tornare il movimento di una mano, qui posso comprendere l’idea di specializzazione. Un eccellente cardiochirurgo non deve perdere tempo sulle altre cose perché è una questione di incredibile livel- lo di sofisticazione. Tuttavia se un cardiochirurgo prima non fosse un buon medico, saremmo fregati. A quel punto potremmo costruire un robot per fare quel mestiere. Ci stiamo forse “robotizzando”? L’errore colossale che stiamo commettendo è il tentare di segui-
re un’idea specialistica d’impronta anglosassone: un designer è un designer e un architetto è una storia diversa. Io onestamente preferivo la Facoltà quando era più colta, più incasinata, più sporca più massacrata, ma più colta. Secondo me le facoltà attuali sono molto ignoranti. Forse dobbiamo avere il coraggio di dire che le facoltà d’Architettura per poter funzionare hanno bisogno di numeri chiusi durissimi. Le nostre facoltà d’Architettura sono diventate una specie di mare-magnum di stu- denti; quando poi vai a vedere in quanti arrivano alla laurea capisci che c’è bisogno di una maggiore selezione. Se su cento persone se ne vanno a laureare il 25% vuol dire che il 75% si parcheggia. … e che si vada a parcheggiare da un’altra parte!
La facoltà dovrebbe avere spazi corretti, strutture corrette e tempi dei professori adeguati nel rap- portarsi agli studenti. Io non voglio fare un discorso elitario né ho una visione classista dell’insegna- mento, ma ho una visione basata sul merito e sulle risorse; se le risorse sono queste mi piacerebbe che fossero utilizzate nel modo migliore.
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Cosa lega in un ottica multidisciplinare le varie scale e i vari aspetti del processo progettuale?
È sempre un problema di connessioni. Guardiamo al lavoro di Charles e Ray Eames che per anni hanno sostenuto il concetto di connessione. La loro parola d’ordine in tutti i seminari, in tutti i libri è sempre stata connection, connection and connection. Questo accadeva negli anni 50. All’alba del
2010 invece sento parlare di disconnessione... permettimi di ridere.
orniamo al tuo percorso, subito dopo la laurea, prima dell apertura del tuo studio, quali le tue prime mosse? ai iniziato a proporre i tuoi progetti alle aziende?
No, quello no. Da questo punto di vista ho avuto una serie di incontri fortunati, considerando il mio atteggiamento piuttosto aristocratico. Non sono mai andato in giro a propormi. Ho cominciato grazie ad alcuni miei conoscenti dell’epoca, che poi sono diventati miei clienti. Mi hanno cercato loro, per mia grande fortuna.
Questo grazie a quali canali?
Lavoravo come free-lance, un po’ per alcuni studi milanesi, un po’ per delle aziende della Brianza; quando mi sono messo sul mercato, alcuni di loro si sono ricordati di me. Ho cominciato da lì.
Subito dopo la laurea, hai conosciuto Paolo Boffi; come inizia il tuo rapporto con Boffi?
Avevo lavorato alla modellazione di prodotti per un’azienda che si chiamava CasaKit. Paolo Boffi, con la Boffi dell’epoca, doveva produrre le cucine per CasaKit. Quando mi sono messo a lavorare in proprio, Paolo sapeva della mia disponibilità e mi ha proposto di cominciare a lavorare per la sua azienda. Sono passati 22 anni da quel giorno.
Ci sono ancora imprenditori che hanno la forza di Paolo Boffi o che comunque hanno la voglia di credere nei progetti, di portare avanti le idee?
Secondo me sì, soprattutto in Italia. Devo dire che, a differenza di un sacco di altri paesi, l’Italia continua ad avere questa caratteristica veramente stupefacente in positivo, di imprenditori che si prendono dei rischi colossali e investono, molto spesso, su energie sconosciute, su volti nuovi e non solamente su nomi affermati. Alcune volte li scoprono, altre volte li costruiscono, qualche volta li di- struggono, però questo fa parte delle regole. Ed è una caratteristica molto italiana perché le aziende
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ell hai aperto il tuo studio insieme a icoletta Canesi...
