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Storia della critica della Scapigliatura

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Academic year: 2021

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Candidato. Relatore.

Secondo relatore.

SCAPIGLIATURA

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INDICE:

Introduzione. Pag. 3

Capitolo I. Pag. 5

Capitolo II. Pag. 23

Capitolo III. Pag. 55

Capitolo VI. Pag. 64

Capitolo V. Pag. 77

Bibliografia. Pag. 92

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“E non trovando il bello Ci abbranchiamo all'Orrendo.” (A. Boito, Il libro dei versi )

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INTRODUZIONE

Possiamo affermare che, ad oggi, non è stata ancora tracciata una vera e proprio storia della Scapigliatura; tantoché solo grazie a citazioni e rimandi tra i critici è possibile avere una panoramica sufficientemente chiara degli studi dall’Ottocento i giorni nostri.

Questa tesi non ha come obiettivo di colmare una lacuna così grande, né di analizzare ad uno ad uno ogni intervento (per il quale servirebbero anni di studi e ricerche); si prefigge, altresì, di fornire una panoramica generale dei diversi filoni di studio sviluppatisi nell’arco di circa centocinquant’anni di critica letteraria e di presentare un accurato prospetto dei critici che hanno dato gli apporti più importanti. Ho scelto di adottare un criterio di suddivisione cronologica, in quanto, a mio parere, più chiaro e semplice da consultare rispetto a qualsiasi altra soluzione: in quanto non solo facilita la ricerca degli autori, ma fornisce anche indicazione sulla direzione presa dalla critica nel lasso di tempo preso in considerazione.

In linea con lo studio della mia tesi triennale su Roberto Sacchetti, ho deciso di non abbandonare l’affascinante universo della Scapigliatura; il cui interesse, a parere della sottoscritta, risiede proprio in quello che molti considerano il suo principale difetto: l’eterogeneità delle personalità e delle soluzioni letterarie, che hanno portato ad una infinita querelle critica.

Il fatto che un tale dibattito sia, ad oggi, sempre acceso dona nuova linfa vitale e fascino ad una esperienza così singolare nell’intera storia letteraria italiana, stretta tra gli ultimi bagliori del Romanticismo e la nascita del Decadentismo, in un momento di completa depressione da un punto di vista sia artistico che sociale della nostra storia.

E’ pur vero che i risultati ottenuti della Scapigliatura furono, in alcune occasioni, deludenti; tuttavia non dobbiamo per questo dare un affrettato giudizio negativo a tutta l’esperienza: tali fallimenti sono una prova dei molti tentativi che si fecero, in un momento di drammatica

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transizione, di tradurre in atto la volontà di distruzione della vecchia e usurata cultura, in favore della ricerca e della sperimentazione di soluzioni alternative.

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CAPITOLO I.

BREVE STORIA DELLA SCAPIGLIATURA

I,1. Cletto Arrighi.

Quando parliamo di “Scapigliatura” non ci riferiamo solamente ad un movimento letterario, ma anche ad un vero e proprio ciclone sociale che tentò di travolgere la società borghese ed industriale imperante nella seconda metà dell’ottocento nel nord Italia. L’ambiguità di questo duplice significato si riscontra sin dalle origini; cioè quando Cletto Arrighi, giornalista e feullettonista milanese, scrisse nel 1858 un romanzo (pubblicato sull’ “Almanacco del Pungolo” col titolo La

scapigliatura milanese, modificato nel 1862 in La scapigliatura e il 6 febbraio e, nel 1880, nel più generale La scapigliatura) di stampo

politico-risorgimentale, ricco di suggestioni romantiche.

Egli ampliò il significato della parola “scapigliato” (cioè “scapestrato”, “colui che va contro le regole”) per darle un senso letterario e culturale, attingendo a piene mani dal mondo della Bohème francese e arricchendolo con elementi della tradizione linguistica italiana e milanese:

"Avvenne che, un bel giorno, dovendo pur trovare un titolo mi trovai nella necessità o di coniare un neologismo o di andare a pescare nel codice della lingua qualche parola vecchia che rendesse pressapoco il concetto del mio qualsiasi romanzo. Prima dunque di osare, consultai sua maestà il Vocabolario, se mai nella sua infinita sapienza avesse saputo additarmi un mezzo di salvezza. Cerca e ricerca, finalmente trovai una parola acconcia al caso mio; perché s'ha un bel dire, ma la nostra lingua, per chi la vuol frugare un po' a fondo, non manca proprio di nulla, e sa dare a un bisogno parole

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vecchie anche per idee nuove, nello stesso modo che i Francesi sanno fabbricare parole nuove, per idee che hanno tanto di barba.

Però, in quella maniera che potrei star garante che scapigliatura non è una parola nuova, sarei in un bell'imbarazzo se volessi persuadervi che la è molto usata e conosciuta.

Infatti fra le tante persone a cui domandai che cosa intendessero per scapigliatura, parte inarcò le ciglia, come a dire: non l'ho mai sentita a menzionare, e parte mi rispose così a tentoni, chi: l'atto dello scapigliarsi, chi: una chioma arruffata, e chi, finalmente - e costui fu un letterato - una vita da débauché; definizioni tutte o false o inesatte e, in ogni modo, lontane le mille miglia da quel significato in cui mi ero proposto di adoperarla io.” 1

Protagonisti di questo romanzo di gusto francese, alla continua ricerca di colpi di scena, sono dei giovani patrioti; i quali incarnano il prototipo di quello che l’autore intendeva al momento come “scapigliato”:

“In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità di individui di ambo i sessi fra i venti e i trentacinque anni, non più, pieni d’ingegno quasi sempre, più avanzati del loro tempo, indipendenti come l’aquila delle Alpi; pronti al bene quanto al male; irrequieti, stravaganti, turbolenti, i quali […] meritano d’essere classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia sociale, come coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte le altre.

Questa casta o classe – che sarà meglio detto – vero pandemonio del secolo; personificazione della follia che sta fuori dai manicomii; serbatoio del disordine, della imprevidenza, dello spirito di rivolta e di opposizione a tutti gli ordini stabiliti; - io l’ho chiamata appunto

Scapigliatura.. La Scapigliatura è composta da individui di ogni

ceto, di ogni condizione, di ogni grado possibile della scala sociale.”

1 Cletto Arrighi “La Scapigliatura e il 6 febbraio. Un dramma in famiglia.” A cura di Roberto Fedi, ed. Mursia, 1988.

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Dopo questa introduzione, l’Arrighi passa a descrivere i due aspetti fondamentali del movimento:

“Da un lato: un profilo più italiano che milanese, pieno di brio, di speranza e di amore; e rappresenta il lato simpatico e forte di questa classe, inconscia della propria potenza, propagandatrice delle brillanti utopie, focolare di tutte le idee generose, anima di tutti gli elementi geniali, artistici, poetici, rivoluzionari del proprio paese; […]. Dall’altro lato, invece, un volto smunto, solcato, cadaverico; su cui stanno le impronte delle notti passate nelle stravizio e nel giuoco; su cui si adombra il segreto d’un dolore infinito.. i sogni tentatori di una felicità inarrivabile. E le lagrime di sangue, e le tremende sfiducie, e la finale disperazione. Nel suo complesso perciò la Scapigliatura è tutt’altro che disonesta. Se non ché, come accade anche nei partiti politici, che gli estremi accolgono nel loro seno i rifiuti di tutti gli altri, anch’essa conta un buon numero di persone tutt’altro che oneste, le quali finiscono collo screditare la classe intera.. Però la vera Scapigliatura li fugge per la prima, e li rinnegherebbe ad alta voce se ella fosse conscia della propria esistenza.”

La Scapigliatura è, dunque, una sorta di casta che, per intenti e stile di vita, si differenzia dalle altre che costituiscono la società.

Tuttavia, nelle ultime righe del brano citato emerge paradossalmente un aspetto molto borghese dell’Arrighi, il quale si sentì in dovere di scusarsi in anticipo per la presenza di eventuali membri disonesti e precisò come la Scapigliatura fosse una condizione esistenziale, più che una vera e propria categoria sociale.

Importante è, comunque, la comprensione dell’Arrighi dei nuovi fenomeni sociali e la consapevolezza di essere ad un punto di svolta nella storia sociale e letteraria.

