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Nel documento Pane e progetto. Il mestiere di designer (pagine 181-200)

conosciuto tutti i grandi architetti, come ran lo d right, alter ropius e ies van der ohe. on sono mai stato molto vicino a

right perch non mi considero un organico, ma era un uomo di grandi qualit , piccolino, simpatico e vivace. Viveva a Taliesin Est per- ciò con gli studenti e gli altri professori abbia- mo organizzato dei viaggi in macchina per in- contrarlo e sentire cosa aveva da raccontarci. Conoscerlo mi ha fatto capire a posteriori che il periodo che stiamo vivendo è povero di cul- tura, dopo di lui infatti l’architettura e il pensie- ro americano si sono quasi annullati, anche se tra lui e Mies ho avuto più influenza da Mies. Chicago in quel periodo era un punto di riferimento non solo per l’architettura, ma anche per il design, tutti arrivavano in questa città, per questo per me è stato un contatto estremamente ricco e utile che ha influenzato tutta la mia vita. una domanda postami tempo fa nella quale mi si chiedeva quali fossero stati i miei maestri risposi di non averne, o meglio, posso dire di avere conosciuto durante la mia esperienza in America persone deliziose. Non c’è dubbio che la conoscenza di personalità così forti mi abbia porta- to ad innamorarmene, ma come eonardo abbandonò la bottega del suo maestro Verrocchio, perch non voleva diventarne un imitatore, io, tornato in Italia, ho cercato di fare quello che potevo fare alla mia età. Non volevo copiare anche se inevitabilmente la prima opera che ho realizzato tornato da Chicago, la Chiesa Mater Misericordiae a Baranzate del 1957, risente dell’influenza di Mies. Essa risulta infatti abbastanza schematica e ad un primo sguardo come una scatola metallica.

li anni iniziano con uno dei suoi progetti pi amati e credo anche pi diffusi che il tavolo ros . Quanto il suo rapporto con la scultura ha influenzato i suoi progetti di design o viceversa?

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Il mio rapporto con la scul- tura e con il design si basa sulla conoscenza dei ma- teriali antichissimi, ma an- che nuovi, e delle tecnolo- gie che permettono di cre- are forme che prima non c’erano, anche se esistono limiti che non dipendono dallo strumento. ispetto al design la consapevolez- za sulla scultura è arrivata dopo, come se fosse ma- turata nel tempo insieme ad una sorta di correttezza dei materiali, della tecno- logia e dell’aspetto forma- le. Con la scultura ci sono andato molto piano perch ho sempre avuto un po’ di timore del fatto estetico fine a se stesso. Ad esem- pio, non si può fare una scultura partendo dall’idea di creare un vaso, indipen- dentemente dal fatto che il vaso abbia una propria funzione che la scultura non ha. Per capire questo ci ho messo sessanta anni. a scultura rimane comunque un settore dove bisogna essere autocon- trollati ma allo stesso tempo è un settore rischioso. In genere le mie sculture sono forme astratte, non figurative, che seguono il materiale e cercano di esprimere qualcosa. Parlando del tavolo “Eros” e del principio che sta alla base della sua forma, non c’è nulla di artificiale. La materia in questo caso è per me un elemento determinante.

Ho sempre saputo che se non fosse stato di marmo non lo avrei potuto realizzare. Le stesse con- nessioni si ritrovano nella realt , maschio e femmina non li ho inventati io, ho semplicemente ripreso questa connessione rendendola tangibile attraverso la materia. La distinzione tra scultura e design è sempre da sottolineare.