Nicoletta è stata la mia socia operativa e fondatrice con me dello studio. Continuiamo, a distanza di anni, a lavorare assieme, lei si occupa adesso dello sviluppo del mercato americano. Già nel lontano 1986 oltre a lavorare per Boffi, che è stato il nostro primo vero cliente, abbiamo sempre cercato di allargarci sul mercato internazionale… ed eccoci qui.
All inizio vi occupavate molto pi di design rispetto all architettura che sempre di pi ha preso campo negli ultimi anni?
Ma sai, il problema dell’architettura in Italia è sempre quello: o ti vendi e qualcuno ti compra, nel bene e nel male, oppure fai una vita d’inferno facendo i concorsi. Sopravvivere costruendo architettura in un paese come il nostro è secondo me molto, molto difficile. Gli architetti della mia generazione che costruiscono sono pochissimi, forse Cino Zucchi, Stefano Boeri e poi? abula Rasa. Si contano su una sola mano quelli usciti dalle università che poi hanno fatto davvero gli architetti. Io ho deciso di fare design perché è un mestiere più diretto, funzionante e pulito. Ti pagano se fai un buon prodotto, altrimenti sei fuori.
Poi sono tornato al primo vero amore, quello per l’architettura. Devo confessare che ero molto spa- ventato dal fare l’architettura perché gli architetti sono nel 99,9% dei casi, molto pericolosi, direi come la peste. Poi ho pensato che non sarei mai riuscito a fare più danni di quanti fanno alcuni miei colle- ghi, neanche mettendomi d’impegno. Era giunto per me il momento di fare l’architetto.
L’attività del tuo studio abbraccia varie discipline parallele: arredamento. grafica, pubblicità, design e architettura. C un diffe-
rente approccio progettuale o la fase di ideazione co- mune?
C’è un tavolo progettuale puro, chiamiamolo ideologi- co, che è il mio e che non delego a nessuno, che sia la parte creativa primaria di grafica (nella grafica il mio ruolo è più di Art Director) o che sia la parte creativa nel design, che invece se- guo passo passo. Non mi occupo del passaggio dalla discussione creativa a una discussione di sviluppo: guardo la prima parte del processo e poi vedo l’ulti- ma, quando il progetto è quasi finito.
Quindi comunichi sempre attraverso schizzi o bozzetti?
Sì, disegno rigorosissimamente su carta, con delle penne banali senza nessuna velleità, senza voler catalogare ciò che faccio. Ricordo che tantissimi anni fa vidi una retrospettiva su Aldo Rossi alla Triennale, quando Aldo era ancora vivo. Mi sembrò di visitare un cimitero perché tutto quello che c’era dentro, perfino le prime lettere, i primi appunti (ti parlo del 1958/ 60), sembrava preparato per essere messo in un’esposizione.
I miei disegni nascono per trasformarsi in altri disegni che poi a loro volta si trasformeranno in prodotti
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o architetture. Sono il primo atto per definire la base di un progetto e rimangono rigorosissimamente stabili. Se il prodotto finale si discosta di molto, vuol dire che sto sbagliando direzione. Se invece non si discosta per nulla, i casi sono due: il progetto è azzeccato oppure totalmente da buttare via.
Nell’evoluzione del tuo linguaggio, col passare degli anni, quali rimangono i punti fissi del percorso progettuale?
Credo che ci sia sempre un aspetto molto semplificato nei miei progetti e nelle mie realizzazioni. Io credo che la semplicità sia, se vuoi, la faccia pubblica della complessità, con un pensiero complesso alle spalle e il tentativo di portarlo alla luce col linguaggio più semplice, più chiaro, più puro possi- bile.
na delle tue frasi bisogna tornare a dare importanza alla parte poetica della vita credo che ce ne sia davvero bisogno, ma non ti sembra che il mondo vada in tutt altra direzione?