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I,2. L’Italia post-risorgimentale.

Dopo l’Unità, l’Italia versava in condizioni assai difficili. Anche la Lombardia, nonostante il suo primato industriale a livello nazionale, subiva lo stato di grave depressione: le sue fabbriche risultavano troppo arretrate per competere con le concorrenti europee, l’agricoltura era fiaccata dagli scarsi raccolti e il mercato finanziario passava dal ristagno a momenti di speculazione. Vennero così adottate importanti misure fiscali che colpirono soprattutto le classi povere e contadine, mentre il governo cercava di migliorare i commerci, sia nazionali che internazionali, costruendo ferrovie e strade.

La ripresa economica del decennio 1870-80 segnò la fine dell’ antica aristocrazia agraria a favore del ceto borghese e portò alla formazione di un proletariato urbano, con tutte le sue conseguenze sociali e politiche di un tale passaggio storico.

All’indomani di questi avvenimenti, il malcontento popolare era largamente diffuso e gli intellettuali non si ritrassero dal denunciare come gli ideali risorgimentali fossero stati schiacciati e distrutti dalla cruda realtà dell’Italia post-unitaria.

In questo frangente nacque la letteratura “scapigliata”, caratterizzata da autori profondamente eterogenei e da un carattere anti-borghese, ma anche da un atteggiamento “scapigliato”, bohèmienne (interessante solamente dal punto di vista della storia del costume). Anche questi artisti avevano creduto nel risorgimento e per esso avevano lottato; per cui la loro delusione fu così grande da poter essere paragonata a quella provata tempo addietro dagli altri intellettuali europei, all’indomani delle grandi rivoluzioni.

Non tutti i nostri autori, tuttavia, si misurano allo stesso modo con la società: alcuni rifiutano completamente il mondo che li circondava senza alcun compromesso, chiudendosi in un atteggiamento di

maledittismo (secondo il modello francese) che li portò a fare uso di

droghe ed alcool e, spesso, al suicidio; altri tennero tale atteggiamento solo per una parte della loro vita, chiamato “tirocinio della vita

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artistica”, per poi rientrare nei ranghi della società, spesso trovando lavoro nel mondo editoriale; altri ancora, infine, combatterono la borghesia su un piano politico, affiliandosi a partiti repubblicani e socialisti (la cosiddetta Scapigliatura “democratica”, dove pure sussistono degli atteggiamenti molto eterogenei).

I,3. La Dissoluzione del Romanticismo.

L’esaurimento di quella grandiosa esperienza europea chiamata Romanticismo non fu un fenomeno puramente letterario: coinvolse altresì ogni ambito della società e non riuscì mai ad esaurirsi completamente.

Va specificato che anch’esso fu un fenomeno essenzialmente borghese; ma la nascita del Positivismo e delle scienze esatte, il decadimento della vecchia aristocrazia, il formarsi di un proletariato urbano, la distruzione degli ideali risorgimentali, la difficoltà degli intellettuali ad inserirsi nella nuova società e la feroce industrializzazione, ne accelerarono la lenta agonia. L’intellettuale non ebbe più, come nel Settecento, il ruolo di giuda, di bandiera di un’ideologia da portare avanti con fede e passione (come Chateaubriand o Byron), ma fu estraniato dalla società e non poté far altro che guardare con ironico disprezzo e repulsione il mondo che lo rifiutava.

Le esigenze di mercato trasformarono mano a mano l’Arte in una merce, in una fonte di guadagno: a questo orrore l’artista poté solo scegliere se soccombere od opporvisi. Non furono dilemmi etici semplici da risolvere e un tale asservimento soffocò in entrambi i casi (con la fame o con le esigenze di mercato) la libertà di una consapevole scelta di poetica.

La stessa figura dell’eroe tragico scomparve, per lasciare il posto ad un eroe deluso, schiacciato da una società dalla quale non riesce a liberarsi, tragicamente sconfitto a livello interiore.

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Erano ormai lontani i tempi delle gloriosi lotte per la libertà e dell’esaltazione romantica: alla tensione delle eroiche giornate del ’48 si contrappose la borghese quotidianità.

A tutto questo gli scapigliati risposero con ironia, demitizzando il passato e, in contrasto con la grettezza della società del tempo, sempre più emarginati, vollero rinchiudersi in un universo dove l’arte era il solo ed unico valore; un’arte di rottura, di avanguardia, che tentò di dare un taglio netto al passato, di sprovincializzarsi e di avvicinarsi ai modelli europei.

Così, infatti, cantava Emilio Praga:

“[…] o amabili

Compagni, è questa l’ora: Coll’arte nostra lepida Qui poesia s’infiora; Lungo lo sporco lastrico Seguitemi cantando,

Il campo è nostro e in bando E’ l’alta societ{!”2

La Scapigliatura, tuttavia, non guardava solamente a movimenti europei, ma affondava le sue radici nella cultura lombarda, nutrendosi di espressioni dialettali (basti pensare al termine arrighiano fa el

scapùsc, cioè “darsi alla scapigliatura”), di satira, di ironia. Persino le

battute del Rovani, uno degli intellettuali più brillanti, erano pensate in dialetto.

Dallo stesso mondo lombardo vennero anche i veri modelli di questi scrittori, le loro storie, la loro sanguigna rusticità.

Di ambito meno provinciale fu sia l’attenzione che gli scapigliati ebbero, in comune con i tardo-romantici, per della natura (intesa come forza di magica comunione in cui ricercare i segreti della vita in tutte le sue manifestazioni, con particolare attenzione alla morte), sia l’interesse per la dimensione psicologica, come risposta ad un mondo

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razionale che essi rifiutavanp. Questo interesse sfociò spesso nel misticismo (anche come opposizione alla religione ufficiale) e nello spiritismo.

I,4. Religione e spiritismo.

Anche in Lombardia la lezione romantica non poté esaurirsi del tutto, ma si mescolò e si rinnovò grazie alle nuove suggestioni culturali, concentrate soprattutto sull’universo spirituale. Furono gli scapigliati ad accogliere l’eredità dei suoi caratteri più estremi (come il misticismo e la ribellione), accostandoli alla fondamentale lezione dei poeti bohèmiennes francesi. Essi guardavano a modelli come Heine, Nerval, Hoffmann, Poe, Wagner; ma pesanti erano ancora le catene che li legavano a giganti italiani come Foscolo e Manzoni (soprattutto quest’ultimo creò molte discussioni all’interno degli stessi scapigliati, alcuni dei quali non vollero né poterono sottrarsi alla sua influenza). Dunque, anche se questi artisti, grazie alle loro brillanti ed innovative idee, poterono essere considerati i precursori di movimenti che si svilupparono solo il seguito (come il Decadentismo o il Crepuscolarismo), non riuscirono tuttavia a sganciarsi del tutto dai temi romantici (basti come esempio il Tarchetti): per questo motivo il critico Romano propose di rinominare la Scapigliatura “Secondo romanticismo lombardo”.

Fondamentale rimase comunque l’attenzione nei confronti dei movimenti artistici e letterari che in quegli anni si stavano diffondendo in Europa: in poeti come Praga e Boito, infatti, si colgono temi ed atteggiamenti che richiamano esperienze simboliste e decadenti.

Per quanto riguarda la religione è importante sottolineare che, al contrario di quanto si possa pensare, gli scapigliati mostrarono sempre un grande interesse verso di essa, contrapponendo al culto ufficiale un credo interiore, intimo. Ciò condizionò profondamente anche le loro

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opere; opere che, tuttavia, non si sottrassero completamente all’ingombrante influenza del romanzo cattolico.

Questa religiosità era ambigua, sofferta, turbata da un senso di colpa ed evocava spesso lontani e nostalgici ricordi di infanzia per i vecchi e semplici culti rurali.

Persino il positivismo, che in quest’epoca stava prendendo sempre più campo, non poté essere accettato dagli scapigliati nella forma di pura razionalità; venne, anzi, accolto come una nuova magia, qualcosa di mistico, sempre avvolto da un’aura di sacralità e considerato la chiave per il controllo della natura (ne sono un esempio Un corpo di C. Boito o la descrizione dello scienziato Gorini ne La casa del mago di Dossi). Inoltre gli scapigliati veneravano la scienza come principale alleata contro la realtà; in quanto essa distruggeva i principi costituiti, demoliva le certezze e poteva sempre superarsi: non accettava, insomma, dogmi.

