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II, 2 Benedetto Croce

Nel documento Storia della critica della Scapigliatura (pagine 30-40)

Il Croce, conformemente ai suoi ideali, non prese in considerazioni gli scrittori scapigliati come unico cenacolo con una comune poetica, ricercando stilemi artistici che li legassero l’un l’altro, ma preferì prendere in considerazione gli autori separatamente e analizzarli in modo assolutamente indipendente dal contesto letterario.

Questa operazione risultò insufficiente per descrivere, nel complesso, il contributo offerto dalla letteratura lombarda nel periodo di crisi culturale iniziato negli anni ’60 e accentuatosi nel periodo post- unitario; inoltre, in questo modo, il Croce si mostrò incapace di individuare il ruolo della Scapigliatura come precursore delle nuove esperienze novecentesche.

Un tale procedimento sarà naturalmente osteggiato dalla critica successiva, la quale cercherà – con metodi e soluzioni diverse – di studiare questi artisti all’interno della pagina storica-culturale, della quale essi fossero i protagonisti.

9 Carducci e la Letteratura italiana, studi per il centocinquantenario della nascita di Giosuè Carducci, Atti del convegno di Bologna 11- 12- 13 Ottobre 1985, a cura di Mario Saccenti, Collana “Medioevo e Umanesimo”, n. 71, Antenore editore, Padova, 1988.

10 Tutte le citazioni riportate sono tratte da B. Croce, La letteratura della nuova Italia, vol. I, Laterza editore, Bari, 1929.

Croce, pur riprendendo la volontà del Carducci di descrivere le singole personalità poetiche e non il sostrato culturale, ebbe il grande merito di liberarsi in parte dal giudizio negativo e ostile carducciano, mettendo in luce e mostrando di apprezzare personalità dimenticate nell’ombra, come il Camerana e, soprattutto, il Dossi (del quale fece un ritratto completamente nuovo e destinato ad essere accettato anche dalla critica successiva).

Giuseppe Rovani.

Il giudizio critico del Croce sul Rovani fu tendenzialmente negativo; anche se non completamente scevro di giusti riconoscimenti.

Se molti ammiratori lo considerarono come un vero e proprio genio letterario ed un grande innovatore; il nostro critico non fu dello stesso avviso, limitandolo alla cerchia dei romanzieri popolari senza un particolare talento e vedendo in lui nient’altro che un manzoniano fallito. Si badi bene, non di quel manzonismo che gravitava attorno al romanzo storico, bensì di quello della prima epoca, legato ad all’ “idea

di una storia mista d’invenzione o rappresentata mercé personaggi e avvenimenti immaginari”.

Di stampo tipicamente manzoniano, con frequenti interruzioni della storia per instaurare un contatto diretto con i suoi lettori, furono anche gli accorgimenti che il Rovani usò per rendere credibile la materia narrata e per negare eventuali richieste da parte del pubblico di conoscere segreti o avvenimenti che egli non poteva raccontare.

Manzoniano era, anche, l’intento ultimo educativo ed edificante dei suoi romanzi, accompagnato da riflessioni morali e politiche.

Tuttavia, a differenza del grande scrittore dei Promessi Sposi, Rovani mancò dell’ “ideale determinato e fortemente sentito e la capacit{ di

rappresentarlo in figure artistiche”: la narrazione non era, dunque,

guidata da una a ispirazione poetica, ma solo da un intento puramente storico.

Diverso è il discorso per quanto riguarda l’ultimo romanzo, Giovinezza

storicistico, lo stile diventa finalmente poetico, consegnandoci così una commossa e solenne narrazione della storia di Roma.

Tuttavia, nonostante questi notevoli miglioramenti nell’arte di un Rovani ormai invecchiato, il romanzo rimase “irresoluto tra una

rappresentazione artistica, una monografia storica e una filosofia della storia romana; e lascia l’impressione di uno sforzo non riuscito.”.

Emilio Praga.