Sono cresciuto in un luogo straordinario per alcuni versi, con degli interlocutori ancora più straordi- nari, ma tra le cose che mi facevano drizzare il pelo sulla schiena c’erano le voci che dicevano: “Per favore non facciamo progetti con la poesia” oppure “ asta con la poesia”. Ecco, ogni volta che ho
sentito questa frase, ho pensato tra me e me “la persona che l ha pronunciata la persona sbagliata
per me”.
La poesia è un concetto talmente sofisticato, talmente profondo, talmente intoccabile, che anche nei suoi momenti più scarni, più secchi non puoi viverne senza. Un progetto deve avere la capacità di scarnificare fino all’osso, ma avere la forza della poesia dentro, sennò siamo nel mondo dell’imi- tazione. Credo che ciascuno di noi passi quotidianamente attraverso il mondo dell’imitazione, della modificazione di progetti già fatti da altri. È nella natura delle cose. Poi sei tu che con la tua poesia, modificando e riducendo all’essenziale, torni a dare un linguaggio. Quando parlo di poesia in realtà parlo di mestiere. Richiamo quotidianamente l’appartenenza ad un mestiere. Quando mi dicono che creo delle opere m’infurio come un toro lanciato nell’arena; faccio un mestiere, lavoro e sono pagato
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per farlo, guadagno da vivere con quello e non faccio “opere”. Tra cinquanta o cento anni, ammesso che qualcuno dei miei progetti esista ancora, qualcuno deciderà se si tratta di “opere”, ma oggi non è un mio problema.
Tracci un confine nei rapporti tra design e arte…
Se osservi un diamante da vicino, noterai che ha tante sfaccettature. Anche il design ha tante sfac- cettature, è un mondo talmente ampio. Se tu lo prendi nella sua accezione letterale, design vuol dire disegno, quindi una cosa, può essere fatta come pezzo unico oppure può essere fatta in serie, seguendo l’altra produzione del design che è l’Industrial Design. Quando penso al design, non lo immagino senza la parola Industrial davanti.
Mi succede di disegnare a volte dei pezzi unici: talvolta in una casa particolare inserisco un elemento d’arredo unico, più per divertimento che per necessità di farlo. Tutto quello che esiste in produzione è, in realtà, molto più bello di quello che poi disegno.
i piace molto questo approccio, il lavorare con molta modestia senza mai pensare che ci che si fa debba necessariamente passare alla storia.
Adesso trovi autori che diventano, grazie ai giornalisti, immediatamente geniali, anche dopo aver disegnato un solo pezzo o aver fatto un piccolo edificio. Sono pubblicati con i connotati del genio, ragion per cui alcuni designer diventano viziati e pestiferi, peggio delle locuste (per rimanere in tema biblico). Il problema è che siamo diventati dei mostri della comunicazione. La verità è che siamo usciti dal modello critico del nostro lavoro.
Mi chiedo allora qual è il tuo rapporto con una evoluzione scenografica del Salone del mobile, con questo trasformare ogni volta il progetto in evento...
L’evento fa sempre parte degli schemi di comunicazione. Il problema è stabilire quando un fine ha bisogno dei mezzi e invece quando un mezzo diventa il fine. Se si crea confusione, se il mezzo viene trasformato in un fine, cominciamo ad avere dei problemi.
Non ho una visione moralistica, mi chiedo sempre fino a che punto alcune cose che facciamo siano sensate…
Una domanda su tre personaggi che tu hai incontrato nella tua carriera: Paolo Boffi, di cui non mi hai detto granch , iulio Castelli della artell e Achille Castiglioni. i puoi dire qualcosa del rapporto che hai avuto con ognuno di loro?