1,5. La “Teoria delle tre arti”.

La poetica scapigliata non si rinchiuse entro i soli confini della letteratura; tutte le arti ne vennero comprese (molti poeti, come Praga e Boito, furono anche pittori o musicisti). Questi artisti espressero con forza l’idea della libertà dell’arte, concretizzata nella ricerca (spesso non molto fruttuosa) di un nuovo linguaggio e nella fusione di arti che, finora, erano state tenute sempre ben separate.

Fu il Rovani a ideare la “teoria delle tre arti”, opponendosi alla loro autonomia. In contrapposizione con le rigidi classificazioni delle estetiche del tempo, egli suggerì di mischiare tra loro i diversi procedimenti creativi: così scultura, pittura, musica e letteratura vennero accomunate da un unico ideale, da un comune rifiuto del classicismo e di un’arte considerata come descrizione della realtà oggettiva.

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Questo interscambio si nota particolarmente nell’influenza che ebbe la musica nelle poesie del Praga o del Boito, piene di ritmi stravaganti, enjamblements e rime difficili.

Scriveva a questo proposito il Dossi:

“Nell’Arte antica prevaleva la Natura, nella odierna la coltura. Oggetto dell’antica il raggiungimento della natura, la quale è finita – oggetto dell’odierna il raggiungimento dell’Ideale, il quale è infinito”.3

Ciò significava un completo ribaltamento della concezione di ogni arte, fondata sulla volontà di distruggere la falsa realtà e di individuare una dimensione nuova di essa, che la società non riusciva a cogliere.

Tali idee innovative portarono a degli interessanti risultati non solo in letteratura, ma anche nella pittura e nella scultura: impregnati di un forte anti-accademismo, pittori come Tranquillo Cremona, Daniele Ranzoni, Luigi Conconi (solo per citare i più importanti), divennero famosi per le loro pennellate vaporose e piene di luce, per i loro soggetti popolati da gente comune, della quale viene delicatamente tratteggiata la psicologia, e per le loro sculture quasi evanescenti.

Il grande merito di questi artisti scapigliati fu quello di aver concentrato il proprio lavoro sulla ricerca degli effetti di luce-ombra e colore attraverso la tecnica del "non finito”, cioè del rifiuto della linea e della plasticità di stampo accademico.

Sempre legato a suggestioni romantiche fu sicuramente il Cremona; i cui soggetti, grazie ai giochi d’ombre ripresi dalla fotografia, emanano un fascino misterioso ed enigmatico, evocando addirittura suggestioni musicali (tale passione venne, infatti, coltivata dall’autore grazie alla sua amicizia con i fratelli Boito).

Più moderno fu, invece, Ranzoni, il quale guardava verso l’ impressionista, ma senza rinunciare alla ricerca di nuove tecniche, grazie alla quale divenne il precursore del divisionismo italiano (che ebbe come campioni Segantini e Pellizza da Volpedo). Rispetto a

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Cremona, si dedicò maggiormente al ritratto, approfondendo l’aspetto psicologico e intimista dei soggetti.

1,6. Le riviste.

Fenomeno fondamentale di metà ottocento, che riguardò molto da vicino anche l’esperienza scapigliata, fu l’imporsi del giornalismo come grande fenomeno di massa.

Superata l’ormai vecchia distribuzione tramite abbonamenti che comportava una tiratura alquanto ridotta, presero campo, sin dagli ultimi decenni dell’800, le edicole come luoghi di vendita di quotidiani e riviste. Erano ormai i tempi della pubblicità, dell’estensione del diritto di voto, della scolarizzazione, delle innovazioni in campo editoriale: il pubblico era immensamente più numeroso di quello di pochi decenni addietro.

Fu in questo periodo di grande fermento che l’industria tipografica crebbe sempre più e nacquero molti nuovi giornali e riviste, alcuno delle quali sono sopravvissute sino ai giorni nostri (come ad esempio “La Nazione”, “Il Corriere della Sera”, “Il Resto del Carlino”).

Da un punto di vista prettamente culturale, le riviste ebbero un’importanza fondamentale per la circolazione di nuove idee e opere. Si andò sempre più sviluppando la figura dello scrittore-giornalista; il quale collaborava con testate o, addirittura, le fondava, scrivendo articoli e critiche di eventi artisticamente rilevanti (bastino come esempio i fratelli Boito).

Gli scapigliati stessi non persero l’occasione di utilizzare questo potente mezzo di comunicazione. Così nacquero riviste di grande spessore culturale, come la "Cronaca grigia" di Cletto Arrighi, "Rivista minima di scienze, lettere e arti" di Antonio Ghislanzoni, "La farfalla" di Angelo Sommaruga, il "Figaro" di Emilio Praga e Arrigo Boito e, soprattutto, il “Pungolo” di Leone Fortis.

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La rivista più emblematica tra tutte è sicuramente la sopracitata “Cronaca grigia”, operante, con interruzioni varie, dal 1860 al 1882. Essa si occupava principalmente di politica, letteratura e teatro; seguì con grande attenzione il lavoro degli scapigliati (fu su di essa che Boito pubblicò per la prima volta la lirica Ballatella) e accostò per la prima volta i nomi di Praga, Boito e Dossi; prima ancora che questo gruppo si presentasse con una comune poetica al pubblico.

Caratterizzata da una forte impronta anti-borghese e anti-clericale, la “Cronaca” si volse ad un pubblico del tutto nuovo, formato principalmente da operai e donne.

Paradossalmente, furono proprio due esperienze editoriali a segnare la nascita e la morte della Scapigliatura.

Gli albori di questo movimento corrisposero con la fondazione, il 15 novembre 1856, de “L’Uomo di Pietra” (giornale di stampo umoristico, diretto dallo stesso Arrighi, sul quale scrissero i primi autori appartenenti al cenacolo scapigliato); mentre il tramonto venne segnato dalla nascita da “La Farfalla” il 27 febbraio 1876 a Cagliari, la quale inaugurò una diversa stagione: era una rivista di stampo scapigliato, che rievocava nostalgicamente i principali autori di questo movimento (ormai morti), arrivando in certi frangenti alla loro mitizzazione.

1,7. Protagonisti Scapigliatura.

Molteplici furono le personalità che rappresentarono e animarono la Scapigliatura; tuttavia, anche a costo di commettere ingiustizie non citando tutti i validi autori che meriterebbero tesi a parte, ci limiteremo a proporre un breve profilo degli scrittori artisticamente più significativi e più studiati nelle critiche.

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Fu una personalità di spicco nel mondo artistico milanese ed è considerato uno dei capifila degli scapigliati.

Feroce anti-borghese, ribelle, isolato dalla società, nacque a Gorla nel 1839 in una famiglia agiata. Da giovane intraprese un lungo viaggio che lo portò nel Nord Europa e nella Parigi dei poeti maledetti. Questa esperienza non fu fondamentale solo per la sua poesia (un volta tornato pubblicò, nel 1862, la raccolta Tavolozza), ma anche dal punto di vista pittorico (sia come critico, che come artista).

Con la morte del padre e la rovina dell’industria familiare, non poté arrestare la rovina che travolse la sua famiglia: questa condizione lo indusse a gettarsi in una vita sregolata, segnata dall’alcolismo. Così i suoi lavori divennero sempre più discontinui: pubblicò Penombre (1864), Fiabe e leggede (1867), iniziò il romanzo Memorie del

presbiterio, poi terminato da Roberto Sacchetti, e, nel 1878, quando

l’autore era ormai morto, furono raccolte, col titolo Trasparenze, altre poesie.

Praga morì a Milano nel 1875 dopo anni di miseria.

Nelle sue poesie dimostrò una notevole originalità per quanto riguarda il linguaggio utilizzato, mischiando l’aulica tradizione col dialogo in versi e amalgamando il lirismo romantico con la prosaicità.

Tuttavia, nonostante le linee guida rimangano inalterate, le raccolte presentono aspetti molto diversi: se in Tavolozza prevale la tematica umana di donne, fanciulli, contadini, ripresi nella quotidianità o nella loro solitudine, in Penombre prende sempre più campo l’aspetto maledettistico, di chiara influenza baudeleriana.