Un oggetto di design deve avere caratteristiche, se così si possono definire, oggettive. Io faccio spes- so l’esempio del bicchiere. Secondo me un bicchiere non sarà mai una scultura per bere. L’idea del bicchiere nasce da una serie di bisogni con cui è necessario confrontarsi, tante piccole caratteristiche che lo rendono un buon oggetto di design per l’uso che se ne deve fare; ad esempio, come impu- gnarlo, come tenerlo in mano, come versarci il liquido dentro. Per qualsiasi tema avessi un interesse ho sempre cercato di affrontarlo in ogni campo, in architettura, design e scultura; ad esempio, il tema del giunto affrontato nel progetto per il Cub8 del 1967 è ribadito qualche anno dopo proprio nella serie di tavoli in marmo “Eros”. Due pezzi di marmo che sagomati, appunto, stabiliscono un rapporto tra di loro che funziona molto bene ed è forse la connessione migliore che abbia creato. Ho sempre creduto nelle connessioni. In questo caso un oggetto come il tavolo “Eros” affine alla scultura per il tipo di materiale impiegato allude ad una sorta di connessione anche umana.

el l apertura a o io della angiarotti Associates rappresenta un altra svolta della sua carrie- ra. Lei è stato definito “il più giapponese degli architetti italiani”, ma a mio parere la sua pulizia formale nasce ben prima dell esperienza giapponese…

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Il rapporto con il Giappone è cominciato quando ho conosciuto Ichiro a ahara, il quale venne nel mio ufficio. Non ho mai avuto un particolare desiderio di andare in Giappone, ma grazie alla collaborazione con Ichiro entrai in contatto con la apan oundation e nel 8 nacque la angia- rotti ssociati.

È stata un’esperienza di grande interesse, dove qualità dei mezzi disponibili, progettualità, parte- cipazione dell’utenza avevano creato risultati di interesse estremo.

Nella mia permanenza a Chicago ho iniziato ad interessarmi e a capire il significato e l’importanza delle Baloon Frame (profili standard in legno mas- siccio che erano usate nelle citt e nelle campa- gne, per parti di edifici o interamente, nelle costru- zioni connesse con l’agricoltura. In quel periodo cominciai a disegnare la casa di San artino di Castrozza. Il luogo dove avrebbe dovuto sorge- re era circondato da un’abbondanza di boschi e rocce, così, insieme alle maestranze locali, per la realizzazione utilizzai i materiali che qui si trova- vano in abbondanza: il legno e la pietra. Se para- goniamo questa abitazione con le case Minka, le differenze sono evidenti, ma nonostante ciò esi- stono alcuni punti in comune tra esse: il metodo di selezione dei materiali, in particolare quelli locali così come la manodopera.

Non era mia intenzione realizzare una casa in stile giapponese, anche se il risultato finale in un certo senso mostra la vicinanza di pensiero. L’esperien- za del progetto di San Martino accadeva ancor prima che io venissi a conoscenza dell’esistenza della casa in a, quindi ancora oggi quando ven- go definito “il più giapponese degli architetti italia- ni”, non so spiegarne le ragioni, o per lo meno non possono riferirsi a questo esempio.

Ricordo un episodio che è successo molti anni fa, che ancora oggi considero un messaggio per l’architettura contemporanea, anche se andrebbe adattato ai mezzi e alle funzioni. Passeggiando per Kyoto, in una zona di sole case Minka, insie- me ad un mio caro amico, abbiamo notato una giovane signora intenta a smontare un pannello grigliato in legno, del suo ingresso di casa, che era stato quasi distrutto dal figlio vivace. Abbiamo se- guito la signora che, entrata in un negozio vicino, dove si vendevano parti per la casa, ha acquistato un pannello grigliato simile al suo. na volta tornata a casa, la signora ha smontato da sola il vecchio pannello e in poco tempo ha sistemato il nuovo.

Ichiro Kawahara non è stato l’unico giapponese a lavorare con me, dopo di lui la collaborazione è andata avanti e molti altri giapponesi hanno collaborato con il nostro studio. Tutti coloro che hanno lavorato in studio si sono sempre sentiti come a casa e anche io mi sono trovato bene con loro, cosa che invece non è successa con gli americani e a volte con gli italiani stessi. Questi rapporti prose- guono ormai da oltre quarant’anni e non credo ci siano altri studi in Italia che abbiano mai intrapreso relazioni così durature con gli architetti giapponesi. Per me la collaborazione tra Italia e Giappone è

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una relazione pura ed è fortemente basata sul rapporto umano che considero importante e non ha niente a che vedere con il lavoro e la politica.