Una volta compiuta una suggestiva panoramica sulle sinistre impressioni che suscitava il bestemmiatore e dissoluto Praga nel posato e moralista ambiente cattolico del giovane Croce, provocando in esso un sentimento di smarrimento e malessere; il critico si è soffermato a compiere una più misurata e oggettiva considerazione, nata da una lettura del poeta lombardo in un’età più adulta e meno sensibile a facili suggestioni.

L’impressione che ne ricavò fu totalmente diversa, tanto da ridimensionare non solo l’immagine del poeta stesso, ma anche l’efficacia della sua arte.

Sarà utile, a tale proposito, riportare la suggestiva invocazione del Croce al tormentatore della propria giovinezza:

“Tu, o Praga non sei né un empio, né un tormentato dal pensiero, né un orgiastico, né un ribelle. Tu non sei né fosco né terribile, come la cattiva letteratura, di cui spesso ti cibi, ti lascia credere. Tu sei un pover’uomo!... Senza energia di pensiero e di volont{, oppresso da vizi dai quali non sai distrigarti, attratto da ideali che non sai raggiungere e neppure con un po’ di sforzo perseguire, tu ci commuovi con la tua bontà di debole e di malato. Non sai vivere di vita reale, e vivi di sentimento e di cuore. E vivono con te tutte le creature con le quali t’incontri e ti soffermi a lungo la tua via, e che sono un po’ come te: poveri e deboli e malati, dagli affetti miti e dalle aspirazioni idilliche. Tra le erbacce e le ortiche, che d’ogni parte lo invadano, sono questi i fiori gentili, i soli fiori che spuntino nel tuo giardino poetico.”.

Sono parole molto dure quelle del Croce e radicalmente diverse dai giudizi dei critici futuri e passati (a cominciare dal Carducci).

A causa della sua inconsistenza artistica, il Praga non riuscì – in

Tavolozza - neanche a cogliere nella descrizione della natura tutta la

sua grandiosità, limitandosi a riprendere l’usurato motivo della vita di campagna come balsamo per il male interiore.

Interessanti ma non originali sono, invece, le figure, descritte con le pennellate di un pittore, che sfilano nelle poesie in modo compassionevole e malinconico (come il vecchio professore di greco, i vecchi dell’ospizio, il savoiardo girovago). Anche nei momenti più bui, in cui il Praga si lasciò andare al vizio e all’ubriachezza, preferendo immagini di dissolutezza, pure questo sentimento pietoso e commosso non l’abbandonò mai.

Un altro interessante prodotto dalla poesia praghiana, secondo il Croce, possiamo trovarlo nella riconciliazione con Dio, avvenuta grazie alla nascita del figlio e descritta nella raccolta Canzoniere del bimbo -; nella vagito del quale Praga credette di comprendere qualsiasi segreto del destino umano.

Solo qui vediamo una più schietta ed efficace ispirazione, a confronto di tutto il resto della produzione, segnata dall’imitazione dell’altrui poesia.

Croce fu molto severo nei confronti dell’apparente tragicità della vita del Praga, che conferì una eccessiva serietà a componimenti che non la meritarono, senza riuscire, peraltro, a vedere dove stesse l’effettivo dramma esistenziale, se non nei danni che egli si procurò di sua mano. In questa condizione spirituale il poeta milanese si dedicò a imitazioni di altri autori ed a stravaganze che non gli erano proprie e non si confacevano alla sua poesia.

La sensualità - lontana dalla purezza che sola si adatta alla tempra del Praga –, strenuamente ricercata attraverso Byron, Musset e Baudelaire, ha tutta l’aria di una lezione imparata e ripetuta, dunque incapace smuovere alcuna emozione.

Tuttavia, nel profondo, l’anima di Praga era quella di poeta e grazie ad essa riuscì, in alcune occasioni, a trovare esiti felici e fortunate ispirazioni; le quali, però, vennero spesso guastate da stravaganze fuori luogo.

“Così la sciatteria e l’espirazione si alternano nell’opera del Praga”; il

quale riuscì a trovare la sua vera poesia solo quando era in preda a quella naturale commozione, lontano da qualsiasi retorica di sentimentalismo.

Arrigo Boito.