Sarebbe tuttavia un errore leggere le raccolte del Praga sotto il segno della dicotomia; il maledettismo antiborghese permea tutta l’esperienza artistica dell’autore, anche l’apparente realtà idillica delle poesie di Tavolozza.

Arrigo Boito.

Nacque a Padova nel 1842, figlio di una contessa polacca e di un pittore italiano, divenne famoso come librettista d’opera e, soprattutto, come

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compositore del Mefistofele. Sin da giovane studiò violino, pianoforte e composizione al conservatorio di Milano, mostrando un grande interesse per le innovazioni che venivano dalla Francia e sottolineò la sua vocazione di poeta-musicista scrivendo partitura e libretto della cantata Il quattro giugno (1860) e del mistero Le sorelle d'Italia (1861). Una volta diplomatosi, nel 1861, si recò a Parigi con l’amico e collega Franco Faccio, dove conobbe i musicisti più importanti dell’epoca, tra i quali Rossini e Verdi. Col maestro di Busseto collaborò come librettista, scrivendo il testo dell’Inno delle Nazioni (composto per l’Expo di Londra), i bellissimi libretti dei più celebri Otello (1887) e Falstaff (1893) e revisionò quello del Simon Boccanegra (1881) di Piave.

La sua carriera, tuttavia, non gravitò unicamente attorno a Verdi; tra i tanti lavori vale la pena citare il testo della Gioconda (1876) di Ponchielli, l’Amleto (1865) di Faccio e il Nerone (1862 - 1915), musicato e composto dallo stesso Boito. Quest’ultimo lavoro è fondamentale per la biografia del nostro autore ed ebbe una storia molto travagliata: progettato sin dalla giovinezza, la scrittura del

Nerone (dramma storico in cinque atti dai tratti fortemente decadenti)

accompagnò l’artista per tutta la vita. Il testo dell’opera venne pubblicato nel 1901, all’indomani della scomparsa di Verdi; ma, frenato da dubbi e ripensamenti, la morte sopraggiunse nel 1918 senza che Boito riuscisse a completarne la partitura. Con le integrazioni di Toscanini, Smareglia e Tommasini (basate sulle annotazioni lasciate dall’autore stesso), l’opera andò in finalmente scena alla Scala il 1° Maggio 1924, ottenendo un grande successo.

Sempre in ambito musicale non si può non citare quello che è unanimemente considerato il capolavoro di Boito: il Mefistofele (1868), un grandioso dramma musicale tratto dal Faust di Goethe. Tuttavia, come spesso accade ai capolavori, la prima fu un fiasco: accusato di wagnerismo (malvisto nell’Italia delle Guerre d’Indipendenza e avversato dal patriottico Verdi) provocò sdegno e disordini, tanto che furono interrotte le rappresentazioni. Solo dopo che Boito ne ebbe rivisto drasticamente la partitura, venne rappresentato nel 1875 a Bologna, dove ebbe un grande successo. Tuttora quest’opera si trova nel pantheon delle opere più apprezzate e rappresentate.

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Per quanto riguarda il suo legame con la Scapigliatura, fu fondamentale l’amicizia stretta con Emilio Praga, una volta tornato dai suoi viaggi. In questo ambiente, compose poesie raccolte nel Libro dei Versi (1877) e il celebre poemetto in polimetri Re Orso (1864); pubblicò, inoltre, diverse interessanti novelle (tra le quali L’Alfier nero, Il pungo chiuso,

Iberia). Collaborò con molte riviste del tempo come critico; fondò e

diresse il Figaro, sul quale espresse in alcuni articoli idee riguardo al rinnovamento del melodramma italiano, coincidenti spesso con quelle wagneriane.

Camillo Boito.

Fratello maggiore dello scrittore e musicista Arrigo Boito, Camillo studiò a Padova e a Venezia, dove fu allievo di Pietro Selvatico Estense. Si dedicò agli studi artistici, che lo portarono ad insegnare alla prestigiosa Accademia di Belle Arti di Brera e all'Istituto Tecnico Superiore di Milano.

Nel mondo della letteratura si fece conoscere per le raccolte Storielle

vane (1876), Senso. Nuove storielle vane (1883) e il Maestro di Setticlavio (1891), le quali rivelano l’influenza dei racconti fantastici e

macabri di Hoffmann, Poe e Tarchetti.

Leitmotiv delle sue storie è la bellezza, intesa in tutte le sue forme: da quella femminile, a quella artistica. Grazie a tale sensibilità, divenne, come il fratello Arrigo, un importante critico e scrisse su alcune tra le più importanti riviste dell’epoca (tra le quali lo Spettatore e il

Politecnico).

Tuttavia, Camillo Boito fu famoso soprattutto per gli importanti progetti in ambito architettonico: gli interventi sulla basilica di Sant'Antonio a Padova, il progetto per la Casa di riposo per Musicisti “Giuseppe Verdi” a Milano,l'intervento nell'area medievale del Palazzo della Ragione di Padova e molte altre.

Le sue teorie sul restauro furono prese in considerazione anche fuori i confini nazionali. Ne elenchiamo solamente i punti fondamentali: cioè il rifiuto del restauro stilistico (proposto da Viollet-Le-Duc) perché

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considerato come una falsificazione del monumento, in cui è impossibile distinguere le parti originarie da quelle restaurate; la tutela dei monumenti storici, sui quali è importante non togliere la patina lasciata dal tempo; l’intervenire il minimo indispensabile e, quando ciò è necessario, farlo in modo che le parti nuove non si confondano con quelle antiche, ma non stonino con l’architettura dell’edificio.

Queste idee confluirono nella I° Carta Italiana del Restauro, redatta durante il IV° Congresso degli ingegneri e architetti tenuto a Roma nel 1883 e si inserirono, nel contesto europeo, tra il movimento inglese che si opponeva al restauro e quello francese che guardava verso il restauro stilistico.

Iginio Ugo Tarchetti.

Igino Tarchetti (Iginio era il nome con cui si firmava, mentre Ugo fu adottato negli ultimi anni di vita, in omaggio a Foscolo) nacque a vicino ad Alessandria, nel 1839; anticonformista, incline a pensieri oscuri e malinconici, si dedicò sia ad opere di critica sociale, con un’anima antimilitarista, sia a racconti che presentano un gusto per il macabro, per la morte e per la malattia, mentale e fisica.

Dopo essersi dedicato agli studi classici dietro indicazione dei genitori, si arruolò nell'esercito (ambiente in cui ebbe dei problemi a causa del suo carattere libero) partecipando a varie campagne per la repressione del brigantaggio nel Sud Italia.

Nel 1865 Tarchetti abbandonò la vita militare a causa di motivi di salute e si trasferì a Milano, dove iniziò a frequentare gli ambienti scapigliati; qui si dedicò completamente all’Arte, scrivendo racconti, poesie e articoli per riviste ( tra le quali il Gazzettino Rosa, la Rivista

Minima, l’Emporio Pittoresco e, ovviamente, il Pungolo).

Nello stesso 1865 e nell’anno successivo pubblicò con alterna fortuna i romanzi Paolina – Mistero del coperto Figini ed Una nobile follia –

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Contemporaneamente uscì una raccolta di poesie dai toni macabri e sepolcrali dal titolo Disiecta assieme ai Racconti fantastici e Amore

nell’arte (fortemente influenzati da autori come Hoffmann e Poe, cari

agli scapigliati).

Il grande successo arrivò solamente nel 1869 con l’ultima sua fatica letteraria, Fosca, rimasta incompiuta a causa della prematura morte dell’autore, stroncato da una febbre tifoidea, e terminata dall’amico Salvatore Farina. Questo romanzo nacque, probabilmente, in seguito all’incontro del Tarchetti (nel ’65, prima del congedo) con una donna in fin di vita dall’aspetto ripugnante: egli ne fu disgustato, ma non riusciva a separarsene.

Il protagonista del racconto, Giorgio, è diviso tra l’amore per la dolce e bella Clara e la sudditanza nei confronti di Fosca, creatura malata che suscita un’istintiva repulsione; ma, allo stesso tempo, ammaliante:

“Più che l’analisi di un affetto, che il racconto di una passione d’amore, io faccio forse qui la diagnosi di una malattia. Quell’amore io non l’ho sentito, l’ho subito”4

Giovanni Camerana.