Parliamo della sua professione di designer. C una stupenda modernità nel suo fare progettuale, trovo che i suoi progetti non abbiano mai avuto una caratterizzazione formale che li lega al tempo in cui sono stati creati. Ci mi fa pensare che le sue fonti di ispirazione siano estranee ai fenomeni artistici. Come avviene il processo di generazione delle idee?

Quando affronto un progetto di design, devo sapere a cosa serve, non credo infatti nei lavori che nascono senza una funzione apparente, sarei completamente vanesio nel volere realizzare qualcosa di assolutamente astratto. Questo per me è un tipo di design pericoloso. Se mi chiedono di fare una cosa che mi sembra abbastanza logica sono sempre attento ai materiali con cui la realizzo, come e se è corretta dal punto di vista formale. Disegnare un oggetto può essere design, posso disegnare un vaso, un bicchiere o un coltello e questi oggetti sono corretti se funzionano come tali. Non è facile togliere la fisicità del prodotto da quello che può essere un fatto culturale. Riprendendo l’esempio

del bicchiere, la sua funzionalità si traduce in una forma dove tutti i suoi accorgimenti progettuali determinano un buon rapporto di design. Tali accorgimenti per esempio si traducono in una posizione ergonomica corretta per il pollice che impedisce al ghiaccio di uscire dal bicchiere. Il fatto formale

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è dunque fondamentale anche se la pura forma non è più design. Una volta nel design spontaneo, quello fatto dalla gente e non dagli architetti e oggi dai designer, l’uso dell’oggetto era determinante nello sviluppo della sua forma.

È difficile che io adoperi un oggetto senza sapere quale sia la sua funzione e come deve essere usa- to, mi pare talmente ovvio che se adopero una zappa non posso tagliare i fiori. È determinante se non esclusiva questa ragione di rispettare e favorire l’uso del materiale e della funzione che l’oggetto ha; non è niente di particolare, si può infatti tagliare una torta con un coltello qualsiasi, ma è comunque pi corretto e pi gentile usare un coltello pi appropriato con il quale ci si renda conto che quello che va a toccare sono le tre dita, lo stesso vale per la forchetta che va adoperata in un certo modo (posate serie ergonomica, 1990).

Le forme sono più attente non alla forma fine a se stessa, ma alla funzione e all’uso che di tale ogget- to viene fatto. Un altro esempio può essere l’orologio “Section” in cui la riduzione delle dimensioni è giustificata dalla diminuzione del volume delle batterie; si tratta di piccoli accorgimenti tecnologici che danno la posizione più corretta e attuale dell’oggetto. Con un principio simile nasce il vaso in cristallo “Psikebana” che, partendo dalla tecnica giapponese dell’ikebana, permette un uso diverso a seconda del desiderio di ognuno: l’acqua spostandosi all’interno del vaso ne diviene elemento stabilizzante. Posso quindi dire che con lo stesso concetto, ma partendo dal materiale e dall’uso, si arriva ogni volta ad una forma diversa. Oggi c’è più attenzione agli aspetti modistici del design che io considero pericolosi perché finiscono per annullare la realtà dell’oggetto in cui la materia arriva a rivestire un ruolo secondario. Ci sono cose fatte nello stesso modo in tre o quattro materiali diversi, cosa che un

artigiano non avrebbe mai fatto. Parlando di materia, rimane per me un tema di progetto fondamen- tale; io parto molto dalla realtà e quindi da ciò che riguarda la materia ed i suoi limiti.