Paolo Boffi è stato e continua ad essere una sorta di padre putativo, con lui ho un rapporto qualitativo quotidiano. Ho conosciuto Giulio Castelli con Kartell di recente; a dire la verità ho sempre lavorato più con Claudio Luti. Castelli è per me un uomo al di sopra delle parti, un uomo di un’altra epoca, nel senso positivo del termine, molto preciso, alcune volte anche molto duro, però con una bellezza fuori dal tempo. Direi la stessa cosa di Achille Castiglioni, che mi ricordo da studente, una specie di uomo mitologico, divertente, brillante. Poi l’ho incontrato da professionista tramite Kartell e Flos in situazioni differenti: mi sono trovato davanti un uomo bello, come essenza, come umanità. Mi ricordo di una volta a Parigi al Centre Pompidou dove c’era la mostra del percorso storico di Kartell. Ad un certo punto, durante la presentazione, lui mi disse: “dai, andiamo a fumare”. Quest’uomo di ottantatré anni sapeva che anch’io fumavo e siamo usciti per una sigaretta. Questo può sembrare un episodio di una banalità sconfortante ma a me ricorda invece di come, di fronte a un certo livello di ufficialità, la cosa che ad Achille importava era trovare un complice, una scusa per una piccola fuga.
Con chi dei tuoi colleghi, della scena milanese del design, hai dei buoni rapporti e chi hai mai sentito come un tuo compagno di viaggio, cio come qualcuno che faceva pi o meno il tuo stesso percor- so?
In realtà non ho cattivi rapporti con nessuno. Ho eccellenti relazioni con Michele De Lucchi, Aldo Cibic, Alberto Meda e forse più conoscenze con il mondo straniero, però nutro tutto il rispetto per i miei colleghi milanesi. Poi naturalmente molto spesso lavoriamo come concorrenti allo stato puro. Quando guidi una macchina di Formula Uno è difficile che esci a cena con il pilota di una scuderia
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concorrente, ma rimane un grandissimo rispetto reciproco. Posso dire di essere in costante conflitto progettuale e professionale con Antonio Citterio, eppure sento ogni volta che ci troviamo un profondo rispetto reciproco e credo che questo valga più di tutto.
Tanti di loro sono dei meravigliosi compagni di viaggio; ci scambiamo delle informazioni e, quando
c’è bisogno, ci chiamiamo. Un mio grande amico è Fabio Novembre, che è completamente diverso da me. Se ho delle cose che non mi tornano chiare, chiamo Alberto Meda. Se mi trovo a cena con Alessandro Mendini non faccio uno scambio di cortesie settecentesche, il classico minuetto con il coltello sotto il tavolo, tra di noi c’è la voglia di chiacchierare, di raccontarci delle cose. Alessandro più di tutti sa raccontare delle storie incantevoli.
Ho conosciuto Vico Magistretti, un uomo di impeccabile signorilità; ho avuto un eccellente contatto con Ettore Sottsass (sono stato tra gli ultimi a chiedergli un progetto nel 2005 che lui mi ha preparato per il 2007, purtroppo è morto qualche mese prima della presentazione). Queste sono le cose belle del piccolo mondo milanese: quando poi torniamo in pista, non guardiamo più in faccia a nessuno.
n questo per ti riferisci alla tua generazione e non alle generazioni che ti hanno preceduto?
Chi ci ha preceduto non si è comportato differentemente: la generazione dei Magistretti, Castiglioni, Sottsass, Zanuso, ha cancellato due generazioni successive. Noi gli siamo sfuggiti: Antonio Citterio ed io, più qualcuno degli ex-associati dello studio Sottsass, De Lucchi, Cibic, Thun. I nostri padri come minotauri non hanno esitato a mangiare le generazioni vicinissime alle loro. Anche noi non siamo poi migliori di loro di fronte a probabili antagonisti per il futuro. Mi è capitato infatti di andare a cercare qualche giovane talento: ho lanciato alcuni di questi nel mondo del mercato, qualcuno poi l’ho lanciato dalla finestra (è una storia vera).
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ultima domanda che ti volevo fare guarda al futuro del design, a ci che il design sarà nei prossimi anni. Ci sono sempre pi giovani che si avvicinano a questo mestiere, ma sempre meno industrie pronte ad accoglierli.
Il problema è rimasto invariato nel tempo, la quantità è sempre la stessa, è solo un problema di qualità. Nel Rinascimento, le corti italiane erano poche decine, con pochi artisti a disposizione tra