Camerana nacque in una famiglia della media borghesia piemontese e, sin da giovane, fu destinato per volere del padre ad una carriera da magistrato. Mentre studiava legge all'Università di Pavia fece l’incontro che cambiò per sempre la sua vita: quella con Emilio Praga, Arrigo Boito ed altri scapigliati minori.

Si trasferì a Tornino dove completò i suoi studi e, soprattutto, entrò a far parte di quel circolo di intellettuali che fu rinominato successivamente da Contini “Scapigliatura Piemontese” (tra i quali spiccano Faldella, Sacchetti, Giacosa). Questa esperienza lo portò pian piano ad abbandonare la carriera forense, che male si conciliava con la sua vocazione poetica.

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I componimenti di Camerana risentono dell’influenza di poeti cari alla Scapigliatura, come Baudelaire e Verlaine, ma senza indulgere nel maledettismo (al quale guardarono, invece, molti altri scapigliati). Temi fondamentali sono l’introspezione, l’espressione di un malessere interiore (Bozzetti), il fascino dell’erotismo legato alla morte (La

Femme), sino ad arrivare a poesie “religiose” (Oropee).

Considerata l’anello di congiunzione tra la Scapigliatura e il Decadentismo, la produzione di Camerana è dominata dal binomio vita-morte e dal fascino irresistibile esercitato da quest’ultima.

Questa angoscia interiore del borghese Camerana si esternava attraverso crisi nervose: durante una di queste, nel 1905, si suicidò.

Carlo Dossi.

Carlo Alberto Pisani Dossi, nato a Zenevredo il 27 marzo 1849, proveniva da una famiglia della piccola nobiltà provinciale, arricchitasi grazie a proprietà terriere (status di cui il giovane Carlo andava molto fiero e non mancava mai di sottolineare).

Studiò a Milano, dove fece la conoscenza del futuro pittore scapigliato Tranquillo Cremona, che gli sarà legato per tutta la vita.

A soli diciotto anni fu tra i finanziatori della rivista “Palestra letteraria artistica scientifica” , attorno alla quale gravitavano gli scapigliati milanesi (come Tarchetti, Arrighi, Praga, e molti altri ). Fu un ragazzo di ingegno precoce, che sfruttò sin dalla più giovane età il suo genio scrivendo, tra i diciotto e i vent’anni, due capolavori: L’altrieri e la Vita

di Alberto Pisani.

Nel primo viene narrata l’infanzia e la giovinezza dello scrittore nella terra sua natale, ricercando nella memoria suggestioni ed echi di un passato rievocato con grande tenerezza. Anche nella seconda opera sono presenti tali ricordi, raccontati però in forma autobiografica e frammentati in diversi bozzetti e scene.

La novità assoluta del Dossi in campo artististico è rappresentata da un linguaggio assolutamente originale e complesso, caratterizzato dalla latineggiante e contorta la sintassi, dall’uso di una punteggiatura

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lontana dalle regole convenzionali, dall’invenzione di nuove parole dialettali, dal recupero di quelle in disuso e dalla modifica di quelle in uso. Come voleva la “teoria delle tre arti”, anch’egli ricercò costantemente di creare musica e immagini con le parole, approdando a un risultato assolutamente rivoluzionario, anche nell’ambito della stessa scapigliatura.

Egli estremizzò la ricerca scapigliata di nuove formule espressive, creando questo bizzarro e intimo modo di narrare il suo mondo interiore; opponendosi ad una lingua che, dopo Manzoni, ristagnava nella mediocrità di un consunto linguaggio, del quale non riusciva a liberarsi.

Se su un piano artistico il Dossi fu legato alla Scapigliatura, come stile di vita ne fu molto lontano: collaborò per anni con Francesco Crispi, divenne Console a Bogotá, Ministro Plenipotenziario ad Atene e Governatore dell’Eritrea.

La sua carriera politica, tuttavia, fu intimamente legata a Crispi; tantoché, quando cadde il governo, decise di ritirarsi a vita privata e di coltivare la vecchia passione per l’archeologia.

Tra le sue opere, oltre a quelle sopracitate, ricordiamo Ritratti umani (una descrizione satirica della società), Desinenza in A (una feroce tirata antifemminista) e, soprattutto, le Note Azzurre (una sorta di diario intimo tenuto per quarant’anni, contenente quasi seimila annotazioni).

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CAPITOLO II.

I PRIMI STUDI

Gli studi contemporanei al fenomeno scapigliato risultarono di ben poca importanza per chi voglia focalizzare l’attenzione su una storia della critica, più che su una storia del costume. In esse troviamo solo una serie di mistificazioni, di deformazioni e una morbosa attenzione nei confronti degli aspetti anticonformisti e leggendari degli scapigliati come uomini, non come artisti. Questi equivoci, fondati sul culto della biografia, si sono protratti e hanno continuato a pesare fino agli studi più recenti.

Il primo che cercò di innalzarsi al di sopra di tale mediocrità (pur non riuscendovi completamente) e di dare un puro giudizio letterario all’esperienza milanese fu il Carducci; il quale la stroncò senza appello. Nei primi decenni del ‘900, grazie soprattutto alle errate interpretazioni e suggestioni che il termine Scapigliatura si portava appresso (in particolar modo la mancata separazione del binomio arte-vita), rinacque un nuovo interesse per tale fenomeno e si iniziarono a compiere, finalmente, studi importanti.

Primo tra tutto si distinse Benedetto Croce; il quale, pur sottolineando per primo i pregi - oltre che i difetti - degli autori scapigliati, tendeva a negare addirittura l’esistenza del movimento scapigliato nel suo complesso, mettendo in dubbio la presenza di un programma poetico che potesse giustificare una tale etichettatura letteraria.

Altre personalità, invece, vollero vedere nella Scapigliatura un antecedente e la prima esemplificazione delle loro stesse aspirazioni di rinnovamento.

Il più importante di essi fu Pietro Nardi, autore di un testo rimasto a lungo il più completo sull’argomento, nel quale egli compì un’accurata

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panoramica degli autori più importanti (dal Rovani al Dossi), cercando di sottolineare le affinità tra essi e le avanguardie novecentesche.

Walter Binni, da parte sua, tentò, pur riconoscendo un legame tra la Scapigliatura e i cenacoli decadenti europei, di ridimensionare tale stagione letteraria, denunciando l’assenza di un’organica e coerente poetica, nonché i limiti del provincialismo e lo scarso valore artistico dell’intera esperienza culturale.

Il Ferrata fu ancora più restrittivo, rilegando la letteratura dei milanesi ad un mero tentativo di formazione di un’etica anti-borghese senza alcun valore artistico; mettendo persino in dubbio la validità della formulazione del principio dell’affinità delle arti (che era a lungo sembrata l’idea più innovativa ed interessante lasciata dagli scapigliati in eredità alle estetiche novecentesche).

Vediamo ora nel dettaglio gli studi che ci sono sembrati più significativi, tra gli interventi sopra citati.

II, 1. Giosuè Carducci.

“Carducci crede di essere poeta e non è che un gramatico”5.

La frase pronunciata dal Dossi rispecchia il carattere fortemente avverso al classicismo – fieramente rappresentato dal Carducci – che ebbe la Scapigliatura, la quale rifiutava con forza il concetto di tradizione, anche e soprattutto da un punto di vista di forme stilistiche. Il poeta toscano, da parte sua, non poté non ricambiare l’ostilità letteraria ed ideologica con una feroce polemica contro gli avversari milanesi – e più in generale contro tutta la letteratura contemporanea - affermando l’inconsistenza della loro esperienza poetica.

Tuttavia, alla radice del romanticismo scapigliato e del classicismo carducciano, c’era una comune inquietudine provocata dalla crisi

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culturale in cui versava la letteratura italiana del tempo, da una perbenista ideologia borghese e da problemi di ordine sociale.

Analogamente agli scrittori milanesi, il giovane Carducci presentava un atteggiamento anticlericale, antimanzoniano e anticristiano; ma, se i primi scelsero un linguaggio volutamente prosastico e non elevato, il poeta di Castagneto accolse nella sua poesia solamente un tono alto. Secondo il Sapegno, mettendo a confronto queste due esperienze, si può osservare come gli scapigliati vivessero la scelta più profonda e più aderente ai tempi, in modo integrale, come connubio di arte e vita; mentre l’esperienza del Carducci si consumò esclusivamente su un piano letterario e finì “col contrapporre ad un’accademia sentimentale

e lacrimosa un’altra accademia frigida e gessosa”6, senza peraltro opporsi veramente alla decadenza della cultura italiana.