Una considerazione di tipo puramente letterario precede l’analisi del Croce su Arrigo Boito: cioè se, negli anni in cui dominava in Europa, possiamo parlare di un vero e proprio Romanticismo italiano.

Si può affermare con certezza che non vi fu un tipo di Romanticismo rappresentato da una condizione di spirito squilibrata e lacerata da antitesi (in questo senso non sono assolutamente romantici il Manzone e il Leopardi).

Siccome “l’anima italiana tende, naturalmente, al definito e

all’armonico”, i temi macabri e misteriosi, che invasero il nostro paese

dopo il 1815, entrarono a far parte della moda di costume e non della vera e propria poesia, poiché non vennero accolti da nessuno scrittore che poté farli diventare tali. “Tanta rumorosa letteratura romantica, e

nessun romantico in Italia, tra il 1815 e il 1860!” commentò il Croce.

A questo proposito il canto del Boito suonò come una voce assolutamente fuori tempo, in ritardo e, per questo, difficile da collocare: paradossalmente l'Italia non ha avuto un poeta veramente romantico – con la conseguente visione sofferta e sconvolta della vita - che dopo il 1860.

Il poeta scapigliato cercò di cogliere la realtà, l’essenziale sotto l’aspetto universale; così da riuscire avere una panoramica la vita in tutta la sua tragicità, limitandosi ad osservarla senza lasciarsi andare a lamenti disperati o imprecazioni (come invece fecero altri scapigliati). Egli riuscì ad esorcizzare questo terribile spettacolo della vita solamente con l’ironia (si badi bene, non col cinismo); trattando un

argomento frequentato dalla poesia contemporanea, come il dualismo, in modo assolutamente nuovo e originale.

Addirittura Croce affermò che “tra la forma romantica del Boito e quella

degli ordinari romantici corre la differenza medesima che tra il linguaggio di in qualsiasi verseggiatore, imitatore dei classici, e quello, classico, di un Giacomo Leopardi”.

Tuttavia le immagini prodotte dal poeta non sempre riescono a acquisire una piena efficacia, lo sguardo ironico spesso getta una luce di frivolezza su tutto il contorno.

Di notevole fattura è la leggenda di Re Orso (1865), l’unica poesia del genere che abbia mai conosciuto la letteratura italiana, nella quale troviamo tutto il repertorio del Romanticismo – dai frati indemoniati ai trovatori, passando per scene di stragi, apparizioni e serenate sotto i veroni -; nel quale il falso medievalismo rappresenta l’elemento ironico del poemetto.

Il Re Orso rappresenta il Male, inteso come violenta e selvaggia manifestazione della natura, ma anche un tiranno goffo e pauroso ed è avversato dal un nemico di pari grado: il verme, cioè la Morte, che trionfa su ogni cosa.

Boito, da buon musicista, riuscì a creare nella poesia delle suggestioni musicali così potenti da rimandare istintivamente a quello che sarà il suo capolavoro: il Mefistofele.

In quest’opera egli non si limitò a riprodurre, come hanno fatto altri, la storia d’amore tra Margherita e Faust, ma diede grande risalto alla figura di Mefistofele (come il titolo stesso ci indica), l’ombra del quale si riflette sullo Jago verdiano: è la tragedia universale che interessava Boito, il sentimento infelice è solo una parte di essa.

Sempre parlando di opere, Croce citò nel suo studio il Nerone come uno dei più originali lavori dell’artista: il periodo della storia romana preso in considerazione, così ricco di contrasti e di avvenimenti turbolenti, si confaceva appieno con il suo animo e l’interessamento, più che ad una prospettiva storica o morale, si concentrò sul fascino esercitato dalla follia di Nerone, “che sembra toccare coi suoi delitti il fondo

dell’esistenza e fare risonare tutto ciò che esso contiene di misterioso e pauroso”.

Giovanni Camerana.