Se si arriva a conoscerla e ad amarla, ho sempre pensato che anche lei, a sua volta, amer moltissi- mo. Nel mio campo non si parte mai da zero, ho qualche dubbio sul fatto che altri possano dal niente creare qualcosa di completamente nuovo. Spesso dico: “La credibilità è come la marmellata, se non la metti su un pezzo di pane un po’ duro non ha forma”, questo per dire che comunque nell’approc- ciarmi ad un oggetto o ad un progetto parto seguendo una creativit pi oggettiva, pi solida che altrimenti non avrebbe forma come la marmellata.

na domanda sul suo rapporto con i giovani e con la didattica. ei ha insegnato in molte scuole del progetto in talia e all estero. Cosa ha sempre chiesto ai suoi studenti e cosa ritiene sia fondamentale

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Il mio rapporto con la didattica inizia fondamentalmente con l’esperienza americana all’Illinois In- stitute of Technology di Chicago, dove ho insegnato per circa due anni affiancando i grandi maestri come Gropius e Mies van der Rohe. Era un tipo di insegnamento molto ampio proprio perché l’idea di Gropius era quella di insegnare un po’ di tutto. Era un ambiente accogliente in cui indubbiamente mi trovavo bene, ma credo che per l’insegnamento si debba essere portati. Penso infatti che i grandi professionisti siano stati sempre pessimi insegnanti. Ne è un esempio Mies, che io considero un disastro per l’insegnamento; faceva disegnare su carte assorbenti oppure per un semplice errore obbligava gli studenti a buttare e rifare tutto. Probabilmente Gropius è stato l’unico a saper conciliare il mestiere di architetto e di insegnante.

Purtroppo insegnare è un mestiere difficile, perché se non si conosce come fare una cosa allora è sbagliato parlarne e quindi insegnare. Siamo in tempi di globalizzazione e anche in architettura co- noscere, capire cosa succede nel nostro pianeta è, direi, doveroso. Per contro, una globalizzazione dei linguaggi, non solo in architettura, rischia di creare nuovi stilemi lontano dalla realt culturale e materiale dei luoghi. La responsabilità e la funzione delle scuole di architettura rimane, credo, quella di favorire il migliore e corretto sviluppo delle capacità dell’allievo e non l’adeguamento ad espressio- ni del momento o dell’insegnante. L’esperienza è la cosa più importante che un maestro può e deve trasmettere ai suoi studenti, oltre al fatto di indicare dove essi stiano sbagliando. In Italia, invece, la figura del maestro è intesa come colui che insegna un linguaggio, mentre io, essendo un materialista, vorrei ci si potesse soffermare su un contatto fisico diretto con le cose.

A mio parere la funzione attuale del maestro è ancora quella di formare correttamente l’allievo, para- dossalmente il suo compito è quello di formare degli autodidatti. Per i giovani ritengo importantissimo avere interesse per gli altri, oggi gli studenti hanno la fortuna di essere in molti e quindi di avere un rapporto molto pi forte, un rapporto umano che io considero fondamentale. a scuola deve essere così, bisogna essere l’uno con l’altro. I giovani non devono dimenticare il passato ma ognuno deve seguire la sua strada, si può essere indipendenti amando i maestri senza bisogno di copiarli. Tutti i giapponesi che hanno lavorato nel mio studio, tornati in iappone non mi hanno mai imitato. d esempio Ichiro Kawahara ha realizzato edifici di un certo interesse che sono molto diversi dai miei lavori. Naturalmente ognuno di loro ha appreso qualcosa durante l’esperienza nel mio studio che ha poi utilizzato e rielaborato in maniera personale. È fondamentale per gli studenti studiare le culture e le tecnologie degli altri Paesi, ma ritengo altrettanto importante che essi non dimentichino mai le proprie origini, che sono quelle che li caratterizzano.

Alle nuove generazioni compete il dovere di proporre in architettura, in design e in arte, nuovi stru- menti per una più generosa e incisiva partecipazione umana. Sulla partecipazione dovremmo dedi- care molte delle nostre energie. L’attuale riduzione della partecipazione da parte dei giovani è in un certo senso la controparte di opere firmate dai grandi personaggi.

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