In entrambe queste esperienze, tuttavia, lo slancio ribelle ebbe una breve durata e si rassegnò presto a dei compromessi; anche se la Scapigliatura rappresentò il centro in cui si elaborano inizialmente quelle che saranno esperienze fondamentali per la storia della nostra letteratura: cioè quella realista e verista.

Osserviamo adesso nel dettaglio gli scritti del Carducci che più interessano il nostro studio, concentrando l’attenzione prima su una descrizione generale della condizione socio-culturale dell’Italia pre e post risorgimentale e poi su un commento che riguarda specificamente la Scapigliatura.

Levia Gravia.

I Levia Gravia sono una raccolta di componimenti che il poeta toscano pubblicò sotto lo pseudonimo di Entorio Romano –nome che allude ad un concetto di valore dell’italianità – tra gli anni 1860 e 1871 e mostrano una poetica sempre vicina alla politica e sensibile alla polemica anti-vaticana. Come si evince dal titolo, il Carducci volle usare

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due toni stilistici differenti: orientando i primi verso una tematica più intimista e i secondi verso polemiche politiche e sociali.

Nella prefazione all’edizione del 1881 per l’editore Zanichelli, l’autore rievocò con un misto di nostalgia e orgoglio il periodo risorgimentale e, parlando della generazione che scrisse attorno al ’59, ne celebrò il valore e l’utilità che ebbero per la nazione, ma ne sottolineò anche la limitatezza da un punto di vista artistico.

“Dal ’45 in poi non si era più studiato, né si poteva: anzi, tutto che avesse avuto appartenenza di studio libero e indipendente intorno alle ragioni e alle forme d’arte era vituperato; e si capisce.”7

Tuttavia, una volta completata l’Unità, si aprì all’occhio del critico un panorama culturalmente, politicamente e socialmente desolante, che ebbe come conseguenza il trionfo del brutto:

“Ahi, ahi! Il regno d’Italia segnava in tutto e per tutto l’avvenimento del brutto. Brutti fino i cappotti e i berretti de’ soldati, brutto lo stemma dello stato, brutti i francobolli. C’era da prendere l’itterizia del brutto. […] Io credo fermamente che oggigiorno in Italia, a chi voglia mantenersi quel po’ di reputazione che possa essersi fatta o come uomo di studi o come persona seria, non convenga, prima di tutto scrivere. Che se uno non può resistere alla puerile abitudine di sporcarsi le dita d’inchiostro col pretesto d’illuminare o divertire il mondo, scriva, se vuole, de’ cattivi romanzi e de’ pessimi drammi; ma versi, no.”

Il popolo italiano non era ormai più da anni capace di scrivere una poesia che non fosse istrionica e di basso pregio; e, cosa ancora più grave, alla presenza di un poeta, provava solo compatimento o timore – se ne aveva rispetto -; altrimenti lo trattava come se fosse un buffone o un pazzo.

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Dieci anni a dietro.

In quest’opera Carducci, parlando in modo più dettagliato dei protagonisti della cultura del tempo, non poté esimersi da esprimere un giudizio su due dei rappresentati più famosi della Scapigliatura: Tarchetti e Praga.

Il poeta toscano risultò particolarmente severo col primo, giudicandolo assolutamente inconsistente da un punto di vista artistico e apprezzato solo in virtù di quella scrofola romantica che afflisse e contaminò il pubblico suo contemporaneo.

Nell’aspra critica che fece al Tarchetti, tuttavia, il Carducci ricadde nell’annoso errore – proprio della prima critica – che portava a leggere l’esperienza scapigliata esclusivamente alla luce del binomio arte-vita. Il Tarchetti venne, così, visto dal poeta toscano come un lirico sentimentaleggiante, la cui poesia dovrebbe essere accettata solo in omaggio alla biografia.

Ma ci voleva quell’ambiente, o, meglio, quella mancanza d’ossigeno, per proclamare la grandezza dei racconti del povero Tarchetti. Si scambiava il contenuto e l’intento per l’arte: si diceva – Non c’è forma, la prosa è brutta, ma il romanzo c’è ed è bello -; come se senza forma arte ci sia, come se una trovata o un episodio o un frammento sia il romanzo, come se, scrivendo male, si scriva bene. [..]”8

Ed ancora, per quanto riguarda la poesia nello specifico:

“No: io dico che l’ammirazione pe’l sonetto Ell’era così gracile e

piccina è una miserabile prova del rammollimento di cervello a cui

quella che il Proudhon chiamava scrofola romantica aveva condotto la gente.”

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Per quanto riguarda il Praga, il Carducci si oppose all’interpretazione realista, riconoscendogli dei momenti di mirabile lirismo, che possiamo ritrovare nell’incontro con Baudelaire e, soprattutto, nelle prime poesie - rappresentate da quel “trillo di lodola” che ne caratterizzò l’ingenua e semplice bellezza -.

Tuttavia, le concessioni fatte al poeta scapigliato terminarono ad una tale apertura e il Carducci concluse la sua critica sottolineando come Praga terminasse la sua vita “ripiagnucolando le sue nenie”.

“L’originalit{ del Praga! Sì certo, il Praga ebbe una originalità, ma non quella che dite voi. Avete letto Vittore Hugo, il Heine, il Baudelaire? Ma quello che voi nelle poesie del Praga proclamate di più era giù nell’Hugo, nel Hiene, nel Baudelaire. Se non che le trovate e le scappate del Heine egli le allunga e stempera un po’ lombardamente. Ma della tinta dell’Hugo ebbe colorite sin le intime fibre della sua poesia, come dicono che le ossa delle bestie che hanno pasciuto la robbia si trovino più chiazzate di rosso. Ma del Baudelaire ripeté non pure le innaturalezze e le irragionevolezze cercate ad effetto, non pure le bruttezze stupide (dico così perché è proprio così), ma le mosse e le flessioni del verso, ma i metri ed i ritornelli. Quello fu il periodo acuto della malattia; poi successe la polmonite, e il poeta finì ripiagnucolando le solite nenie. E aveva fatto a volte di sì belle cose! La sua originalità è quel trillo di lodola, è quel fresco d’acqua corrente per una selva di castagni, quella immediata e lieta e sincera percezione della natura, quella bonomia arguta tra di campagnolo e di pittore, che si sente, si vede, si ammira in alcune sue prime e più ingenue poesie.”

Un eccessivo sentimentalismo, anche se in misura diversa, dunque, accomunava Praga a Tarchetti; i quali non riuscirono a mettere in atto la rivoluzione che si prefiggevano di compiere.

Per il Carducci la sola e vera Scapigliatura degna di essere presa in considerazione fu quella democratica, poiché intrisa di impegno politico e civile, in opposizione ad una Scapigliatura letteraria che era

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ritenuta artisticamente nulla e inevitabilmente legata ad un consunto e patetico romanticismo.

Il Bettoloni9 ha visto nelle parole criticamente ironiche del Carducci

l’atteggiamento di colui che ha provato (specialmente nella giovinezza) lo stesso male di vivere che ha soffocato i poeti scapigliati e lo rifiuta con irritazione, cercando di scacciarlo da sé, perché ne comprende la tremenda veridicità e la pericolosa attrazione; ma come si cerca di scacciare una parte scomoda del proprio io.

II, 2. Benedetto Croce.

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Il Croce, conformemente ai suoi ideali, non prese in considerazioni gli scrittori scapigliati come unico cenacolo con una comune poetica, ricercando stilemi artistici che li legassero l’un l’altro, ma preferì prendere in considerazione gli autori separatamente e analizzarli in modo assolutamente indipendente dal contesto letterario.

Questa operazione risultò insufficiente per descrivere, nel complesso, il contributo offerto dalla letteratura lombarda nel periodo di crisi culturale iniziato negli anni ’60 e accentuatosi nel periodo post-unitario; inoltre, in questo modo, il Croce si mostrò incapace di individuare il ruolo della Scapigliatura come precursore delle nuove esperienze novecentesche.