Il contenuto psicologico dell’opera del Camerana è esattamente lo stesso di quella del Boito, essendo entrambi i poeti attratti dall’orbita di un tardo romanticismo; l’unica differenza sostanziale che possiamo cogliere riguarda l’orientamento della poesia: se il Boito prediligeva irrorare i suoi componimenti di echi musicali, Camerana guardava con maggiore interesse verso la pittura. Egli stesso, infatti, essendo un discreto pittore e un grande intenditore, riuscì a dipingere suggestivi quadri con la sua poesia, attraverso delle pennellate degne di un impressionista e distruggendo lo schema consueto delle strofe.

I suoi tentativi di fare poesia diventarono infelici solo quand’egli tentò di imitare il Boito, ricercando soluzioni musicali o l’ironia dei contrasti. Conformemente alla sua natura, l’animo romantico del poeta-pittore si concretizzò letterariamente in descrizioni delle bellezze naturali; ma

“drammatici sono i paesaggi del Camerana, che riflettono nelle loro luci ed ombre l’angoscia, la lotta, lo strazio cosmico; la natura è in lui, non meno che le scomposte passioni umane nel Boito, il simbolo dell’onnipresente mistero, non gaudioso e radioso, ma doloroso, cupo, terrificante”. Il senso di angoscia interiore, dunque, si rifletté nei

soggetti che sembrano combattere una perenne battaglia universale. Tutto l’intero cosmo, con al suo interno l’umanità, è scosso, “pecca e

soffre” ; mentre il poeta osserva questo orribile spettacolo con terrore

misto a piacere, non riuscendo a liberarsi dell’attrazione che esercita su di lui.

Con lo stesso sentimento misto di desiderio e paura Camerana guardava le donne da lui descritte, ammantate di mistero e delitto: “Costei è il nero fatto carne viva

Per l’alta ebbrezza nostra ed il tormento: certo costei dal bruno abbracciamento degli uragani e della notte usciva.

Certo nata è costei, tigre lasciva, cupa tigre dal passo ambiguo e lento, quando, o Trinacria, te comprime il vento d’Africa o strugge la gran vampa.” 11

In queste descrizioni, tuttavia, si possono notare certe forme decadenti, dove “l’eroico si muta nel selvaggio e nel crudele” e dove la bellezza diviene tormentata, sensuale e pericolosa. In verità, il poeta, conformemente alla sua anima romantica, ricercava la pura, bionda vergine; ma non era capace di ritrovare da nessuna parte quest’ideale che acquetasse la sua angoscia.

Egli tentò di sottrarsi al dolore esistenziale che lo travolgeva rifugiandosi nel passato, in assoluta contemplazione, senza doversi sentire assalire dall’ansia del dovere, e ricercò dentro di sé una fede perduta nel passato (dedicò a Maria un’intera corona di poesie e cantò il santuario di Oropa).

Iginio Ugo Tarchetti.

Il capitolo che il Croce dedicò al Tarchetti, un uomo al quale egli pure riconobbe un “ingegno meditativo”, è molto breve: assai scarsa fu la sua vena artistica e le grandi interrogazioni che egli andava facendosi sulla vita e sulla morte non ne fecero un filosofo.

Legato indissolubilmente all’esperienza romantica, lo scrittore scapigliato lamentò un bisogno d’amore impossibile da ottenere, una nostalgia per i brevi e felici anni della giovinezza contrapposti all’angoscia della maturità, il pensiero costante verso la morte e il terrore di essa, una tendenza verso il soprannaturale e un completo disinteresse per la quotidianità.

I racconti che egli pubblicò risultano solo dei pretesti per portare all’attenzione del lettore ed esibire una sua particolare riflessione; inoltre, da un punto di vista puramente letterario, il Tarchetti scrisse

“non bene”, in modo “impreciso, pallido, verboso”. E, secondo il Croce, a

quest’ultimo difetto non si può rimediare: è una prova della debolezza artistica e mentale dell’autore.

Le storie ed i personaggi sono inconsistenti, sbiaditi e freddi; anche quando si parla di quello che viene considerato il suo capolavoro:

Fosca:

“Se il prologo sembra preludere a una tragedia, e l’enfasi che accompagna il racconto inculca la tragicità, il racconto stesso potrebbe ben essere la relazione, che un uomo intelligente fa ad un medico, dei sintomi e delle fasi della propria o altrui infermit{.”