Un tale procedimento sarà naturalmente osteggiato dalla critica successiva, la quale cercherà – con metodi e soluzioni diverse – di studiare questi artisti all’interno della pagina storica-culturale, della quale essi fossero i protagonisti.

9 Carducci e la Letteratura italiana, studi per il centocinquantenario della nascita di Giosuè Carducci, Atti del convegno di Bologna 11- 12- 13 Ottobre 1985, a cura di Mario Saccenti, Collana “Medioevo e Umanesimo”, n. 71, Antenore editore, Padova, 1988.

10 Tutte le citazioni riportate sono tratte da B. Croce, La letteratura della nuova Italia, vol. I, Laterza editore, Bari, 1929.

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Croce, pur riprendendo la volontà del Carducci di descrivere le singole personalità poetiche e non il sostrato culturale, ebbe il grande merito di liberarsi in parte dal giudizio negativo e ostile carducciano, mettendo in luce e mostrando di apprezzare personalità dimenticate nell’ombra, come il Camerana e, soprattutto, il Dossi (del quale fece un ritratto completamente nuovo e destinato ad essere accettato anche dalla critica successiva).

Giuseppe Rovani.

Il giudizio critico del Croce sul Rovani fu tendenzialmente negativo; anche se non completamente scevro di giusti riconoscimenti.

Se molti ammiratori lo considerarono come un vero e proprio genio letterario ed un grande innovatore; il nostro critico non fu dello stesso avviso, limitandolo alla cerchia dei romanzieri popolari senza un particolare talento e vedendo in lui nient’altro che un manzoniano fallito. Si badi bene, non di quel manzonismo che gravitava attorno al romanzo storico, bensì di quello della prima epoca, legato ad all’ “idea

di una storia mista d’invenzione o rappresentata mercé personaggi e avvenimenti immaginari”.

Di stampo tipicamente manzoniano, con frequenti interruzioni della storia per instaurare un contatto diretto con i suoi lettori, furono anche gli accorgimenti che il Rovani usò per rendere credibile la materia narrata e per negare eventuali richieste da parte del pubblico di conoscere segreti o avvenimenti che egli non poteva raccontare.

Manzoniano era, anche, l’intento ultimo educativo ed edificante dei suoi romanzi, accompagnato da riflessioni morali e politiche.

Tuttavia, a differenza del grande scrittore dei Promessi Sposi, Rovani mancò dell’ “ideale determinato e fortemente sentito e la capacit{ di

rappresentarlo in figure artistiche”: la narrazione non era, dunque,

guidata da una a ispirazione poetica, ma solo da un intento puramente storico.

Diverso è il discorso per quanto riguarda l’ultimo romanzo, Giovinezza

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storicistico, lo stile diventa finalmente poetico, consegnandoci così una commossa e solenne narrazione della storia di Roma.

Tuttavia, nonostante questi notevoli miglioramenti nell’arte di un Rovani ormai invecchiato, il romanzo rimase “irresoluto tra una

rappresentazione artistica, una monografia storica e una filosofia della storia romana; e lascia l’impressione di uno sforzo non riuscito.”.

Emilio Praga.

Una volta compiuta una suggestiva panoramica sulle sinistre impressioni che suscitava il bestemmiatore e dissoluto Praga nel posato e moralista ambiente cattolico del giovane Croce, provocando in esso un sentimento di smarrimento e malessere; il critico si è soffermato a compiere una più misurata e oggettiva considerazione, nata da una lettura del poeta lombardo in un’età più adulta e meno sensibile a facili suggestioni.

L’impressione che ne ricavò fu totalmente diversa, tanto da ridimensionare non solo l’immagine del poeta stesso, ma anche l’efficacia della sua arte.

Sarà utile, a tale proposito, riportare la suggestiva invocazione del Croce al tormentatore della propria giovinezza:

“Tu, o Praga non sei né un empio, né un tormentato dal pensiero, né un orgiastico, né un ribelle. Tu non sei né fosco né terribile, come la cattiva letteratura, di cui spesso ti cibi, ti lascia credere. Tu sei un pover’uomo!... Senza energia di pensiero e di volont{, oppresso da vizi dai quali non sai distrigarti, attratto da ideali che non sai raggiungere e neppure con un po’ di sforzo perseguire, tu ci commuovi con la tua bontà di debole e di malato. Non sai vivere di vita reale, e vivi di sentimento e di cuore. E vivono con te tutte le creature con le quali t’incontri e ti soffermi a lungo la tua via, e che sono un po’ come te: poveri e deboli e malati, dagli affetti miti e dalle aspirazioni idilliche. Tra le erbacce e le ortiche, che d’ogni parte lo invadano, sono questi i fiori gentili, i soli fiori che spuntino nel tuo giardino poetico.”.

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Sono parole molto dure quelle del Croce e radicalmente diverse dai giudizi dei critici futuri e passati (a cominciare dal Carducci).

A causa della sua inconsistenza artistica, il Praga non riuscì – in

Tavolozza - neanche a cogliere nella descrizione della natura tutta la

sua grandiosità, limitandosi a riprendere l’usurato motivo della vita di campagna come balsamo per il male interiore.

Interessanti ma non originali sono, invece, le figure, descritte con le pennellate di un pittore, che sfilano nelle poesie in modo compassionevole e malinconico (come il vecchio professore di greco, i vecchi dell’ospizio, il savoiardo girovago). Anche nei momenti più bui, in cui il Praga si lasciò andare al vizio e all’ubriachezza, preferendo immagini di dissolutezza, pure questo sentimento pietoso e commosso non l’abbandonò mai.

Un altro interessante prodotto dalla poesia praghiana, secondo il Croce, possiamo trovarlo nella riconciliazione con Dio, avvenuta grazie alla nascita del figlio e descritta nella raccolta Canzoniere del bimbo -; nella vagito del quale Praga credette di comprendere qualsiasi segreto del destino umano.

Solo qui vediamo una più schietta ed efficace ispirazione, a confronto di tutto il resto della produzione, segnata dall’imitazione dell’altrui poesia.

Croce fu molto severo nei confronti dell’apparente tragicità della vita del Praga, che conferì una eccessiva serietà a componimenti che non la meritarono, senza riuscire, peraltro, a vedere dove stesse l’effettivo dramma esistenziale, se non nei danni che egli si procurò di sua mano. In questa condizione spirituale il poeta milanese si dedicò a imitazioni di altri autori ed a stravaganze che non gli erano proprie e non si confacevano alla sua poesia.

La sensualità - lontana dalla purezza che sola si adatta alla tempra del Praga –, strenuamente ricercata attraverso Byron, Musset e Baudelaire, ha tutta l’aria di una lezione imparata e ripetuta, dunque incapace smuovere alcuna emozione.

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Tuttavia, nel profondo, l’anima di Praga era quella di poeta e grazie ad essa riuscì, in alcune occasioni, a trovare esiti felici e fortunate ispirazioni; le quali, però, vennero spesso guastate da stravaganze fuori luogo.

“Così la sciatteria e l’espirazione si alternano nell’opera del Praga”; il

quale riuscì a trovare la sua vera poesia solo quando era in preda a quella naturale commozione, lontano da qualsiasi retorica di sentimentalismo.

Arrigo Boito.

Una considerazione di tipo puramente letterario precede l’analisi del Croce su Arrigo Boito: cioè se, negli anni in cui dominava in Europa, possiamo parlare di un vero e proprio Romanticismo italiano.

Si può affermare con certezza che non vi fu un tipo di Romanticismo rappresentato da una condizione di spirito squilibrata e lacerata da antitesi (in questo senso non sono assolutamente romantici il Manzone e il Leopardi).

Siccome “l’anima italiana tende, naturalmente, al definito e

all’armonico”, i temi macabri e misteriosi, che invasero il nostro paese

dopo il 1815, entrarono a far parte della moda di costume e non della vera e propria poesia, poiché non vennero accolti da nessuno scrittore che poté farli diventare tali. “Tanta rumorosa letteratura romantica, e

nessun romantico in Italia, tra il 1815 e il 1860!” commentò il Croce.

A questo proposito il canto del Boito suonò come una voce assolutamente fuori tempo, in ritardo e, per questo, difficile da collocare: paradossalmente l'Italia non ha avuto un poeta veramente romantico – con la conseguente visione sofferta e sconvolta della vita - che dopo il 1860.

Il poeta scapigliato cercò di cogliere la realtà, l’essenziale sotto l’aspetto universale; così da riuscire avere una panoramica la vita in tutta la sua tragicità, limitandosi ad osservarla senza lasciarsi andare a lamenti disperati o imprecazioni (come invece fecero altri scapigliati). Egli riuscì ad esorcizzare questo terribile spettacolo della vita solamente con l’ironia (si badi bene, non col cinismo); trattando un

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argomento frequentato dalla poesia contemporanea, come il dualismo, in modo assolutamente nuovo e originale.

Addirittura Croce affermò che “tra la forma romantica del Boito e quella

degli ordinari romantici corre la differenza medesima che tra il linguaggio di in qualsiasi verseggiatore, imitatore dei classici, e quello, classico, di un Giacomo Leopardi”.

Tuttavia le immagini prodotte dal poeta non sempre riescono a acquisire una piena efficacia, lo sguardo ironico spesso getta una luce di frivolezza su tutto il contorno.

Di notevole fattura è la leggenda di Re Orso (1865), l’unica poesia del genere che abbia mai conosciuto la letteratura italiana, nella quale troviamo tutto il repertorio del Romanticismo – dai frati indemoniati ai trovatori, passando per scene di stragi, apparizioni e serenate sotto i veroni -; nel quale il falso medievalismo rappresenta l’elemento ironico del poemetto.

Il Re Orso rappresenta il Male, inteso come violenta e selvaggia manifestazione della natura, ma anche un tiranno goffo e pauroso ed è avversato dal un nemico di pari grado: il verme, cioè la Morte, che trionfa su ogni cosa.

Boito, da buon musicista, riuscì a creare nella poesia delle suggestioni musicali così potenti da rimandare istintivamente a quello che sarà il suo capolavoro: il Mefistofele.

In quest’opera egli non si limitò a riprodurre, come hanno fatto altri, la storia d’amore tra Margherita e Faust, ma diede grande risalto alla figura di Mefistofele (come il titolo stesso ci indica), l’ombra del quale si riflette sullo Jago verdiano: è la tragedia universale che interessava Boito, il sentimento infelice è solo una parte di essa.

Sempre parlando di opere, Croce citò nel suo studio il Nerone come uno dei più originali lavori dell’artista: il periodo della storia romana preso in considerazione, così ricco di contrasti e di avvenimenti turbolenti, si confaceva appieno con il suo animo e l’interessamento, più che ad una prospettiva storica o morale, si concentrò sul fascino esercitato dalla follia di Nerone, “che sembra toccare coi suoi delitti il fondo

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dell’esistenza e fare risonare tutto ciò che esso contiene di misterioso e pauroso”.

Giovanni Camerana.

Il contenuto psicologico dell’opera del Camerana è esattamente lo stesso di quella del Boito, essendo entrambi i poeti attratti dall’orbita di un tardo romanticismo; l’unica differenza sostanziale che possiamo cogliere riguarda l’orientamento della poesia: se il Boito prediligeva irrorare i suoi componimenti di echi musicali, Camerana guardava con maggiore interesse verso la pittura. Egli stesso, infatti, essendo un discreto pittore e un grande intenditore, riuscì a dipingere suggestivi quadri con la sua poesia, attraverso delle pennellate degne di un impressionista e distruggendo lo schema consueto delle strofe.

I suoi tentativi di fare poesia diventarono infelici solo quand’egli tentò di imitare il Boito, ricercando soluzioni musicali o l’ironia dei contrasti. Conformemente alla sua natura, l’animo romantico del poeta-pittore si concretizzò letterariamente in descrizioni delle bellezze naturali; ma

“drammatici sono i paesaggi del Camerana, che riflettono nelle loro luci ed ombre l’angoscia, la lotta, lo strazio cosmico; la natura è in lui, non meno che le scomposte passioni umane nel Boito, il simbolo dell’onnipresente mistero, non gaudioso e radioso, ma doloroso, cupo, terrificante”. Il senso di angoscia interiore, dunque, si rifletté nei

soggetti che sembrano combattere una perenne battaglia universale. Tutto l’intero cosmo, con al suo interno l’umanità, è scosso, “pecca e

soffre” ; mentre il poeta osserva questo orribile spettacolo con terrore

misto a piacere, non riuscendo a liberarsi dell’attrazione che esercita su di lui.

Con lo stesso sentimento misto di desiderio e paura Camerana guardava le donne da lui descritte, ammantate di mistero e delitto: “Costei è il nero fatto carne viva

Per l’alta ebbrezza nostra ed il tormento: certo costei dal bruno abbracciamento degli uragani e della notte usciva.

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Certo nata è costei, tigre lasciva, cupa tigre dal passo ambiguo e lento, quando, o Trinacria, te comprime il vento d’Africa o strugge la gran vampa.” 11

In queste descrizioni, tuttavia, si possono notare certe forme decadenti, dove “l’eroico si muta nel selvaggio e nel crudele” e dove la bellezza diviene tormentata, sensuale e pericolosa. In verità, il poeta, conformemente alla sua anima romantica, ricercava la pura, bionda vergine; ma non era capace di ritrovare da nessuna parte quest’ideale che acquetasse la sua angoscia.

Egli tentò di sottrarsi al dolore esistenziale che lo travolgeva rifugiandosi nel passato, in assoluta contemplazione, senza doversi sentire assalire dall’ansia del dovere, e ricercò dentro di sé una fede perduta nel passato (dedicò a Maria un’intera corona di poesie e cantò il santuario di Oropa).

Iginio Ugo Tarchetti.

Il capitolo che il Croce dedicò al Tarchetti, un uomo al quale egli pure riconobbe un “ingegno meditativo”, è molto breve: assai scarsa fu la sua vena artistica e le grandi interrogazioni che egli andava facendosi sulla vita e sulla morte non ne fecero un filosofo.

Legato indissolubilmente all’esperienza romantica, lo scrittore scapigliato lamentò un bisogno d’amore impossibile da ottenere, una nostalgia per i brevi e felici anni della giovinezza contrapposti all’angoscia della maturità, il pensiero costante verso la morte e il terrore di essa, una tendenza verso il soprannaturale e un completo disinteresse per la quotidianità.

I racconti che egli pubblicò risultano solo dei pretesti per portare all’attenzione del lettore ed esibire una sua particolare riflessione; inoltre, da un punto di vista puramente letterario, il Tarchetti scrisse

“non bene”, in modo “impreciso, pallido, verboso”. E, secondo il Croce, a

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quest’ultimo difetto non si può rimediare: è una prova della debolezza artistica e mentale dell’autore.

Le storie ed i personaggi sono inconsistenti, sbiaditi e freddi; anche quando si parla di quello che viene considerato il suo capolavoro:

Fosca:

“Se il prologo sembra preludere a una tragedia, e l’enfasi che accompagna il racconto inculca la tragicità, il racconto stesso potrebbe ben essere la relazione, che un uomo intelligente fa ad un medico, dei sintomi e delle fasi della propria o altrui infermit{.”

Il Tarchetti riportò, dunque, la nuda e bruta realtà di un fatto che gli era realmente occorso, senza rielaborarlo attraverso la propria immaginazione, facendolo così risultare “materia di storia e non di

poesia”.

Tuttavia, nonostante la sua mediocrità, Tarchetti egli ebbe un grande successo tra i contemporanei. Croce stesso ammise la leggibilità di certe piacevoli e, soprattutto, sincere riflessioni, che spesso raggiungono una bizzarria filosofica.

Simili a questi interessanti brani, sono i componimenti della raccolta

Disiecta, dove vengono descritti sentimenti “appena saliti a fior dell’anima, e fermati nei tratti più generali, enunciati più che svolti” con

una grande efficacia.

Carlo Dossi.

“Irto di linguaggio spinoso, di una sintassi contorta, di un’ortografia e una punteggiatura contro l’uso corrente. Linguaggio misto di parole dialettali o addirittura derivate e coniate dall’autore stesso; sintassi spesso latineggiante […]”.

Con questa considerazione il Croce principiava la critica sul Dossi, accostandolo alla figura analizzata (nel capitolo precedente del suo

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