Il Tarchetti riportò, dunque, la nuda e bruta realtà di un fatto che gli era realmente occorso, senza rielaborarlo attraverso la propria immaginazione, facendolo così risultare “materia di storia e non di

poesia”.

Tuttavia, nonostante la sua mediocrità, Tarchetti egli ebbe un grande successo tra i contemporanei. Croce stesso ammise la leggibilità di certe piacevoli e, soprattutto, sincere riflessioni, che spesso raggiungono una bizzarria filosofica.

Simili a questi interessanti brani, sono i componimenti della raccolta

Disiecta, dove vengono descritti sentimenti “appena saliti a fior dell’anima, e fermati nei tratti più generali, enunciati più che svolti” con

una grande efficacia.

Carlo Dossi.

“Irto di linguaggio spinoso, di una sintassi contorta, di un’ortografia e una punteggiatura contro l’uso corrente. Linguaggio misto di parole dialettali o addirittura derivate e coniate dall’autore stesso; sintassi spesso latineggiante […]”.

Con questa considerazione il Croce principiava la critica sul Dossi, accostandolo alla figura analizzata (nel capitolo precedente del suo

libro) dell’Imbriani, sia da un punto di vista linguistico, sia per quanto riguardava il tono satirico e pessimista utilizzato da entrambi.

Tuttavia, letto attraverso una lente non superficiale, dopo un’attenta analisi di tutta la sua produzione, il nodo che lega i due autori si fa pian piano sempre più lente. Il tipo di scrittura assolutamente inconsueta del Dossi ebbe un’origine diametralmente diversa da quella dell’Imbriani (pura manifestazione di un “cervello stravagante”): fu il frutto di uno “spirito solitario, che bada a ritrarre scrupolosamente le

proprie impressioni, i più lievi fremiti e brividi e battiti che gli attraversano il petto” e li estrinseca attraverso dei vocaboli provenienti

dai più disparati contesti.

Il linguaggio del Dossi può essere considerato un linguaggio interno, dell’anima, grazie al quale egli poté rievocare ricordi, e solo in tale contesto le parole assumono un loro recondito significato.

Per questa ragione la lettura di un tale autore è molto difficile e può essere soggetta a giudizi affrettati e assolutamente erronei. Tuttavia egli non volle, per amor di comprensione, adottare un linguaggio più comune e soggetto a convenzioni retorico-grammaticali, poiché ciò avrebbe voluto dire semplificare il senso stesso della poesia e tradire la propria anima.

Ogni violenza che viene fatta alla tradizione, dunque, risulta inevitabile, in favore di una completa e libera espressione.

Se l’elemento satirico attraversa la maggior parte della produzione del Dossi, i migliori risultati, da un punto di vista artistico, si poterono osservare nelle opere giovanili: l’Altieri e la Vita di Alberto Pisani.

In queste opere l’autore osservò e descrisse la giovinezza appena trascorsa e i primi approcci con l’età adulta, fornendo dei profondi e suggestivi spaccati di vita interiore e dipingendo dei bozzetti che sono degli autentici capolavori.

Sebbene smettesse di scrivere giovanissimo (poco prima dei quarant’anni), per il Croce Dossi aveva già esaurito il suo “tesoretto” con le prime opere giovanili, all’alba dei vent’anni.

I lavori pubblicati nel secondo periodo non si imposero al critico come prove eccezionali e figlie di esperienze diverse, tendenti da un lato ad un “poema delle idee” e dall’altro ad una lettura satirica.

In esse pur si trovano tocchi geniali ed arguti, a ulteriore dimostrazione della grandezza di spirito del Dossi; ma non riescono a riproporre la bellezza delle prime opere, che “palpitano di vita”.

Anche il linguaggio non è più quello dei tempi passati: il costrutto si fa sempre più pesante, abbondano i latinismi “e la ricerca verbale che, nei

bozzetti giovanili, era virtù, qui diviene vana, perché sta per sé e non illumina nulla”.

Nel documento Storia della critica della Scapigliatura (pagine 30-40)

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